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Cinema

Carlo Mazzacurati

La lingua del Santo

FilMakers (FM): Come sono stati scelti gli attori protagonisti di questo nuovo film, Fabrizio Bentivoglio e Antonio Albanese, una coppia comica e patetica allo stesso tempo?

Carlo Mazzacurati (CM): Sono stati scelti per due motivi quasi opposti; io non sapevo di preciso che cosa sarebbe nato da questa combinazione, poiché il risultato del mettere insieme due attori è sempre imprevedibile — soprattutto quando questo incontro non è ancora avvenuto. Ad ogni modo, immaginando questo film, ho lavorato molto prendendo spunto dalle persone che conoscevo: mi sono basato su dei modelli umani molto precisi. La persona che mi ha ispirato il personaggio che poi è stato interpretato da Albanese, gli è molto simile come temperamento, carattere, irruenza, mentre la persona che ho fatto interpretare a Bentivoglio, non ha invece quel tipo di carattere. Tuttavia Fabrizio Bentivoglio è un attore molto capace di assorbire, di entrare in una personalità. È in grado di mimetizzarsi e di tirare fuori da se stesso quello che gli si chiede. Questo è stato il movente iniziale. Poi ci sono alcuni modelli ai quali avevo pensato quando la storia era in fase embrionale. Cercavo da un lato una persona che tendesse a suo modo ad elevarsi, che possedesse un pensiero — seppur folle — che guardasse verso il cielo; e dall’altro lato, a un personaggio più concreto, immediato, spinto da necessità di fame, di bisogno, pensando in modo molto personale anche al modello di Don Chisciotte e Sancho Panza. Questo insieme di motivi mi ha portato alla scelta definitiva di Bentivoglio e Albanese.

FM: Nel corso della conferenza stampa ha detto una cosa secondo me molto interessante e anche molto bella ovvero che da un po’ di tempo, e particolarmente in questo momento, nel cinema italiano è forte la paura di rischiare: c’è paura di fare “il film sbagliato”, come se si potesse trattare del film che fa crollare l’industria cinematografica italiana. I registi stessi, quindi, corrono pochi rischi. Mentre il suo è un film che corre dei rischi: sono evidenti alcune piccole stravaganze, o dei piccoli eccessi. Ed è probabilmente molto bello quello che ha detto prima: non è vero che il pubblico, gli spettatori, si aspettano sempre e comunque di vedere esattamente ciò che viene loro proposto; al contrario sono invece ancora in attesa d’essere sorpresi, coinvolti, di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo…

CM: Penso che ciò sia importante. Questo è il mio personalissimo contributo a tale tentativo e atteggiamento. Poi è difficile stabilire da parte mia se la cosa sia riuscita.. È certamente vero che in questo momento — parlo anche come spettatore — il rischio è che in una situazione così difficile, dove ogni film è atteso al varco, controllato come se fosse il portatore del virus che farà morire questo povero disgraziato cinema, tutto ciò irrigidisce inevitabilmente chi fa questo mestiere e non ha la libertà sufficiente per prendersi dei rischi. E invece il cinema è per sua natura qualcosa che deve — secondo me — muoversi con la voglia d’esser rischioso. Essere cioè sorprendente, inatteso e libero soprattutto. Penso che questo sia importante.

FM: Tu hai girato sempre delle commedie un po’ particolari — non so se ti va bene, se ti calza l’etichetta di commedia all’italiana -. Comunque, anche se ci sono delle storie drammatiche come “L’estate di Davide”, non hai mai pensato di girare invece delle storie che abbiano un tono diverso? Pensi che il tuo cinema sia fondamentalmente legato a quest’esperienza o pensi che potresti anche fare dei film con scelte stilistiche diverse?

CM: Non mi pongo problemi stilistici. Mi pongo di volta in volta gli obiettivi più semplici, cioè quelli di raccontare una storia. Poi la forma della storia è determinata dalla storia stessa. All’inizio di questo progetto, quando era ancora un embrione che stava prendendo corpo sul piano dell’intenzione, non avevo idea del tono che poi avrebbe avuto. E questo vale per ogni film, in un certo senso. Non stabilisco prima cosa vorrei fare sul piano stilistico, cercando poi una storia adatta per quel piano. Non so se si possa definire commedia, perché non so bene, in questo tempo, quanto sia semplice mantenere ogni film completamente all’interno della struttura di un genere preciso.

