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Fumetto

Swamp Thing

Dopo notevoli sforzi economici ed altri problemi editoriali la Magic Press è riuscita finalmente, in barba a tutte le avversità che ha dovuto affrontare, a portare a termine l’ambizioso progetto di ristampare tutto il Swamp Thing di Alan Moore. Sono già passati alcuni mesi dall’uscita del numero 11, quello conclusivo, ma i dilatatissimi tempi d’uscita della collana (che si voleva bimestrale ed ha compreso invece un arco di tempo dal febbraio 1998 agli inizi del 2001) fanno sembrare un’inezia il tempo intercorso tra la fine della serie e il presente articolo. Non è quindi scontato fare qualche riflessione critica sulla saga, sperando di spingere nuovi lettori verso questa vera e propria pietra miliare del fumetto.

La nascita del fumetto Swamp Thing risale a trent’anni fa, a quel 1971 in cui i responsabili della DC Comics (la casa editrice di Superman e Batman) decisero di accogliere i nuovi fermenti creativi che smuovevano l’America già da alcuni anni e che si manifestavano principalmente con le proposte della Warren Publishing, a sua volta influenzata dal movimento underground. Due ottimi professionisti (Len Wein ai testi, Berni Wrightson ai disegni: entrambi sarebbero diventati delle autorità nei rispettivi campi) furono scelti per dar vita ad una serie che si discostasse dall’imperante formula del supereroe: bisognava aprire ad un horror gotico e raffinato, più maturo di quello del Deadman che pochi anni prima comparve sulla scena con la solita calzamaglia sgargiante e con le iniziali sul petto.

I nuovi fermenti furono colti anche dalla concorrente Marvel Comics (L’uomo ragno, X-Men, ecc.), l’altra casa editrice egemone del mercato USA, che infatti fece sorgere, sempre in una palude, il suo Man-Thing (autori: Steve Berger e Val Mayerick). È uso comune a tutt’oggi che le major sfruttino lo stesso trend del momento praticamente in contemporanea, sia esso costituito da una formula editoriale (le maxiserie: Crisis-Secret Wars), dal disegnatore più di moda in quel dato periodo (Alex Ross: Marvels-Kingdom Come) o, come in questo caso, da una certa tematica o atmosfera. È quindi inutile scandalizzarsi per le inevitabili equipollenze tra una serie e la diretta rivale, come è inutile cercare di deliberare sul “chi ha copiato chi”.

Fu così che nacque la “cosa della palude”, un mostro vegetale risultato di un tragico esperimento (e della crudeltà degli uomini, come da copione).

Per continuare indisturbato i suoi studi sulla possibilità di creare un sistema per favorire la crescita e la resistenza del “polmone verde”, lo scienziato Alec Holland si isola con la moglie Linda nelle paludi della Louisiana. Quando rifiuta di cedere il suo lavoro alla multinazionale del signor Ferrett viene scaraventato nel “bayou” da una bomba posta nel suo laboratorio. L’Holland che conoscevamo è scomparso dalla scena, ma la reazione chimica della sua formula bioristorativa con la flora circostante ed il suo corpo dà vita ad un ammasso vegetale senziente coi ricordi dello scienziato assassinato e la sua voglia di vendetta.

Hanno inizio così le tribolazioni di Swamp Thing, alla ricerca ossessiva di un antidoto per guarire dalla sua condizione di uomo-pianta, ma che non disdegna di fare giustizia quando gliene verrà offerta l’occasione.

Come facilmente intuibile, il Tempo non si sarebbe rivelato un gentiluomo con questo romanzaccio romantico fuori tempo massimo, ma per il gusto dell’epoca la storia era interessante ed innovativa, tanto che Swamp Thing venne presentato in una collana tutta sua dalla fine del 1972. I disegni sono invece tuttora una gioia per gli occhi e quando l’ottimo Wrightson abbandonò la serie il calo fu inevitabile e la testata, bimestrale, non sopravvisse oltre il ’76. Anche il successivo tentativo di rilancio del personaggio che la DC Comics azzardò nel 1982, con il pomposo titolo di The Saga of the Swamp Thing, sembrava destinato a non lasciare alcun segno nella storia del fumetto.

Ma quanto miope fu il commento alla serie presentato su Totem n°37 “Speciale USA”! Nell’inquadrare criticamente il lavoro di Wrightson, di cui veniva pubblicata una storia breve, Swamp Thing fu citato brevemente come una serie gloriosa ma ridotta ormai al lumicino; veniva anzi descritta come prossima alla definitiva morte editoriale dopo la già avvenuta morte artistica. Tutto ciò avveniva nel 1984, quando Moore era al timone della serie già da quasi un semestre ed il fumetto d’Autore europeo era prossimo ad entrare in crisi. I comics “suggested for mature readers” si sarebbero presi una bella rivincita di lì a qualche anno.

