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Omnia

L’ultimo esilio di Quetzalcoatl ad oriente (IV)

Autostop lacondon

All’Internet-café di Palenque conosco Marcio, studente iscritto all’ultimo anno di biologia presso l’Università di Villahermosa, la favolosa città dei caimani o ciudad de los jacarès, secondo le testate giornalistiche occidentali.

Quando lo incontro sta inviando un E-mail alla morosa — l’ultimo — prima d’infilarsi e sparire nella jungla pluviale lacondona, che si trova vicino al confine naturale con il Guatemala definito dal Rio Usmacinta.

Davanti ad una birra, mi convince… vado con lui!

Vado a conoscere i suoi amici lacondoni, gli eredi diretti dei maya che vivono in un villaggio dimenticato da Dio, in mezzo alla foresta.

Il passaggio lo regala un tipo che trasporta banane con un camion sgangherato.

Si ferma davanti all’inconfondibile segnale internazionale del pollice alzato; saltiamo su e ci sediamo sotto il telone che protegge un carico carnoso e giallo. Stamani il cielo è plumbeo e non sembra promettere nulla di buono.

180 km di sobbalzi, d’acquazzoni improvvisi, di mucche al pascolo, di posti di blocco e controlli documenti, scoprendo che il tesserino dello sconto “vola al cinema” è il migliore salvacondotto per chi si spacci come un poliziotto italiano in vacanza, che abbia scroccato un passaggio ad un trasportatore di banane e sia accompagnato da uno studente di biologia. I miei capelli a spazzola alla marines e il saluto militare che ho improvvisato, hanno convinto i colleghi messicani.

Il camion ci molla ad un incrocio, vederlo andar via mi fa sentir ancor più lontano da casa di quanto non lo sia già. Mi pare d’essere via da una vita, vicino al confine tra Chiapas e Guatemala.

Sprofondiamo a piedi nella foresta con Marcio che fa da guida.

Il villaggio maya dei lacondoni sono poche capanne messe ai margini della jungla. Qui vivono due sorelle. La più anziana delle due si chiama Naj Kin, Casa del sole. Ha quattro figli ed è stata abbandonata dal marito quando era incinta dell’ultimo nato. Il fatto non la preoccupa.

È normale – mi dice — capita spesso che gli uomini abbandonino le mogli più anziane, dopo averle ingravidate. Lo fanno per cercarne di più giovani e senza figli. È una comunità poligama, la nostra – mi fa capire — e i figli sono un patrimonio dell’intero clan.

Naj Kin tira avanti la baracca da sola, vive assieme alla sorella più giovane sposata con Manuel, favo di miele. Sono loro gli adulti del villaggio. Accompagnano i viaggiatori dentro la jungla fino a Yachìlan e Bonompak; città sacre. Le chiedo se esistano altri maya nei dintorni.

Mi dice di sì, rispondendomi nello spagnolo che non sa scrivere; preferiamo accamparci a chilometri di distanza gli uni dagli altri, così ogni gruppo mantiene la propria indipendenza.

Come i lupi mi scappa di pensare.

Da quando i vagabondi avventurosi si sono interessati all’habitat dei lacondoni, questi hanno imparato ad accoglierli nei loro accampamenti. L’altra fonte di guadagno è costituita dall’artigianato di manufatti che riproducono divinità maya, animali della selva, collane di pietre colorate e legno.

Ceniamo nell’ampia capanna centrale, il cuore della vita quotidiana illuminata con lampade ad olio.

L’ottimo brodo e la carne di pollo hanno un altro sapore, se consumati all’aperto e condivisi assieme a questa piccola gente che siede accanto a noi su panche di cedro, ricoperti da mantelli di lana coloratissima o da ampie tuniche bianche.

Marcio conosce da anni Naj Kin e Favo di miele, mi è misterioso il motivo e non glielo chiedo nemmeno. Stanno dirimpetto a me e chiacchierano vivacemente il linguaggio degli amici.

Io mi godo un minuto di raccoglimento religioso; il capanno assomiglia ad un’arca che solchi — illuminata con le lampade ad olio — un frinire assordante. Grilli e cicale hanno invaso i prati circostanti.

Ogni tanto si sente un tonfo sordo: gli avogados cadono maturi sull’erba e ribattono lo scrosciare potente di un fiume che attraversa la selva notturna. Un sottofondo inconfondibile.

Ammiro il profilo di Casa del Sole… magnifico!

La fronte affusolata, ampia e larga, il naso lungo ma fiero e gli occhi color pece. I lacondoni hanno l’usanza di portare i capelli molto lunghi, capelli corvini e lucidi, puliti e ben curati. Tale usanza non permette l’immediata distinzione di chi sia uomo o donna. Entrambi i sessi vestono tuniche ampie. In un secondo momento s’impara che il segno di riconoscimento è il colore dell’abbigliamento.

Per i maschi è sobriamente bianco, per le donne, invece, colorato vivacemente — e se proprio bianco — ornato da ghirigori floreali.

