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Scrittura

Il suono dei frammenti

estratti da "Un racconto di frammenti"

UN FRUSCIO LONTANO

Com’era esattamente il suono di quel piccolo giradischi di plastica rossa? Senz’altro la resa acustica sarà stata assai inferiore a quella del mio sofisticato impianto stereofonico attuale. La musica usciva solo dai pochi buchetti dell’unico altoparlante e ad alzare troppo il volume tutto l’apparecchio vibrava, emettendo fastidiose storpiature. Un suono un po’ limitato, dunque.Arricchito dai continui fruscii che l’usura apportava ai dischi, canzoni italiane degli anni ’60 e ’70 e successi francesi cantati in italiano dagli stessi interpreti originali con un inconfondibile accento fascinoso. Brani ascoltati innumerevoli volte, di continuo.

Con il termine che avresti usato tu, e che forse usavi, si trattava di un mangiadischi, in cui i 45 giri venivano letteralmente ingoiati con uno scatto che ricordava un rapido boccone. Un semplice clic e la canzone cominciava. Si univa alle note una voce bassa e incredibilmente vissuta, appesantita e trasformata dal tempo. Tra i miei primi ricordi. Un rituale, in fondo. Incantato dalla musica e dai lenti gesti consuetudinari. La continua sequenza di rapporti e di convivenza tra un’età in fiore e un’età sfiorita.

La grande camera dal pavimento in legno è carica di oggetti e simboli, a cui sono tanto abituato da non riuscire più a scorgere la loro bellezza o l’autentico squallore. Mi succede da sempre di confondere i giudizi su quello che ha l’aria troppo familiare. Ma senza sosta i pollini bianchi volano, in schiera, fuori dai vetri del balcone, in giardino; volano e circondano la stanza e tutta la casa. E sono un chiaro segnale della natura e della vita che si muovono tutt’attorno, intorno ai simulacri passati che riposano sulle mensole e sui mobili d’antiquariato.

Allo stesso lento ritmo riposa la loro padrona. Sulla piccola poltroncina rivestita di velluto dorato dormi con la testa leggermente reclinata. Sembri sveglia. Con la schiena retta e le mani nodose appena strette una nell’altra. Si sente però il respiro più pesante: allora sì, dormi. Davanti agli occhi ho lo scialle di lana rosa, infeltrito dai mille lavaggi, che ti copre le gambe e il grembo.

Da bambina qualche volta marinavo la scuola. Insieme a Lella imboccavo il viale che recava alla scuola ma poi svoltavamo in una stradina sterrata laterale e presto ci trovavamo nella campagna. Le piante da coltivazione si espandevano ordinate a vista d’occhio, l’erba mi accarezzava le gambe scoperte e il sole evidenziava la lucentezza di ogni foglia, del cielo e dei nostri vestiti colorati. Ci fermavamo a prendere qualche flutto, facendo attenzione che i contadini non se ne accorgessero. Soprattutto i limoni che mi piacciono tanto. Con le mani profumate dopo la raccolta scivolavamo correndo per i prati, giocando a rincorrerci. Lella correva sempre più veloce di me. Ma ero talmente felice e spensierata che avrei potuto librarmi in aria per la contentezza! Quando eravamo stanche, sfinite, ci siedevamo sulle pietre più lisce e da li guardavamo il mare che si perdeva all’orizzonte davanti a noi, ed era di un azzurro intenso che metteva inquietudine, eternamente li a circondare tutto. Poi succedeva che mi sgridavano ma ne ero quasi contenta: significava che quella giornata aveva avuto un senso, era stata proprio straordinaria.

Nei lunghi pomeriggi invernali il bambino guardava i cartoni animati, sprofondato nella grande poltrona morbida di fronte alla televisione. Mentre i suoi occhi venivano rapiti dai colori fantasmagorici delle immagini giapponesi, le mani infaticabili della figura bianca si affaccendavano in cucina nella preparazione di spremute d’arancia e fette di pane spalmate di marmellata. Prima della scoperta della Nutella, naturalmente. il rumore dei passi cadenzati e striscianti annunciava sempre la merenda, servita in un piattino di plastica con i fiori rosa accompagnato da un bicchiere di vetro stretto e lungo. Per tutti i giorni feriali di ogni settimana.