All’outsider Alan Moore venne affidato il compito di scrivere l’agonizzante fumetto e probabilmente nessuno dei dirigenti della DC Comics si sarebbe aspettato da lui la conversione di Swamp Thing nel capostipite delle nuove tendenze adulte dei comic book statunitensi, nonché il plebiscitario successo critico ed economico.

Moore esordì nella serie col numero 21 (febbraio 1984) e si ritrovò con l’ingrato compito di dover sciogliere i nodi diegetici allacciati precedentemente.

L’edizione italiana della Magic Press vuol essere per quanto possibile fedele alla riedizione americana di Swamp Thing e presenta il fumetto inizialmente in bianco e nero (solo gli ultimi due volumi sono colorati) accorpando in un’uscita quattro episodi più alcuni redazionali. I volumi sono spillati e la copertine presentano dei risvolti in modo da illustrare tutte le cover originali relative agli episodi specifici di ogni numero. Per comodità tratteremo delle singole storie in relazione al volume che le ospita, in modo da seguire sia l’evoluzione del fumetto in sé sia quella della travagliata edizione italiana.

Swamp Thing 1: La lezione di anatomia. Come si può concludere e dare una coerenza logica ad una storia già iniziata da un altro autore (che forse non credeva molto in quello che faceva e sicuramente non ne aveva pianificato gli sviluppi), ed oltretutto considerata un peso morto dall’editore, che già ne aveva preventivato la soppressione? Alan Moore risolve il problema in maniera semplice ma drastica: getta alle ortiche quanto era stato fatto precedentemente. Questo metodo traumatico di chiudere con le trame precedenti quando diventano ingestibili avrebbe purtroppo costituito una disonesta consuetudine nei futuri comic book della Vertigo, tanto che l’intelligente Peter Milligan giunse a parodiarlo nel continuo flusso di morte e resurrezione del suo Shade the changing Man (o almeno, è bello credere che questa fosse la sua intenzione…). Ma dieci anni prima della nascita della sottoetichetta della DC Comics un brusco cambiamento di rotta in un fumetto era decisamente qualcosa di originale e, in questo caso, addirittura salvifico.

La “lezione di anatomia” del titolo è quella che apprende il Dottor Jason Woodrue (“villain” storico della casa editrice di Superman) mentre conduce l’autopsia sul corpo congelato di Swamp Thing, catturato ed apparentemente ucciso dal Generale Sunderland a conclusione degli scialbi episodi precedenti. Woodrue si interroga sul perché di quei polmoni così ben sviluppati e di quel cervello così simile a quello umano se entrambi gli organi, e tutti gli altri, sono inutilizzabili. La soluzione lo illumina assolutamente per caso, quando per sbaglio consulta la pagina di un saggio sulle planarie, vermi platelminti che possono sviluppare capacità cognitive semplicemente mangiandosi a vicenda. Associare le planarie alla vegetazione mutata dalla formula bioristorativa è un’intuizione elementare e, come scopriremo, assolutamente esatta. Swamp Thing non è quindi l’alter ego vegetale di Alec Holland: Alec Holland è irrimediabilmente morto nella palude, ma la flora “illuminata” è riuscita a ricostruire al meglio la sua memoria e, in parte, il suo corpo. Come turning point non è decisamente roba da poco: tirando una bella riga su tutto ciò che era stato scritto prima, Moore toglie al personaggio il motore fondamentale del suo agire (la ricerca di un antidoto per tornare umano) e complica ulteriormente la sua psicologia. Difatti, una volta eliminato furiosamente il Generale Sunderland, Swamp Thing fa ritorno alla sua vecchia palude della Louisiana per giacere immobile e mettere radici (letteralmente!) nel terreno.

È una crisi esistenziale non certo leggera quella che l’ha colpito: non solo non potrà riacquistare la forma di Alec Holland, ma addirittura quella forma altro non era se non una sua illusione, l’imprinting che i resti del vero Holland hanno dato ad un ammasso di piante altrimenti inerte. È quindi comprensibile che il povero mostro della palude voglia lasciarsi morire dolcemente tra gli acquitrini nonostante i tentativi di ridestarlo di Abigail Cable e gli strani sogni allegorici che gli affastellano la mente. Sarà ancora l’intervento di Woodrue a destarlo dal suo stato e a dargli una nuova consapevolezza. Tentando di mettersi in contatto con la psiche del mostro verde, il “mad doctor” riceve invece dei deliranti impulsi da tutta la flora del pianeta e rinnega definitivamente le sue sembianze umane per ritornare alla propria vera natura vegetale di floronian man, identità con cui fu già combattuto e vinto da alcuni personaggi della DC Comics. Con tutta la vegetazione del mondo sotto controllo ed ai suoi ordini, Woodrue lancia una demente crociata tesa alla distruzione della vita animale sulla Terra. Di fronte alle immense possibilità distruttive delle piante (a cui basta aumentare l’emissione d’ossigeno per rendere estremamente infiammabile l’atmosfera) persino i supereroi della Justice League non sanno che pesci pigliare. Sarà quindi proprio il rinato Swamp Thing a bloccare l’operato di Woodrue, mostrandogli l’assurdità del suo gesto e trovando in ciò un barlume di speranza che giustifichi la sua presenza nel mondo dopo Alec Holland. “e TU chi sei?” chiede la confusa Abigail quando apprende di non trovarsi di fronte alla reincarnazione di Holland; “io sono…SWAMP THING.” è la risposta, e tanto basta a far nascere un nuovo ciclo nella vita dell’ingombrante mostro verde nato più di dieci anni prima.