Per me, per esempio, questa è la storia di un uomo che ha perduto sua moglie, la donna che lui ama, e che farebbe qualsiasi cosa, compresa questa follia, per dimostrare che è ancora in grado di fare qualcosa. Entro questa traccia si è poi sviluppata la vicenda. È molto diverso il modo in cui nasce, come si costruisce e quali sono le intenzioni iniziali d’un progetto rispetto a quello che poi giustamente ciascuno vede, apprezza o non apprezza. Mi sembra che un film debba essere una specie di cipolla che si può sbucciare ed avere vari strati di lettura: penso che il film sia qualcosa da cui ciascuno può attingere… Ho visto ad esempio un film con dei ragazzi in una situazione scolastica. Ho visto che si divertivano e apprezzavano forse l’inadeguatezza, l’idiozia un po’ infantile che, per altri versi, per me, rappresenta anche altro. Non si è poi così consapevoli dello stile, lo stile è qualcosa che non si controlla.

FM: Volevo sapere se il personaggio interpretato da Albanese è nato come “non padovano” oppure se è stata fatta questa scelta perché magari Albanese era un padovano poco plausibile…

CM: La verità è che il personaggio da cui io ho preso spunto era uno studente di fuori città che mi aveva molto colpito perché, quando l’avevo conosciuto da giovane giocava a rugby; era molto entusiasta, come tutti gli studenti, era molto felice di andare in un’altra città perché era libero. E dopo alcuni anni lo avevo trovato invece desideroso di andarsene dalla città, come se — capita spesso a Padova — non avesse trovato un suo spazio. Quindi, l’idea che fosse — senza sottolinearlo troppo — qualcuno che viene da fuori e che non trova un suo spazio, era collimante anche col fatto che lui poi agisse in tal modo; ma non è che mi sia posto molto questo problema dal punto di vista formale, della lingua, dell’accento.

FM: Io ho visto i tuoi film “Il Toro” e “Vesna Va veloce” e li interpretavo come la storia dei personaggi che raccontano un ambiente nel quale sono immersi. C’era la storia delle ragazze dell’est che vengono in Italia, dei i cambiamenti nell’est stesso… almeno, personalmente, l’avevo letta così. Invece questa volta la storia è fatta proprio sui personaggi. Io mi aspettavo di vedere anche l’ambiente del Veneto che, tuttavia, m’è sembrato, in questo tuo ultimo lavoro, meno presente che negli altri film…

CM: Non so come rispondere, non riesco a leggermi e spiegare. Io giro il film, poi quello che succede e il risultato è tutto nel film. Per quel che io immagino e trovo in questo film, uno dei personaggi, magari con un atteggiamento e un modo di raccontare forse un po’ più grottesco e sopra le righe, è anche il luogo in cui i protagonisti sono immersi, la temperatura di questo periodo, e — per come la vedo io — della regione in cui vivo. Ci sono svariate situazioni che raccontano — magari con un tono diverso —, ma l’ambiente c’è ed è molto presente. D’altra parte non è che i film precedenti fossero ad uso e consumo della spiegazione degli avvenimenti in questi paesi con lo sguardo di una ragazza del posto o viceversa i paesi dell’est visti dai miei personaggi. Essi sono stati principalmente dei film che hanno vissuto dell’umanità dei loro personaggi e si sono fondati sull’invenzione che la storia ha di per sé.

FM: Perché finire con “Guantanamera”?

CM: Semplicemente perché pensavo che rappresentasse il prolungamento di quell’affresco presente sullo sfondo del bar, che evoca paesaggi lontani di mari e luoghi immaginati da una città mediamente fredda e umida… è come un prolungamento dentro un contesto molto piatto. Queste ultime immagini sono immagini della televisione vera che documentano la restituzione veramente avvenuta nel ’91… È come la presenza dello spirito del personaggio di Albanese che aleggia con una certa ironia sul clima, che poi rimane invariato.

FM: Io ho visto molti suoi film, e ho sempre notato che le figure femminili venivano ritratte con molta sensibilità in quelle che erano veramente delle ottime interpretazioni. Perché la figura femminile e forse con essa anche quella che può essere un’idea del rapporto amoroso, è tanto basilare nel suo cinema quanto sfuggente? Perché questa scelta di sfiorare quasi le interpretazioni delle figure femminili, che pur essendo caratterizzanti non risultano essere sempre centrali nel suo cinema?

La seconda domanda: lei trova un’analogia fra i due protagonisti de “Il Toro”, che rubano il toro per cercare fortuna, e questi due protagonisti de “La lingua del Santo”, che rubano la reliquia del Santo per cercare altrettanta fortuna?

