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Scrittura

Lada Acquavita

A colloquio con la poesia

Luciano Dobrilovic (LD): Lada, puoi spiegarci i caratteri fondamentali della tua poetica?

Lada Acquavita (LA): Lo stupore e la metafora viva — è questa la duplice radice della mia poesia.
Spogliandomi delle modalità percettive consuetudinarie attraverso lo stupore, accedo a una dimensione che mi permette di sottrarmi alla corrente orizzontale del tempo e della storia, e mi apre alla dimensione verticale del tempo, a quella dimensione che Ingeborg Bachmann, ma già prima Emilie Dickinson, hanno chiamato la possibilità della poesia.

LD: E per raggiungere tale stupore, che funzione ha la metafora?

LA: Per realizzare e oggettivare la condizione dello stupore è necessario ricorrere alla metafora. Non però alla metafora del linguaggio quotidiano, alla metafora morta del linguaggio di codice, bensì a quella che Davidson e Rorty hanno chiamato la metafora viva, metafora viva in quanto essa costituisce il dispositivo semiologico attraverso il quale si rompe la crosta di un’identità rigida formata dal sistema del Super-io, dalle norme familiari e sociali introiettate. Essa rappresenta quindi la trasgressione del codice, la violazione della regola, non nel senso di disordine e anarchia, ma in quello per cui un soggetto avverte di non identificarsi con la regola, di rimanere una persona, ossia il soggetto che interpreta il mondo ibridando il linguaggio di codice nelle sue relazioni con la realtà.

LD: Per te la Poesia è una via di ricerca interiore…

LA: Il mio libro La rosa selvaggia e altri canti eleusini è il frutto di un processo d’individuazione, della ricerca del Sé secondo la definizione di Jung, di un percorso interiore che, per distinguerlo dalle strettoie della psicoanalisi, io ho chiamato psìcosofia. Psìcosofia intesa non come una dottrina, ma un’attività letteraria, umanistica, un’attività metamorfica di rinnovamento interiore, di una ritrovata armonia fra l’anima e la Sapienza.
Attraverso questo percorso interiore sono giunta a una nuova descrizione di me stessa, a una nuova nascita, non quella stabilita e determinata dalle autorità familiari, parentali e sociali, ma quella che un individuo si dà da sé.

LD: La testimonianza della Poesia può influire in modo concreto sulla realtà collettiva?

LA: Non lo so; con La rosa selvaggia ho tentato di dare la mia risposta alla falsa trasparenza del mondo odierno, di un mondo nel quale le cose scompaiono sostituite dalle loro simulazioni, dalla tele-realtà, dalle tecnologie sofisticate, dal virtuale, di un mondo sempre più disaggregato e disappropriato, in cui i media impediscono qualsiasi risposta e trasformano la parola rivoluzionaria in spettacolo, facendola morire. La mia poesia, che è anche un invito alla riflessione sulle perplessità quotidiane, tenta di recuperare il rispetto per l’unità della vita, di far trasparire l’ombra di ogni luce e la luce di ogni ombra, di recuperare la speranza nonostante ogni tristezza e difficoltà del vivere, di ritrovare la passione e l’irrazionale senza dimenticare la razionalità del quotidiano, di ritrovare il senso delle cose umili, senza perdere di vista l’Eterno che le oltrepassa.

LD: Quale importanza hanno per te la natura e il mito?