Alan Moore si dedica ad un rinnovamento non solo tematico ma anche stilistico, introducendo una serie di meccanismi testuali e patemici molto raffinati ed introducendo nei comic books una prosa decisamente inedita e ricercata (“Le nuvole come tamponi di cotone idrofilo insanguinato sfiorano inutilmente i polsi tagliati del cielo.”). Per la sua evocatività si ha talvolta quasi l’impressione che sia stata presa a prestito o progettata per un romanzo.

La comparsata dei supereroi classici della DC Comics non è fuori luogo come nel caso dei primi episodi del Sandman di Neil Gaiman, ma serve a sottolineare il distacco che Swamp Thing sta prendendo dagli altri eroi della scuderia di cui fa parte.

Lodevole anche il lavoro svolto dai disegnatori Bissette e Totleben, oggi forse un po’ datato ma comunque molto espressivo (ed il bianco e nero sottolinea proprio questa qualità) pur se le anatomie sono spesso rigide o deformate e alcuni tratteggi appesantiscono il disegno.

La lezione di anatomia costituisce un ottimo saggio di quello che Moore sarebbe stato capace di fare in seguito ed il fatto che concluda nell’arco della stesso volume tutto un ciclo narrativo completo ne fa un “gioiellino” irrinunciabile per chi ama il fumetto.

Con il successivo volume Il sonno della ragione la personalità di Swamp Thing ed il mondo in cui agisce saranno ulteriormente approfonditi. La Magic Press sostituisce la carta povera ma suggestiva di Swamp Thing 1 con una buona patinata lucida che assottiglia di quasi la metà il fascicolo, rendendolo meno voluminoso.

Swamp Thing 2 presenta un breve ciclo in tre parti che inizia con l’episodio Il sonno della ragione (che dà il titolo al volume) e si snoda per …Il momento di correre… e …Da demoni guidati!. Moore confeziona una storia non proprio originalissima, facendo scontrare Swanp Thing con un demone che si nutre di paura, ma introduce molti elementi interessanti nella saga, che saranno fondamentali per il suo sviluppo. Abigail trova lavoro presso il Centro Campi Elisi per bambini autistici, il suo compagno Matt Cable subisce un incontro le cui conseguenze vedremo tra poco, compaiono i primi particolari hippy/new age tanto cari a Moore e l’atmosfera della serie vira decisamente verso toni molto morbosi ed ambigui, che troveranno piena soddisfazione nel successivo volume. Peccato che questa miniserie mozzafiato, basata su una forte sensazione di predestinazione che induce il lettore a divorarla senza un momento di noia, sia in parte rovinata dalla presenza di Etrigan, demone scaturito dalla mente di Jack Kirby nel 1972 che ha la fastidiosa abitudine di parlare in pentametri giambici! Anch’egli si inserisce nel progetto più generale della DC Comics di recuperare e rimodernare i vecchi personaggi di cui ancora detiene i diritti, inserendoli in contesti più adulti e adeguati ai tempi. Non basta certo la buona traduzione di Leonardo Rizzi per rendere meno ridicole le rime del demone. A chiudere Il sonno della ragione c’è un fill-in, cioè uno di quegli episodi “tappabuchi” cui si ricorre nelle serie regolari americane quando i disegnatori titolari sono troppo indietro con il lavoro. In questo caso, La sepoltura (disegnato da Shawn McManus) rappresenta un suggestivo metodo di concludere il dilemma esistenziale di Swamp Thing, che con le spoglie di Alec Holland seppellisce anche molte delle sue esitazioni.