Sgattaiolando silenzioso nel corridoio mi piace spiare i movimenti degli adulti. La nonna sistema le camere, porta qualcosa in cucina, esce un attimo sulla veranda. Si accende una luce nella cameretta in fondo, mi nascondo nel bagno per osservare cosa succede. Ancora interminabili faccende da una parte all’altra. Senza parlare ma pensando a chissà cosa. Ogni azione ha l’aria di essere meccanica, ripetuta ormai a memoria, ma c’è una cura attenta in questi gesti, non si scorge ombra di stanchezza nelle mansioni continue. Stregato dai segreti che racchiude quell’involucro umano, dall’insieme latente di ricordi importanti e di sbiadite immagini, impressioni sulla vita con il pensiero a un ignoto che non smette di avvicinarsi.

Quando c’era la guerra correvamo nella galleria a proteggerci dalle bombe, non appena le sirene cominciavano a suonare. Era un momento frenetico in cui mollavo tutto ciò che stavo facendo, prendevo i bambini e mi precipitavo in strada. Davvero in un lampo. Figurati che una volta la nostra vicina trovò un lenzuolo che volava fuori dalla porta che avevo lasciato aperta e, dopo averlo raccolto e riavvolto, lo buttò dentro casa e chiuse la porta prima di scappare anche lei. Erano attimi assurdi, aleggiava una frenesia e anche le pareti trasudavano la tensione che veniva sparata giù dal cielo e colpiva tutti noi che esplodevamo dentro con un tuffo al cuore. E non ti dico la paura quel giorno che mi dirigevo verso la galleria con tua mamma appena nata in braccio e d’improvviso dall’alto piombarono due grandi mani che me la presero di forza: era solo un giovanotto enorme che voleva aiutarmi a procedere più velocemente. Quanto sangue, sapessi. Mi ero ferita al viso e il sangue mi colava giù e ricopriva anche tua mamma piccolissima, che mi dormiva in braccio; e l’infermiera vedendola mormorava: “Povera creatura”, pensando che fosse morta tanto era macchiata di rosso.

Da ogni discorso risultava la fiducia nelle persone, nell’autentico spirito di gruppo che accomunava nei periodi duri e difficili. L’atmosfera della guerra assumeva toni colorati, romantici nella fantasia del bambino che pendeva dai racconti. Le avventure della fuga e il risvolto divertente dei fatti, accentuato forse dalla sicurezza di avercela comunque sempre fatta, si inanellavano come perle di una collana preziosa insieme alla solidarietà che regnava nel rifugio della galleria. Toni accesi e accenni al miracoloso tingevano ogni piccolo particolare rendendolo una storia compiuta, con un’azione complessa, vivace, ricca di suggestione e adatta a far galoppare l’immaginazione.

Seguo una striscia odorosa che mi porta nella camera da letto. Gli occhiali dal contorno nero, quelli per leggere, sono sul comodino vicino al rosario inseparabile. Sulla mensola dell’armadio con lo specchio c’è una spazzola con attaccati alcuni capelli bianchi candidi. Mi volto e sulla poltroncina c’è la borsetta di pelle nera, sempre pronta con tutto l’occorrente, dai documenti ai fazzoletti, al portafoglio, alla bottiglietta d’acqua: il necessario per uscire di una persona che da tempo non abbandona la sua casa se non per eventi eccezionali. L’essenza nell’aria è il profumo di gelsomino e bergamino, richiama alberi da flutto, sole e distese piane. Io comunque sento il ticchettio di un orologio che riporta al piano della realtà e mi fa capire che non si tratta di una scena fissa sognata.

D’estate è molto bello andare al mare, fermarsi un mese nell’appartamento delle vacanze mi piace. Ma che nostalgia della mia casa. Quando ci ritorno non mi sembra vero averla abbandonata. Senza di me è come se le cose non andassero avanti, mi sento di un’importanza vitale per questo tetto, per le pareti e per chi ci vive dentro. Per la mia bambola dal vestitino a macchie, che va pettinata ogni tanto, per il grande specchio dorato, che ha bisogno di essere spolverato, per le piantine di basilico li sul balcone e le tende da tirare a seconda del sole. E poi se non ci sono io, chi cucina qui dentro? No, no, in mia assenza è la fine.