LA: Per me Eleusis non è un toponimo: è il non-luogo celato nella profondità della Psiche, il non-luogo dove il paesaggio dell’anima si trasforma in canto. Ma se il paesaggio dell’anima è il nucleo della mia poesia, e non meno importante per me è il paesaggio esterno, il paesaggio geografico, il paesaggio che mi appartiene. Per stabilire una maggiore intimità con la stratificata e complessa realtà del Sé — e con il mondo interiore —, durante il mio percorso individuativo ho chiesto la mediazione del mito e della natura. Grazie al mito, antichi riti — riti molto semplici come ad esempio il rispetto della natura — si sono risvegliati in me per ricrearsi con naturalezza nei luoghi della quotidianità; ho incominciato a contemplare con reverenza il paesaggio circostante nella sua dimensione universale, cercando di purificarlo e conservarlo nello stesso tempo. è nato così in me uno spazio simbolico impiantato sulle coordinate del mito-rito-linguaggio-paesaggio, un sentimento religioso immerso in una limpida luce soprarazionale, libero però da esoterismi ed occultismi.
A mio tempio privato e segreto ho eletto una quercia in cima ad una collina. Per anni, molti anni, durante dei pellegrinaggi quasi quotidiani, sul sentiero impervio che conduce alla mia quercia — per raggiungerla ci vuole circa un’ora di cammino — ho cercato, spiando il divenire della mia anima, di trasformare in parole il libero fluire delle immagini selvagge che mi abitavano. La rosa selvaggia, la semplice rosa a cinque petali che ad ogni primavera torna a fiorire sui rami spinosi dei cespugli che costellano il sentiero che porta alla quercia, è diventata il simbolo vivente del pensiero trascendentale, di un pensiero aperto ad ampiezze inusitate e a verità obliate.
Lontana dagli ambienti letterari, in silenzio, su quel sentiero irto e scosceso ho trovato la Poesia. Una poesia che, parafrasando Ionesco, potrei definire non simbolista, ma simbolica, non allegorica, ma mitica, una poesia dove l’invisibile diventa visibile, dove l’idea si fa immagine.

LD: So che preferisci evitare di esibirti in pubblico…

LA: Sì, è vero… in quest’epoca dell’etica precaria, in cui conta più apparire che essere, il mio ideale è una letteratura liberata dal carrierismo cortigiano e dall’evasionismo consolatorio, una letteratura fondata su una sete misterica di purezza e di ricerca della verità.
Se gli spazi della politica e dell’economia sono corrotti, io esigo — mi piace ripeterlo: io esigo — che almeno la poesia conservi uno spazio puro, uno spazio in cui sia possibile trovare la parola catartica, una parola libera da ogni maschera, da ogni affermazione, da ogni categoria.
Nell’epoca della proliferazione degli schermi e delle immagini, in cui il soggetto non è più il padrone della rappresentazione, ho voluto tornare alle origini, al mito, per ritrovare l’illusione selvaggia del pensiero, l’illusione del mondo e della sua visione. Poco conta se al termine di questo viaggio anagogico — il viaggio che riporta all’identità e all’unità della propria persona -, io scopro che Dioniso — la mia metafora vivente — non è che una maschera di terracotta sul mio comodino. Il mondo non è né completo né vero se non si vive l’incanto. Tuttavia, come ci insegna Claudio Magris, non bisogna dimenticare mai l’elusiva saggezza del disincanto. Per questo la Rosa selvaggia si conclude con un controcanto, un rite de sortie, il rito del disincanto che all’uscita dall’esperienza metafisica consente di tornare alla realtà e alla quotidianità, senza però dimenticare il senso di quel viaggio.

LD: Che percorsi di lettura offre La rosa selvaggia?

LA: Nella Rosa selvaggia s’intrecciano vari percorsi di lettura: il percorso poetico, filosofico, psicoanalitico, religioso… ma non spetta all’autore interpretare il testo, ed io lascio al lettore la scelta dell’itinerario da seguire.
Desidero tuttavia precisare che l’Io usato nella mia poesia non è l’Io ordinario, quotidiano, feriale, ma un Io che fa da mediatore fra gli opposti: fra naturale e soprannaturale, conscio ed inconscio, luce e ombra, finito ed infinito. Nella mia poesia l’Io feriale si sacrifica per rinascere come l’Io mediatore, l’Io festivo. Questo Io mediatore permette di amalgamare il razionale con l’irrazionale, di integrare i contenuti pre-riflessivi dell’inconscio con i processi logici normali in una sintesi magica dalla quale emerge la parola ritrovata.
Per me la poesia è la parola ritrovata. E’la memoria di ciò che non si ricorda più, l’esperienza dell’indicibile, il palpito nel quale riecheggia l’infinito e l’ineffabile.