Swamp Thing 3 (un numero speciale di 112 pagine: uno dei quattro episodi è infatti un annual di 40 pagine) contiene un episodio d’importanza capitale per la saga e per il mercato USA in generale. Con Amore e Morte, che è anche il titolo del volume, la DC Comics rinuncia infatti per la prima volta al marchio rassicurante della “Comics Code Authority”, quella sorta di autoregolazione ideata dagli editori americani negli anni ’50 per evitare noie con la censura (e per dare il colpo di grazia ai bei fumetti dell’orrore di case editrici rivali più impegnate ed intelligenti ma meno forti economicamente…). In effetti da questo numero i disegni si fanno più espliciti ed inquietanti, ma è soprattutto Moore a non farsi più problemi nel raccontare storie raccapriccianti ed efferate, intercalando però vicende di demoni e mostri con quelle più tangibili di violenza domestica, follia e addirittura incesto. Nell’arco di questo volume apprendiamo come gli eventi dei precedenti capitoli facessero parte di un piano architettato dal luciferino Anton Arcane, zio di Abigail che era stato affrontato come villain dallo Swamp Thing della gestione pre-Moore. Alan Moore è semplicemente geniale nel dare a tutte le vicende una conclusione adatta e nello sfruttare al meglio i legami che i singoli episodi hanno con quelli vecchi. Le criptiche visioni profetiche e i nodi allacciati precedentemente (come l’”incontro” di Matt Cable con Arcane, cui accennavamo sopra) trovano la loro perfetta e soddisfacente risoluzione nel ciclo di Amore e Morte, che vede il disperato Swamp Thing andare fino all’inferno pur di salvare l’anima di Abigail, dannata dallo zio redivivo nel corpo di Matt.

La storia è coinvolgente ed i suoi ritmi sono serrati, ma le eccezionali idee di Alan Moore non si esauriscono ai livelli testuali e stilistici. Lo sceneggiatore coglie infatti l’occasione della Crisis prossima ventura (maxiserie in cui gli universi paralleli della DC Comics venivano eliminati coinvolgendo tutti i personaggi) per introdurre di peso nella storia la figura del Monitor, elemento chiave della saga che avrebbe fatto tabula rasa del mondo di Superman, Batman e compagnia. Pur se presentato solo di sfuggita e per incrementare il pathos della vicenda, la sua apparizione troverà una giustificazione nei numeri a venire. L’utilizzo oculato ed intelligente di materiale imposto dalla casa editrice o frutto di altri autori si nota anche nelle comparsate che i personaggi “spirituali” di casa DC fanno nell’ultimo episodio del volume, Giù in mezzo ai morti. Moore sa rendere con realismo e partecipazione (nonché con affetto e simpatia) la personalità di figure quali Phantom Stranger o Deadman, personaggi che darebbero filo da torcere ad ogni sceneggiatore che volesse cavarne fuori qualcosa di nuovo o interessante.

Particolare importantissimo: per la prima volta si accenna al fatto che Swamp Thing sia un elementale.

Amore e Morte è senz’altro un bel punto d’arrivo (addirittura Neil Gaiman confessa che ne fu terrorizzato!) ma Alan Moore sarebbe riuscito addirittura a superarsi nel corso della serie, quando i molti premi che ricevette per la sua opera e l’inaspettato successo commerciale gli garantirono una certa libertà nel trattare gli argomenti che voleva nel modo che voleva.

Swamp Thing 4 è uno tra i volumi più bizzarri ed onirici della serie. Il rito della primavera si apre con due fill-in decisamente originali. Nel primo (Pog, disegnato da Shawn McManus) degli alieni zoomorfi atterrano nella palude della Louisiana dove risiede Swamp Thing. la storia è in realtà un pretesto per omaggiare la sarcastica striscia umoristica Pogo del grande Walt Kelly e di sfuggita Alan Moore abbraccia anche la causa degli animalisti e dei vegetariani, ma senza retorica o pedanteria. Eppure questo rapido e probabilmente disimpegnato riempitivo è talmente drammatico e ben scritto (Moore inventa addirittura un vocabolario per i suoi alieni!) da suscitare una certa commozione.

Il secondo fill-in è Case abbandonate, disegnato da Ron Randall. Abigail sogna e la sua attività onirica le consente di accedere al piano delle Case dei Misteri e dei Segreti. Anche questo elemento è un recupero di vecchie testate della DC Comics, che poi sarebbero state riprese nella sottoetichetta Vertigo. La replica (leggermente modificata) delle origini del primo Swamp Thing di Wein e Wrightson, calato in un altro contesto, permette ad Abigail di venire a conoscenza di un progetto cosmico che sta per trovare compimento nel futuro. Ma la Casa che aveva scelto di visitare era quella dei Segreti e quindi la coscienza di questa esperienza si perde con le prime luci dell’alba.

Divertente e raffinatissimo il breve dialogo con cui si rivela la vera natura delle Case e dei loro due guardiani (Caino e Abele), che in effetti sono solo “proiezione dell’INCONSCIO UMANO ed esistiamo come costrutto dell’emisfero cerebrale destro”.

Nonostante sia perfettamente inserito nella continuity regolare, anche il terzo episodio, Il rito della primavera, è un momento di pausa narrativa. La vicenda verte interamente sulla dichiarazione d’amore reciproca di Swamp Thing ed Abigail ed è occupato per quasi metà della sua durata da un lungo amplesso psichedelico che sancisce il legame tra i due protagonisti in sostituzione di un rapporto carnale che non potrà mai aver luogo. La scomparsa di Matt Cable viene risolta nella prima tavola: per Swamp Thing si è chiusa un’epoca ed una nuova sta per iniziare.