Come un giorno lontano, ordinario, reso speciale da una nevicata fittissima che durante la notte aveva imbiancato tutto. Mia ripresa della tormenta le lezioni scolastiche erano state interrotte e il ragazzino si era diretto svelto verso quella casa. C’era stata la gioia reciproca, la sorpresa dell’inaspettato momento e l’atmosfera si era trasformata in una festa corale. E anni dopo il ragazzino ricorderà ognuno di questi dettagli una volta di fronte alla realtà. È strano.

È strano come l’ultimo incontro fra due persone sia sempre casuale, per niente solenne. Quando ci si ripensa viene rabbia, mista a dispiacere, per la totale mancanza di coscienza dell’importanza definitiva che riveste quell’evento. Può succedere, ad esempio, di salutare distrattamente una persona, darle un bacio come si è fatto innumerevoli volte e come si pensa di fare ancora all’infinito. Invece è l’ultima occasione. La notte dopo un telefono ti comunica che la persona in questione è partita, cosi senza avvertire minimamente. E lo sconcerto è tale perché‚ sembra inverosimile che il rapporto stretto e continuo che si era instaurato abbia a terminare con un colpo secco, come uno strappo.

Per qualche tempo dopo ho continuato a sentire lo strisciare dei tuoi passi incerti alla fine del corridoio e ho annusato ancora il tuo odore da una camera all’altra. Poi, più velocemente di quanto pensassi, dite non sono rimasti che gli occhiali appoggiati sul comodino, segni senza vita che hanno perso un senso e si sono rivelati inutili. Con sorpresa ho scoperto il significato dell’assenza e la condizione di intollerabile angoscia che essa comporta. Mentre avanzava l’inverno ho provato sulla mia pelle la sensazione di freddo autentico e ho cercato invano un angolo riscaldato, una fonte di tepore, in ogni ambiente della casa, in tutti i simboli del passato, passando in rassegna gli oggetti che ti appartenevano.

Riaffiora il piccolo giradischi rosso, appoggiato sulle ginocchia stanche. Clic. Viene inserito il disco. Si canta di un amore ormai finito, di cui non resta niente, neanche i ricordi. La storia va sfumando, risucchiandosi in un vortice, e la voce si fa sempre più debole, sparisce progressivamente. Ma lui poi torna da lei? Cosa succede dopo? Lei lo aspetta e lui ritorna? Si, certo. Staranno di nuovo insieme. Riassicurazione inutile su una canzone amara e definitiva. Tenero inganno raccontato al bambino e reciproca ingenuità: quello che è scritto non muta con il semplice desiderio di donargli un finale lieto. La canzone s’intitola “Non è casa mia”.

QUALCUNO

Se dovessi associarli ad un colore sceglierei il viola, tonalità intensa e non scontata. Quando entrai in quella casa per partecipare alla festa avevo già intuito che qualcuno avrebbe fatto colpo su di me.

“Essendoci infinite sfumature di colori in natura, chissà quante di queste non vedremo mai…”, disse lei distrattamente, ma con un velo di rimpianto nella voce.

“Ma no! Basta prestare attenzione e col tempo si scoprono tutte le componenti possibili della tavolozza”, lui era più sicuro e la fissava con amore. Non potei fare a meno di gioire dentro me a quel discorso e di sentirmi attratto dalla complicità di quei messaggi.

“Io potrei sempre inventare un colore che tu nemmeno immagini, mio caro! E se non te lo mostrassi tu ne ignoreresti l’esistenza”.

“Mi basterebbe guardarti negli occhi per trovarci riflesso il tuo colore, e allora lo conoscerei”.

Lei era adagiata sul divano e faceva le fusa come un gatto. Lui in piedi di lato, scrutava fuori dalla finestra e fumava.

Provai forte il desiderio di far parte di quella coppia. Non di essere lui o lei ma di partecipare attivamente al sentimento che c’era tra loro, di poter stringere l’impalpabile complementarità.