LD: Quali raccolte poetiche hai scritto finora?

LA: Ho scritto due raccolte: La rosa selvaggia e altri canti eleusini, pubblicata nel 1997 dall’Accademia Casentinese, e l’Herbarium Mysticum — Clausole medievali, ancora inedita.
La prima raccolta è incentrata sul mito, il mito inteso come un’alternativa del discorso razionale, come un linguaggio altro, che affida la propria verità all’energia intuitiva dell’evento e delle immagini. L’evidenza del mito consente, infatti, di esprimere verità che stanno al di là della dimostrazione logica, e recupera la funzione del discorso simbolico. Per me La rosa selvaggia è il simbolo di questo pensiero.

LD: Come avviene il passaggio dal pensiero antico a quello medievale ?

LA: La poesia Il congedo (1) chiude il ciclo collegato al pensiero mitico. Il pensiero pagano, quindi, si congeda dalla rosa selvaggia per approdare alla rosa mistica del medioevo, dove in filigrana appare la complicata struttura dell’opus alchemycum come espressione simbolica di un processo di trasformazione interiore che opera nella psiche inconscia mirando a stabilire l’unità di uomo e natura, conscio e inconscio. Molti sono i siti medioevali in Istria ridotti soltanto a un cumulo di rovine che rimandano all’oscurità e al silenzio, e nulla si sa delle anime che li hanno vissuto. A questi paesaggi muti di echi ho tentato di dare una voce, una voce in sintonia con la cultura del tempo. Lo scenario della rosa di Sant’Eliseo, la rosa mistica che è una delle clausole dell’Herbarium misticum,è quello della Buie del XII secolo, all’epoca Castrum Bulge. Un’oblata — le oblate erano delle giovani ragazze offerte a un monastero che senza i voti facevano parte della congregazione religiosa — vive il suo opus alchemycum all’ombra della chiesa di Sant’Eliseo, una chiesa sorta nel XII secolo fuori dalle porte di Castrum Bulge di cui oggi rimane soltanto un cumulo di pietre in un vigneto.

LD: Puoi dirci qualcosa sull’alchimia?

LA: Nonostante l’enorme materiale e il gran numero di studiosi che l’hanno analizzata e cercata d’interpretare, la scienza alchemica continua a celare il suo mistero. Tuttavia, pur riconoscendo che vi fu un aspetto pratico e concreto (la trasmutazione dei metalli vili in oro), non va trascurato l’aspetto meditativo dell’opera — è questo l’aspetto che m’interessa —, il processo psichico di trasformazione che si sviluppava parallelamente a quello della trasmutazione chimica dei metalli. In questo duplice laboratorio (alchemico e psicologico), il lavoro alchemico si mutava in esplorazioni dell’interiorità e la purificazione dei metalli si traduceva in procedure simboliche sulla trasformazione delle anime.
La Grande Opera, partendo dal caos primordiale per giungere all’apoteosi solare, attiva un lungo processo di trasformazione dell’anima che comprende quattro gradi, indicati come la nigredo — morte nera e putrefazione del lavoro iniziale (depressione), l’albedo — l’opera imbiancante dell’abluzione (purificazione), la citrinitas — la fermentazione aurea, la rubedo – la sublimazione finale di anima e spirito, la conquista della pietra filosofale, del magico elisir di vita.

LD: Secondo te, quali caratteristiche ha il creatore come individuo?

LA: Per me la letteratura è l’offerta della parola dì vita, il bicchiere d’acqua offerto a chi ha sete. Lo scrittore — questo aspetto, forse il mio ideale letterario, traspare dall’Herbarium — dovrebbe essere un monaco, un monaco che lavora nella solitudine della propria cella per la propria salvezza e per la salvezza dell’altro.

LD: Lada, ti ringrazio.

LA: Grazie a te.

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  1. […] selvaggia ha detto Acquavita stessa in una preziosa intervista concessa a Luciano Dobrilovic per Fucine Mute nel 2001. Qui troviamo scritto: “Spogliandomi delle modalità percettive consuetudinarie […]

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