Il quarto capitolo del volume è infatti la prima parte de Il carteggio Nukeface, una storia che innescherà un importante meccanismo narrativo, preludio ad una complessa trama che porterà la serie al suo massimo splendore.

Il rito della primavera è stata la prima puntata di Swamp Thing ad avere un comic book tutto suo presso la Comic Art, che precedentemente aveva pubblicato la serie sulle sue riviste antologiche Horror e DC Comics presenta. Tutte queste pubblicazioni dovrebbero essere ancora reperibili, e possono costituire motivo d’interesse per la colorazione che Tatjana Wood (vedova del “geniaccio” Wallace) curò per valorizzare le storie di Swamp Thing.

Come dicevamo, Il carteggio Nukeface sarà un fondamentale momento di svolta nella serie e già dalle prime pagine di Swamp Thing 5 (Acque calme) si capisce la sua portata: Swamp Thing viene infatti annientato dal bizzarro Nukeface, demente vagabondo reso altamente radioattivo dal contatto con le sostanze delle discariche abusive della Pennsylvania. Inconsapevole della propria pericolosità, Nukeface contamina e distrugge la vita intorno a sé senza nemmeno rendersene conto. La sua apparizione non ammette repliche o fughe e la morte di Swamp Thing sembra inevitabile. Più che lo stile da inchiesta (con i vari personaggi coinvolti che depongono le loro testimonianze) è coinvolgente il pathos con cui Moore descrive gli ultimi attimi di vita di Swamp Thing. La tecnica del cliffhanger (tenere in sospeso i lettori per suscitare la loro curiosità) non ha segreti per lo sceneggiatore inglese ed in effetti l’aspetto di denuncia sociale della storia passa quasi in secondo piano rispetto all’ansia di scoprire come il progetto di “ricostruire un nuovo corpo” si compirà.

Con Modelli di crescita non solo avremo delle risposte, ma una nuova linfa narrativa verrà immessa nella saga. Mentre Swamp Thing sta lentamente rigenerandosi, in giro per il mondo alcuni strani personaggi in contatto col mondo del sovrannaturale sembrano aver percepito, ognuno a modo suo, il prossimo “ritorno” di qualcosa che minaccerà il mondo intero. A fare quasi da collante tra le due vicende parallele viene introdotto il personaggio di John Constantine. Nonostante l’opposizione del suo stesso creatore Alan Moore, la DC Comics ne avrebbe fatto il protagonista di una serie regolare tutta sua. Anche se spesso Hellblazer (la testata dedicata a John Constantine) avrebbe raggiunto vette narrative molto alte, è innegabile che ogni sceneggiatore che se ne è occupato ha fatto del personaggio quello che ha voluto, inserendo nelle sue storie elementi personali anche molto divergenti come stili ed atmosfere. È senz’altro piacevole vedere qui John Constantine nella sua forma originaria e quindi più autentica, con le fattezze di Sting ed un atteggiamento da sbruffone attaccabrighe. È infatti lasciandogli intravedere la possibilità di conoscere dettagli sulla sua natura di elementale vegetale che Constantine costringe Swamp Thing ad assecondarlo nelle sue richieste di vagare per mezza America.

Con Modelli di crescita ha inizio il lungo ciclo narrativo intitolato “American Gothic”, come il quadro di Grant Wood. Si tratta di una vera serie-maratona in cui Swamp Thing è chiamato a risolvere i problemi che si stanno verificando un po’ ovunque negli Stati Uniti (con una predilezione per le zone di provincia o comunque periferiche) e che sono le prime tracce dell’influsso dell’Antimonitor nel cosmo spirituale della DC Comics. Questi elementi saranno chiariti in seguito, anche se Moore scriverà le sue storie con la massima libertà senza far pesare troppo l’onnipresente Crisis che si sta per abbattere sulle testate della casa editrice.

La prima tappa delle peregrinazioni di Swamp Thing (che ha imparato a trasportare la propria coscienza attraverso le piante e quindi a riformare un corpo subito dopo) è il paesello di Rosewood, in cui si è venuta a creare fortuitamente una colonia di vampiri acquatici. La descrizione dei personaggi, dei retroscena e della lotta contro le strane creature occupa due episodi, gli ultimi di Swamp Thing 5: Acque calme e Una storia di pesca. Il volume è impreziosito da un articolo sulle maldestre versioni cinematografiche del personaggio, con tanto di foto di scena.