“Il cielo è limpidissimo stasera. Si vedono talmente tante stelle che fanno quasi paura, tutte a pulsare lassù…”, lui le rivolse queste parole praticamente sottovoce. Lei scrollò i capelli indietro e chiuse gli occhi sorridendo, sorridendo a lungo.

Senza dubbio l’odore che attribuirei loro è quello dei fiori del calicanto, un’essenza leggera, appena scostante, che si insinua a tratti finché‚ diventa indimenticabile.

Lei si mise a canticchiare una canzone che suonava in quel momento. Entrambi si voltarono e si fissarono. Comunicavano senza parlare e per questo li invidiai.

C’erano tanti miei amici alla festa, eppure preferivo rubare parte dell’atmosfera sottesa di legami profondi che circondava quelle due figure.

“Prenderò un’altra tartina. Tu ne vuoi? E tu?”, la ragazza si rivolse a me e mi coinvolse d’un tratto nel loro discorso. Entrando però nella conversazione non potevo più osservare quell’idillio da una posizione distaccata.

“Sì, ti ringrazio”, risposi e rimasi solo col ragazzo. Lui continuava a fissare lo scenario notturno dai vetri. Aveva qualcosa di teneramente impacciato nei modi e risultava subito simpatico.

Da una stanza attigua giunsero risate come scricchiolii intermittenti.

“Il bello di queste feste è che ci si può rendere conto, allegramente, di quante persone ci stiano vicine eppure di come solitaria sia la nostra vita…”, non mi aspettavo che parlasse cosi e restai ammutolito dallo stupore.

Non ebbi tempo per pensare se intervenire: la ragazza rientrò nella stanza e la sua espressione aveva un piglio di solennità intransigente che invitava al rispetto.

Dovendo paragonarli a un suono penso all’arpeggio sinuoso e magico, quell’interludio che introduce a musiche ricercate e dirompenti.

“Non so proprio che ci facciamo qui! Siamo completamente separati da tutti gli altri… e poi non riconosco più i nostri amici.

Gli occhi si sono aperti, sono apparse le immagini reali che prima mi rifiutavo di vedere… e lo spettacolo è desolante…”.

Era sconsolata e sorpresa, faceva pena. Lui le circondò le spalle con un braccio e la scosse un po’.

“L’uomo è un essere sociale, ma è fatto per vivere con un numero ristretto di suoi simili. Non possiamo comprendere ed apprezzare tutti. Dobbiamo cercare qualcuno e dedicarci a lui.

Io ho trovato te e tu hai trovato me. Se ci pensi su è già una fortuna impareggiabile!”, si abbracciarono sorridendo, con un sorriso melanconico, e rimasero così in silenzio.

Ero tornato spettatore della scena. Quei due ragazzi mi colpivano per l’ingenuità delle loro conclusioni, e contemporaneamente per la lucidità con cui avevano focalizzato il problema.

Mi sentivo esternamente partecipe dell’unione che vincolava uno all’altra, un’unione che si vestiva di disperazione e sfociava nella necessità di una affinità completa.

Di nuovo, e più intensamente, mi sentii attratto dalla sensibilità che legava quegli spiriti giovani.

Non so spiegarmi perché, ma quando ripenso a loro sento in bocca il gusto delle pesche, che mordi affondando nel morbido, succoso, dolce.

Com’ero entrato in quell’appartamento così sono uscito, non avendo neanche sfiorato la festa e le persone. Per un attimo mi ero immerso nella sostanza evanescente dell’intenso rapporto tra due soggetti in sintonia. Mi ero innamorato del filo che intreccia i destini e l’esperienza di una coppia in pena, spaurita e per questo perfetta.

Scendendo veloce le scale mi sentivo eccitato e incredibilmente soddisfatto. Ero contento di aver incontrato qualcuno.

CREDITI:


1996/97-Recensioni “Ed Wood” e “I racconti del cuscino” finaliste al Concorso Recensioni Cinematografiche A. Ferrero di Alessandria


2000-Racconto “Qualcuno” 2° classificato al premio letterario Arte Primier Megyc di Padova

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