Naj Kin — finita la cena — si copre con un poncho caldo ed avvolgente. Rimane un po’ in disparte a scrutare in silenzio il buio della notte.

Io e Marcio facciamo un giro di sigarette ciarlando in spagnolo. Discutiamo di donne:

Le donne dei sogni, la donna ideale che non esiste, irraggiungibile perché troppo idealizzata, quelle che ti fanno svenire se l’incroci per strada, e quelle che hanno avuto il potere di farti soffrire aprendo ferite indelebili… donne a ruota libera mentre Naj Kin continua a fissare il silenzio notturno.

Marcio è intelligente ed imprevedibile. Nei suoi discorsi infila di repente fiammate improvvise:

Citando Kant potrei dire che al desiderio — insito nella volontà di creare un’opera d’arte — si oppone il più delle volte una forza uguale e contraria che impedisce la creazione stessa. La medesima cosa avviene con l’amore, al desiderio di ricrearlo si contrappone l’impossibilità di realizzarlo completamente e le storie finiscono per terminare immancabilmente… e poi cos’è tutta questa semplicità di sentimenti che tutti vogliono dimostrare a tutti i costi? Sono soltanto una postura, l’impacciato tentativo di elevarsi mediante un anticonformismo innaturale che si rappresenta come se fosse una recita teatrale…il cuore è pieno di stanze come un bordello — in realtà — e la vita è un casino!

Mentre parliamo vicino a noi si accende una discussione in lacondon…i maya hanno una cadenza del parlato inconfondibile, una loro postura particolare. Quando l’indio parla,protende il collo e il volto verso l’interlocutore. Le parole sono secche e sussurrate in modo gutturale. L’espressione dei volti è colta da una sorpresa continua, come se parlando si confidassero aneddoti scandalosi. Un sussurro mal riuscito perché in realtà è pieno d’enfasi. I loro dialoghi, allora, si trasformano in baruffe di bambini.

Io e Marcio, nonostante la stanchezza, abbiamo ancora voglia di leggere dei brevi scritti di Emilio Pacheco, tratti da “La sangre de Medusa”, il libro preferito di Marcio che ha voluto regalarmi come segno d’amicizia.

Scorriamo i brani di Teruel, El enemigo muerto…demonios. Li fa leggere a me.

Nella notte al villaggio maya recupero l’emozionale esperienza del racconto in spagnolo.

Le donne Lacondon si sono raccolte in un angolo della capanna. Parlano e ridono forte, forse di quegli strani uomini che se ne stanno seduti nell’angolo opposto a legger poesie. Mi rendo conto che ai loro occhi la cosa può risultare buffa, a loro, che la lingua spagnola, non la sanno nemmeno scrivere.

Dopo un po’ si spengono le lampade ad olio e c’infiliamo nelle amache protette dalle zanzariere.

Osservo la notte, mai quieta. I prati e la jungla ripetono il medesimo concerto ammaliante che conoscono da millenni; acqua che scorre, versi d’animali, grilli e cicale.

Alte nel cielo si muovono costellazioni che non mi riesce di riconoscere… il prato di fronte è una distesa di lucciole che pulsano leggere il loro richiamo d’amore, sono le femmine che luccicano, i maschi rincorrono. È il commiato ad una giornata che mi è sembrata lunga quanto una settimana.

Prima di addormentarmi mi ritorna in mente l’immagine di un Dio Maya che Marcio usa come segnalibro:

La scultura di un Dio seduto sopra il nulla con le braccia conserte. Mi piace molto perché è l’immagine dell’appagamento e della tranquillità. Il simbolo di quella particolare serenità che coglie chi ha fatto bene le sue cose, colui che impiegando e compiendo il proprio tempo, si gode un attimo di pausa.

L’immagine ondeggia al buio carica di significati: il tempo e le sue pause, frazioni di tempo finito contenute all’interno d’una dimensione eterna. L’umano e il divino a confronto.

Mi rendo conto che la catarsi di quel Dio con le braccia conserte, rappresenti la calma che s’inchina al cospetto del continuo movimento d’espansione e sviluppo, insito nel principio della vita… eppure — contemporaneamente — intuisco in lui anche l’immagine stessa dell’infinito capace di regolare tempi timbri e pause, come fa il direttore di un’orchestra con la sinfonia da eseguire.

Appena sopra le caviglie di quel Dio, sono disegnati due otto rovesciati, simboli matematici del concetto d’infinito. Pur essendo simboli matematici e filosofici, sono esteticamente affascinanti;

rotondi, rotolanti, perfetti.

Curve chiuse e allo stesso tempo continuative, come le pause che il tempo concede. La vita stessa una pausa finita contenuta dall’eternità, no?

Mi addormento senza capire se vado incontro al sonno o all’esplorazione dell’infinito che lo contiene.

Ma cosa ci avranno messo nel brodo di pollo?

(fine quarta parte)

Il brano riportato è tratto dal suo primo romanzo, “L’ultimo esilio di Quetzalcoatl ad Oriente”, diario di un lungo viaggio nello Yucatàn. 
Paolo è anche l’autore di tutte le fotografie che illustrano il racconto.

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