In Swamp Thing 6 continuano gli interventi del mostro verde nelle situazioni in cui è richiesto il suo aiuto. A cornice di una storia di zombie e razzismo divisa in due parti (cambio a Meridione e Uno strano frutto, il primo è anche il titolo del volume) si trovano due episodi stupendi, in cui il lirismo di Moore tocca le sue punte massime. La maledizione è il tentativo frustrato di una donna di liberarsi del suo ruolo sottomesso, che a causa degli influssi che stanno cambiando l’America si manifesta con la sua metamorfosi in licantropo. Giù da un ramo è invece un delizioso apologo sull’animo umano, oltre che un curioso trattato di botanica sulle proprietà dei frutti generati da Swamp Thing. Poco importa che si tratti di un fill-in slegato dal flusso principale ed in cui il titolare della serie praticamente non compare: resta in assoluto uno degli episodi più suggestivi.

Dopo una lunga pausa di quasi un semestre (quando tra il secondo ed il terzo numero ci fu uno stacco di “soli” quattro mesi) esce Swamp Thing 7: Il parlamento degli alberi. Il perché del ritardo è chiaro fin dalla copertina: il prezzo è stato portato a 8 000 lire e adesso la serie esce solo nelle librerie specializzate. Si tratta di una correzione di rotta evidentemente indispensabile per permettere all’elementale vegetale di continuare il suo percorso. Che con questo volume passa attraverso i delitti efferati di un lucido e spietato serial killer (Uomini neri), una casa infestata da un odio immortale (Danza di spettri) e, finalmente, le prime rivelazioni (Apocalisse e Il parlamento degli alberi). Il “multiverso” è prossimo alla fine e agli eroi della DC Comics spetta il compito di salvare il salvabile unendo le terre parallele che non sono ancora cadute davanti a quello che Constantine descrive come “Qualcosa [che] le divora una per una, come una LARVA che sgranocchia un fascio di CARTINE GEOGRAFICHE.” L’ambito che interessa Swamp Thing è quello spirituale, minacciato da una setta satanica stanziata in Sud America, cui per il momento si fa soltanto un breve accenno. Come al solito Alan Moore si dimostra un soggettista intelligente e raffinato, e dà ancora una volta prova di come si possa dire qualcosa di nuovo su temi abusati, nonché come in fondo non vi siano argomenti, per quanto stupidi o infantili, che un narratore di razza non sappia rendere intriganti ed originali. I cultisti non stanno infatti progettando la conquista del mondo, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma il loro obiettivo va molto oltre: è il Paradiso. Infatti, come ricorda Constantine, la Terra è in mano loro già da millenni!

Qualche parola va spesa anche per la Crisis e per come la tratta Moore. Con questa maxiserie (titolo completo: Crisis on infinite Earths, Marv Wolfman ai testi e George Perez alle matite) la DC Comics fece piazza pulita di molto materiale ritenuto obsoleto o ormai ingestibile fino al paradosso. Già negli anni ’60 fu teorizzato il multiverso, cioè una cosmologia di infinite Terre alternative in cui vivono versioni più o meno differenti degli eroi di casa DC. Il meccanismo poteva tornare utile per giustificare il fatto che, per esempio, dell’adolescenza di Superman come Superboy non rimanesse traccia da un certo punto in poi. Ma nei disincantati anni ’80 era ingenuo ritenere che il pubblico accettasse le incongruenze che spesso si venivano a creare, oltre al fatto che alcune seconde o terze versioni di molti supereroi erano dei veri pesi morti. Anche per cercare di stare al passo coi tempi, che ormai vedevano le etichette indipendenti (che puntavano su testi adulti) piuttosto consolidate e la concorrente Marvel dominare sul mercato, la DC Comics organizzò quindi una bella carneficina che, pur con tutto il lirismo che Wolfman vi profuse, altro non era se non un artificio per dare una base coerente all’universo DC (base che fu comunque spesso contraddetta negli anni a venire). Moore non lascia che la sua creatività venga annichilita da questo mezzuccio, ed anzi riesce a trovarvi lo spunto per crearci sopra un’ottima storia.

Il parlamento degli alberi racconta il primo passo nella lotta contro il nemico cosmico: la ricerca di una conoscenza ancestrale che permetta di sconfiggerlo. In Brasile, alle fonti del fiume Tefè, Swamp Thing incontra un gruppo di vecchie “cose della palude” generate in tempi antichi ed ora in continuo riposo nel fitto della giungla. Il senso del loro consiglio (“Dov’è il male in tutto il legno?”) sfugge per il momento al mostro verde ma, ovviamente, sarà di vitale importanza al momento opportuno. Questo episodio è importantissimo dal punto di vista narrativo non solo per gli sviluppi che darà nell’immediato futuro, ma anche perché costituisce un’ottima prova della capacità d’incastro di Moore, che avrebbe toccato l’apice nel perfetto meccanismo del contemporaneo Watchmen. Il parlamento degli alberi concretizza infatti le visioni che Abigail aveva avuto in sogno nel precedente Case abbandonate ma anticipa anche il futuro ciclo narrativo che comincerà dalla conclusione di American Gothic.

