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Cinema

Il finale della storia è noto

 

The incredible shrinking woman di J. Schumacher

Al traguardo dei vent’anni si arriva solo una volta nella vita. Una e mai più. E allora? Semplice, bisogna esagerare. Inventare un party indimenticabile. Qualcosa in stile “La maschera della Morte rossa” di Edgar Allan Poe. Un veglione danzante a orologeria: quando la pendola batte il segnale, cala il sipario. Per sempre. Insomma, per farla breve, un veglione che, a poco a poco, diventi funerale. Di gran classe, si capisce. Con gli oratori che tessono le lodi del caro estinto, la banda abbigliata da cerimonia, le piagnone prezzolate per spargere lacrime a profusione.

Geniale, no? Peccato che, frugando tra i ricordi, quello sfarzoso party, che ben presto si rivelò sontuoso funerale, organizzato per i vent’anni del Festival del cinema di fantascienza di Trieste, lasci ancora un sapore amaro in bocca. Il gusto delle scommesse perse, delle occasioni buttate al vento, delle partite a scacchi terminate prima che l’avversario dica, con voce trionfante: “Scacco al re!”.

Vent’anni non sono un’età buona per morire. Il bello deve ancora arrivare. Eppure, nell’estate del 1983, Trieste, o, meglio, chi amministrava a quel tempo la città, decise che per il Festival di fantascienza era arrivato il momento di imboccare la strada che porta dritta dallo sfasciacarrozze. Certo, le ultime edizioni della rassegna non erano state esaltanti. Confessava con voce sempre più stanca, sempre più incerta, Flavia Paulon che, fin dall’inizio, aveva retto il timone della manifestazione: “Le grandi case di produzione non ci danno più ascolto. Siamo costretti ad accettare quello che viene”. Film scadenti, anonimi, destinati a sparire rapidamente avevano preso il posto degli osannati “The Damned” di Joseph Losey, premiato con l’Asteroide d’oro nel 1964, “Alphaville” di Jean Luc Godard, che aveva trionfato nel 1965. Ma anche de “La morte in diretta” di Bertrand Tavernier e “Possession” di Andrzej Zulawski, vincitori delle ultimissime tornate.

L'invenzione diabolica di K. Zeman

Seppellire il Festival così, mentre il suo cuore, debole, debolissimo, batteva ancora, sembrava proprio brutto. E allora? Idea geniale. L’Azienda di promozione turistica, che da sempre si occupava materialmente di dare volto e forma alla rassegna, l’assessorato alla cultura del Comune di Trieste e, nelle vesti di angelo della buona morte convocato al capezzale dell’agonizzante all’ultimo istante, la Cappella Underground, decisero di chiamare a raccolta critici cinematografici, studiosi, appassionati di fantascienza, organizzatori di altri festival, varia umanità che bazzicava il mondo del cinema, per un gigantesco consulto intitolato “Festival domani”. L’obiettivo era: cercare di capire, in due giornate fittissime di interventi e relazioni, nella vecchia sede del Circolo della Stampa, in Corso Italia 12, quante possibilità aveva la kermesse triestina dedicata alla science-fiction di sopravvivere a quella morte annunciata.

I sorrisi e le roboanti parole degli assessori, dei responsabili degli uffici culturali dei partiti di maggioranza e di minoranza, dei vari amministratori che facevano capolino, recitavano un “Requiem aeterna” di circostanza e ritornavano al calduccio nei loro Palazzi, erano semplici formule di rito. Fabio Amodeo, allora redattore capo del “Piccolo”, scriveva in un articolo pubblicato il 13 luglio 1983 sotto il titolo Rifare il Festival? È pura fantascienza: “Alvise Barison, neopresidente dell’Azienda di promozione turistica, ha concluso: le proposte sono venute, ci sono alcune offerte di collaborazione. Noi cercheremo di mettere in moto un meccanismo del quale non possiamo più essere propulsori esclusivi. Uscendo nell’afa, tutti si chiedevano: ma è possibile da noi quel coagulo di interessi, che altrove pare naturale? O il principio diffuso del ‘le difficoltà sono tante, meglio non fare’ prevarrà ancora una volta?”.

Era già tutto previsto. Tanto che quando Lino Miccichè, allora direttore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e presidente del Sindacato nazionale critici cinematografici, aveva dettato, con coraggio e grande realismo, le condizioni necessarie perché il Festival vivesse, e non vegetasse, in sala erano sbocciati sorrisi di circostanza, mugugni a mezza voce, espressioni in bilico tra lo stupito e il divertito. Perché l’ex docente di Storia del cinema all’Università di Trieste si era permesso di dire che serviva un budget di 400 milioni. E, poi, una struttura formata da una persona che si occupasse dell’organizzazione almeno per tre mesi l’anno, di altre tre per tre mesi e di una per il mese che precedeva l’inizio della maratona filmica. Un impianto di proiezione adeguato, un impianto di traduzione simultanea, con relative cuffie, un videoproiettore, un catalogo bilingue, ospitalità per registi, attori, giornalisti. E ancora qualche dettaglio.