CM: Questa è una domanda molto giusta. Peraltro me l’aspettavo molto più dichiarata su quello che avrei detto dopo il film. Invece non è mai stata menzionata. È decisamente vero. Io francamente di questa seconda cosa me ne sono reso conto quasi ottusamente all’inizio delle riprese del film. Avevo ideato la storia, poi scritto la sceneggiatura, quindi avevo lavorato parecchio sulla faccenda, e solo a un certo momento ho come realizzato: ma insomma è molto simile ‘sta cosa… Però poi ho anche pensato che, in fondo, lo spirito contenuto in quest’avventura era un altro percorso, un’altra avventura per me. Quindi ho pensato che avrei dovuto comunque non pormi questo problema, anche se trovo che esso sia sostanzialmente vero.

Per quel che riguarda la prima domanda, è qualcosa di difficile… Peraltro io ho fatto anche un film che si chiama “Vesna va veloce” in cui teoricamente la protagonista è una ragazza. Ma il film per me rimane sempre un passo indietro, cioè non riesce mai a entrare dentro l’io vero di questo personaggio. Penso che questo dipenda dalla posizione che posso avere io nel raccontare una figura femminile che è qualcosa per me di misterioso e affascinante ma che proprio per sua natura si contrappone a volte a una dimensione di inafferrabilità. Quindi, più che tentare di raccontarmi, a volte dichiaro questo grado di posizione, e vedo che il racconto, lo voglia o no, poi si realizza sempre così.

FM: Volevo tornare sulla questione stilistica, chiedendo se effettivamente la narrazione di una storia nei suoi film diventa molto più importante di qualunque tipo di scelta stilistica che poi viene fatta…

CM: Se per stile s’intende un tono che può imparentare o meno — ad esempio quest’ultimo film — al genere di commedia, è vero, nel senso che io cerco di costruire una struttura narrativa che trovo credibile, che funziona, che sento crescere, che mi sembra procedere con forza. Dopodiché, in realtà quella è una prima definizione, una specie di tracciato che tu hai come guida, che sia il copione nel senso della sceneggiatura o tutto quell’insieme di annotazioni che ti sei fatto man mano che procedeva la costruzione di questo percorso. Poi ogni fase di lavoro, le riprese, il montaggio, sono forme di scrittura che ritornano, riflettono, allargano, aggiungono, deviano a volte… Io credo — per la mia esperienza e per quello che faccio io — che sia necessario avere una struttura molto solida di storia che funziona e poi avere abbastanza libertà, nelle fasi successive, di andargli anche contro, in un certo senso. Per esempio in questo caso credo che alcuni toni nonché un certo clima che il film ha, sono conseguenza di quello che abbiamo raggiunto durante le riprese e di alcune invenzioni che erano possibili e immaginabili in scrittura ma non erano ancora maturate; conseguenza anche di un modo di chiudere il montaggio, di costruire questo racconto attraverso il montaggio. Tuttavia, il mio obiettivo principale è sempre quello di credere a ciò che sto facendo e di sentire che sta funzionando man mano che lo sto facendo. Poi lo stile che questa cosa avrà è un effetto inevitabile di questo tipo di percorso.

FM: Mi sembra che nei tuoi film spesso i protagonisti siano personaggi difformi rispetto a quelli che sono i modelli di successo della cultura dominante. Essi sono, in tal senso, i perdenti, gli emarginati ecc…

CM: È vero, però più che emarginati o disperati, a me sembrano più, forse… appartati, che hanno una loro vita comunque. Questi due personaggi, con tutti i loro problemi, in fondo, a loro modo, hanno una dignità. Soprattutto il personaggio interpretato da Fabrizio Bentivoglio, in fondo sta cercando di riconquistare una dignità, di credere a se stesso. Paradossalmente, questo gesto così immorale, quasi sacrilego, a lui serve invece proprio per riconquistare una moralità. È un po’ il paradosso di tante vite che però si pongono da questo punto di vista il problema della vita, che hanno anche un problema etico. E questo non è un tempo in cui chi si pone un problema etico sull’esistenza ha uno spazio semplice nell’esistenza. Qui c’è quasi un paradosso, no?

FM: Ho avuto l’impressione che nel film ci sia la ricerca, la voglia dei veneziani di recuperare, di ritrovare Venezia… Questo finale sulla laguna con un’immagine così come la vedono i turisti ma al contempo ripresa in un ambiente ormai dimenticato…

CM: Mah, io ho immaginato e pensato che la laguna poteva essere una sorta di piccola foresta di Sherwood, perché in fondo è l’unico spazio fisico ancora non economicamente organizzato e utile di tutta la pianura. Per il resto è un po’ difficile passarci dentro e nascondervisi. La laguna è, per sua natura, un luogo un po’ inafferrabile, perché un giorno è acqua e un giorno è terra: si muove… È poco produttiva sotto certi aspetti, al di là della pesca, come luogo da dominare, com’è avvenuto nel resto della natura del paesaggio veneto. Essa diventa luogo protettivo, che accoglie, e al suo interno ci si sente a proprio agio. Questo non so che tipo di valenza simbolica possa avere però, insieme all’acqua, ci sono tutti elementi che rispondono a un’idea anche simbolica di luogo protettivo.