Conclusione che avverrà su Swamp Thing 8, L’invocazione. L’ulteriore incremento del prezzo, ora portato a 9 000 lire, è giustificato dal momentaneo aumento delle pagine, che toccano quota 112. Nei primi due episodi del volume (Una strage di corvi e L’invocazione) si narra di come Swamp Thing e John Constantine non siano riusciti con la loro azione da commando ad impedire che il messaggero inviato dalla Brujeria (la setta coinvolta negli eventi) giunga al suo destinatario, attivando così quell’immenso potere soprannaturale con cui si impossesseranno del Paradiso. La tensione tocca vette incredibili in queste quarantaquattro pagine che si fanno leggere tutte d’un fiato nonostante la ricercata e libresca prosa di Moore e la sua raffinata architettura della sceneggiatura che brulica di personaggi, premonizioni e flashback. Al precipitare della situazione, Swamp Thing e Constantine si dividono i compiti ed agiscono su due piani differenti della realtà. Da una parte la cosa della palude agirà sui luoghi stessi dell’avanzata della mostruosa marea d’oscurità assieme ai personaggi “spirituali” di casa DC, mentre sul piano della realtà sono convenuti i “maghi” della casa editrice per controllare gli avvenimenti e cercare di portare la loro influenza. Ancora una volta Moore si dimostra padrone delle tecniche più efficaci per creare il pathos necessario ad una storia, ed ancora una volta rilancia in grande stile dei vecchi personaggi che senza il suo personalissimo tocco sarebbero poco più che marionette.

Con l’episodio dal profetico titolo La fine il ciclo narrativo iniziato con Swamp Thing 5 giunge alla sua roboante conclusione, tracciando le linee future per il trattamento dei soggetti della DC Comics. Con questo episodio speciale (che dura 38 tavole) Moore vuole infatti scrivere una parabola sui concetti di bene e male, giungendo a dire palesemente che il vecchio sistema manicheo di concepire una storia con “buoni” e “cattivi” è ormai superato, e che se il bene e il male sono uniti nella vita reale allora non ha senso farsi remore morali nel raccontare la complessità della natura umana in un fumetto. Se non fosse per la sua grande statura di narratore, Moore sarebbe quasi didascalico nel rappresentare le forme del Bene Assoluto e del Male Assoluto che si danno la mano fino a formare un circolo yin-yang.

Se questo finale di “armonia cosmica” e i vari altri riferimenti sparsi per la saga (come il concetto di predestinazione e dell’inesistenza delle coincidenze) possono attirare su Alan Moore le critiche di aver “praticato” le filosofie new age per salvare in extremis qualche soggetto non perfetto, va ricordato che ai tempi della realizzazione del suo Swamp Thing la new age non era ancora un fenomeno di moda, e la cultura che Moore ha dimostrato in varie occasioni testimonia una sua conoscenza (se non proprio adesione) di prima mano dell’argomento, quando questo era peraltro meno diffuso di oggi.

Swamp Thing 8 termina con La libertà di casa, episodio in cui la cosa della palude, appena reduce dal salvataggio del mondo, si trova subito costretto a tornare in azione. La sua povera compagna Abigail Cable è stata infatti gettata nel fango (e conseguentemente, in galera) da un giornale scandalistico che documenta i suoi interludi amorosi con il mostro verde. E, coerentemente con la nuova direzione ideologica impostata dall’episodio precedente, Swamp Thing diventa una furia e giura vendetta non appena viene a conoscenza dei fatti.

Con L’invocazione la serie ha raggiunto senz’altro il suo apice ed è entrata di diritto nel novero delle saghe fondamentali del fumetto americano e mondiale; lo stesso Moore non si sarebbe più ripetuto allo stesso livello su queste pagine. Ma le vicende di Swamp Thing non sono ancora concluse ed offrono ulteriori motivi d’interesse.

Swamp Thing 9 narra nei primi due episodi (Conseguenze naturali e Il giardino delle delizie, il primo è anche il titolo del volume) la furia titanica dell’elementale e la sua vittoria sulla corriva giustizia umana ma descrive anche la sua eliminazione da parte dello spietato Lex Luthor, il celebre antagonista storico di Superman. Swamp Thing è morto e un debole barlume di speranza per il suo ritorno si ha solo nell’ultima tavola del volume. Gli altri due episodi di Conseguenze naturali spostano l’attenzione su elementi marginali della saga: ne I fiori dell’amore tornano due personaggi della gestione pre-Moore, Liz e Dennis. Recuperata la povera Liz dal giogo di Dennis, Abigail trova di nuovo la forza di vivere e quindi di partecipare, in Terra alla terra, alla commemorazione in onore di Swamp Thing.

I disegni di John Totleben hanno raggiunto un importantissimo punto d’arrivo e quelli che sopra elencavamo come difetti sono ormai semplicemente le caratteristiche distintive del suo stile, ma Alan Moore sembra avviarsi verso una scrittura verbosa ed autocompiaciuta. Il recupero di personaggi creati in precedenza, come il Chester Williams di Giù da un ramo, sembra quasi un tentativo di vivere di rendita su elementi che, per quanto interessanti, hanno comunque esaurito il loro ruolo. In effetti non è molto convincente vedere eletti quasi a protagonisti dei personaggi che erano stati ideati come vittime o testimoni di parabole chiuse in sé, e che difatti non riescono ad avere una grande personalità fuori dagli apologhi che li avevano presentati.