Gorgo di E. Louriè

Fantascienza? No, normale amministrazione per un Festival. Ma il professor Arduino Agnelli, a quel tempo assessore alla cultura del Comune, si limitava a ripetere che era necessario effettuare “un’attenta verifica allo scopo di conoscere se Trieste vuole e può restare punto di riferimento costante per le opere specifiche d’uno dei più singolari mezzi di espressione della nostra epoca”. Altri amministratori, preoccupati per l’occasione, non potevano non mettere il dito in quella che, secondo loro, era la vera piaga: una rassegna come quella sarebbe stata in grado di convogliare verso Trieste masse di turisti ansiosi di una full immersion nella science-fiction? Inascoltato, Callisto Cosulich ammoniva che non è corretto ridurre tutto a “un puro e semplice incremento turistico, a un gretto ammontare di biglietti venduti”, perché, a quel punto, entrava in gioco “l’immagine stessa della città, amplificata e moltiplicata a dismisura dai mass-media”.

Fiumi di parole, che non riuscivano a coprire, a silenziare i rintocchi delle campane a morto. Difficile dirlo ad alta voce, ma il Festival era già defunto. E la sua fine l’aveva decretata, soprattutto, il disinteresse di Trieste. Sottolineava Amodeo nel suo articolo dedicato al convegno-consulto: “Erano latitanti esponenti del mondo artistico e culturale, studenti e professori, operatori e (salvo qualche eccezione) appassionati. Il che ha consentito a Stelio Rosolini, direttore dell’Azienda di soggiorno, di concludere la sua relazione, centrata sui motivi per i quali è meglio non fare un festival (per la verità, con le stesse argomentazioni si potrebbe sostenere che è meglio non far nulla) di dire: l’Azienda non si tira indietro, purché sia la città a volere il Festival. E la città non dà segni di interesse…”.

La solita sinfonia per animali pigri. Incapaci di destarsi dal loro torpore neanche quando Miccichè tuonava: restate aggrappati alla vostra fantascienza, perché non c’è più posto per i festival generici. E, in parecchie parti del mondo, stanno sorgendo rassegne che, magari all’ombra di un più generico e onnicomprensivo “cinema fantastico”, nei prossimi anni saranno famose. Niente da fare, era già tutto previsto. Salvo, poi, affrettarsi a spargere lacrime di coccodrillo, a promettere incredibili resurrezioni ogni volta che una giunta comunale, provinciale o regionale cambiava volto.

La guerra dei mondi di B. Haskin

Quell’estate del 1983, anche il cinema si trovò coinvolto nel coro che intonava il “De profundis” al Festival triestino. Utilizzando come logo di riconoscimento la luna di Georges Méliès che si vede volare nell’occhio un Faro della Vittoria formato razzo, La Cappella Underground mise assieme una dignitosissima rassegna intitolata “Fantastica”, che fece sfilare sullo schermo del Castello di San Giusto dieci lungometraggi: “Wolfen” di Michael Wadleigh, una storia di lupi mannari metropolitani che si annidano nel Bronx; “The Incredible Shrinking Woman” di Joel Schumaker, tratto dal romanzo breve di Richard Matheson “Tre millimetri al giorno”, con Lily Tomlin, partner, tra l’altro, di John Travolta in un trascurabilissimo “Attimo per attimo” di Jane Wagner, girato sulla scia del travolgente successo della “Febbre del sabato sera”; “Zeder” di Pupi Avati, con Gabriele Lavia sperduto tra gli zombi padani; “O segredo da mumia” di Ivan Cardoso, sorta di remake brasiliano dell’opera di Karl Freund con Boris Karloff; “Somewhere in Time” di Jeannot Swarc, dove “Superman” Christopher Reeve viaggiava nel tempo per amare la bellissima Jane Seymour; “Ferat vampire” di Jurai Herz, una sorta di “Christine la macchina infernale” made in Cecoslovacchia; “Heartbeeps” di Allan Arkush, tenera storia di passione e ribellione tra i robot; “Variola vera” di Goran Markovic, una parabola futuribile targata Croazia sull’epidemia di un misterioso morbo; “Next of Kin” di Tony Williams, un viaggio al femminile tra minacciose presenze che sbucano dal passato; “Krabat” di Karel Zeman, imperniato sulla sfida che un ragazzo lancia a un maestro di arti magiche per conquistare una ragazza conosciuta nel villaggio di Krabat.

Tra un film e l’altro, restava la voglia, il tempo, per fantasticare. Qualcuno, davanti a un bicchiere di Coca Cola, lasciava scivolare tra le parole la rivelazione che, per un rilancio in grado stile del Festival nel 1984, dall’America sarebbe potuto arrivare nientemeno che “Dune” di David Lynch. Se qualcuno (il Comune? la Regione? l’Azienda di promozione turistica? la Provincia? una cordata di illuminati imprenditori triestini?) avesse scucito, elargito quei maledetti, no, anzi, benedetti 400 milioni.

Il finale della storia è noto.

Il presente testo proviene dal quaderno, edito da La Cappella Underground, a cura di Massimiliano Spanu, pubblicato in occasione della manifestazione “Science+Fiction. Festival della Fantascienza di Trieste” grazie al contributo della Cineteca Regionale Friuli Venezia Giulia.

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