FM: Che difficoltà avete avuto durante le riprese del film?

CM: Ne abbiamo avute abbastanza: quelle medie che incontra una produzione italiana media o medio-piccola. Non abbiamo potuto ad esempio realizzare le riprese nella Basilica di Sant’Antonio, perché non erano ovviamente molto contenti… soprattutto il priore. Del quale tra l’altro, alcuni giorni fa, dopo l’uscita del film, è stata riportata la dichiarazione: «Non ho dato loro il permesso. Non so come siano entrati. Forse hanno usato un computer speciale». Credendo che ormai si riesca a fare… Però era anche simpatica la cosa, sembrava ancora un po’ in tema con il clima del film. Però lui non ha voluto comunque che andassimo, nonostante noi non ci sentiamo d’aver offeso nessuno. Anzi, ci sembra d’aver avuto un rapporto affettuoso con tutta la faccenda… Di conseguenza abbiamo dovuto, ad esempio, ricostruire questa basilica a pezzi, cioè tutte le sequenze dentro alla chiesa sono fatte dentro a tante piccole chiese diverse, cercando di sfruttare angolature che ci permettessero una continuità. La scena in cui viene rubata la reliquia è stata girata all’interno di una piccola chiesa sconsacrata dove fanno un teatro. L’esterno, invece, è proprio quello della Basilica di Sant’Antonio che non è controllata dal Vaticano, come invece lo è l’interno, ma è  — come dire — della città. In effetti non avremmo mai potuto costruire, nel corso d’una vita intera, impalcature che avrebbero avuto per noi costi proibitivi… per cui la sceneggiatura l’abbiamo scritta man mano che costruivano le impalcature, cioè queste sono le nostre difficoltà. Anche all’aeroporto è stato molto complicato per noi, perché eravamo quasi degli abusivi, e non è semplice girare in un aeroporto senza che quelli che controllano siano molto contenti. Abbiamo, in definitiva, avuto le solite difficoltà che ci sono per chiunque fa un film.

Sinossi


Antonio e Willy, due amici quasi quarantenni, sono frequentatori del bar Antille, il ritrovo più economico e disgraziato di Padova. Antonio è stato un giocatore professionista di rugby, famoso per essere l’unico a giocare con la sigaretta in bocca. Willy faceva il rappresentante di articoli di cancelleria, ma un vortice di fallimenti l’ha portato a perdere il lavoro e la moglie. Un giorno, mentre osservano la vita scorrere dietro le vetrine del bar Antille, si presenta loro un’occasione enorme, paradossale, e sicuramente pericolosa. In tasca hanno cinquantamila lire, in mano probabilmente un tesoro: i due intraprendono un lungo viaggio. Solo alla fine, in una notte di paura, acqua e fango, capiranno perché sono arrivati tanto lontano. Anche se poi tanto lontano non è… 


Carlo Mazzacurati: “In questo film ho cercato di mettere a confronto due mondi contrapposti. Da una parte ci sono due figure patetiche e inadeguate che rappresentano quelli che non ce l’hanno fatta, quelli che non hanno avuto successo, e, perduti tutti i treni, non gli resta altro che fantasticare, magari da un bar mal frequentato e di provincia. Dall’altra parte c’è l’oggi, il nostro presente (visto soprattutto dall’angolatura del nord-est). […] Un mondo ricco e infelice, pieno di gente spietata e triste. […]”.


Cast and Credits


SOGGETTO E SCENEGGIATURA
Carlo Mazzacurati
Franco Bernini
Umberto Contarello
Marco Pettenello
FOTOGRAFIA
Alessandro Pesci
SCENOGRAFIA
Leonardo Scarpa
MONTAGGIO
Paolo Cottignola
SUONO
Mario Iaquone
COSTUMI
Lina Nerli Taviani
AIUTO REGIA
Marina Zangirolami
INTERPRETI
Antonio Albanese (Antonio)
Fabrizio Bentivoglio (Willy)
Isabella Ferrari (Patrizia)
PRODUTTORI
Marco Poccioni
Marco Valsania
Federico Di Chio
PRODUZIONE
Rodeo Drive
Medusa Film
in collaborazione con
Tele +
DISTRIBUZIONE
Medusa Film 



Note tecniche

Italia, 1999
35 mm, Cinemascope, colore, 110’
sonoro ottico Dolby Digital
versione originale italiana

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