In ogni caso, un altro ciclo è concluso ed uno nuovo sta per cominciare. Anche la testata Swamp Thing subirà una nuova modifica: con il numero 10 spariscono i risvolti con le copertine originali (che ora vengono pubblicate all’interno), il prezzo subisce un’impennata a 14 000 lire e, soprattutto, viene introdotto il colore.

Impossibilitato a formare un nuovo corpo sulla terra, lo spirito di Swamp Thing comincia a vagabondare per gli spazi siderali venendo a contatto con mondi alieni ed altri vecchi personaggi della DC Comics. Misteri nello spazio è composto da episodi radicalmente diversi, che spaziano dal complotto politico al delirio più totale. La parte centrale del volume è infatti occupata da una storia in due parti (Misteri nello spazio e Esuli) con cui Moore fa un affettuoso, ma molto sarcastico, omaggio allo storico personaggio Adam Strange. Quanto questa parentesi è razionale e ben costruita (addirittura ci viene fornito un breve dizionario per comprendere le frasi degli abitanti di Rann!), tanto gli episodi che le fanno da cornice sono visionari e forse un po’ improvvisati. Il mio paradiso blu narra della nuova natura di Swamp Thing, che si può incarnare in forme vegetali aliene. Ma inizialmente l’ottica con cui si avvicina al fenomeno gli fa sfiorare la follia. Praticamente onnipotente (questo aspetto di crescita fino ad uno status quasi divino era già stato anticipato negli episodi precedenti), Swamp Thing si incaponisce a voler ricostruire il mondo che ha abbandonato sul nuovo pianeta blu che lo ospita. Resosi conto del meccanismo schizofrenico in cui si è invischiato da solo, parte di nuovo verso l’ignoto fino ad arrivare sui luoghi in cui si svolgono le due storie con Adam Strange ed incontrando durante il tragitto una curiosa forma di vita aliena. È infatti questo il soggetto della quarta storia del volume, Amore per l’alieno, in cui una materna astronave vivente incontra Swamp Thing nel suo peregrinare e ne viene fecondata. L’ottica con cui l’episodio viene scritto è straniante (viene infatti semplicemente riprodotto il lungo monologo dell’astronave-madre) ma la cosa che colpisce di più di Amore per l’alieno è la parte grafica, che è il risultato di illustrazioni, fotografie e collage assolutamente slegati a cui Alan Moore ha dato un senso ed un ordine posteriormente. Lo stesso Leonardo Rizzi, che di Swamp Thing ha curato traduzione e commento, ammette che ormai la vena migliore di Moore si è esaurita e che ora è arrivato il momento dei riempitivi in attesa di nuove trovate.

Due riempitivi che nulla aggiungono al flusso centrale della saga sono difatti i primi episodi contenuti in Conti in sospeso, undicesimo ed ultimo volume di Swamp Thing. In Ogni mortale è come l’erba Swamp Thing si ritrova in un mondo interamente dominato da vegetali antropomorfi, per i quali finisce per costituire un pericolo. È senz’altro curioso ed interessante vedere il protagonista pacifista della serie diventare una calamità per un intero popolo, ma molto più divertente è la scena conclusiva dell’episodio, in cui Adam Strange viene cacciato di casa da Abigail che non gli crede e viene preso per pazzo quando dice di doverle portare un messaggio di Swamp Thing!

In Lunghezza d’onda è Rick Veitch (già attivo come disegnatore) a prendere in mano le redini del testo, come pochi numeri prima fu Stephen Bissette a sostituire uno stanco e forse svogliato Alan Moore (l’episodio scritto da Bissette è stato escluso dalla pubblicazione integrale della Magic Press). Rick Veitch sarà scelto come continuatore della saga di Swamp Thing quando Moore abbandonerà la DC Comics, ma se ne andrà via anch’egli dalla casa editrice sbattendo la porta quando un episodio gli verrà censurato. Il suo fill-in è piuttosto interessante e decisamente suggestivo, merito anche di una colorazione psichedelica, e punta i riflettori su alcuni personaggi creati da Jack Kirby per la sua saga Forever people. Ma ciò che interessa di più di Swamp Thing 11 sono ovviamente gli ultimi episodi, quelli in cui tutti i nodi vengono al pettine e il tormentato protagonista torna finalmente a casa.

Conti in sospeso (reprise) e Il ritorno della buona zuppa di gombo sono due storie principalmente descrittive, in cui succede pochissimo e questo poco è perfettamente prevedibile e già anticipato dal titolo. Lo Swamp Thing che ha scoperto la natura del bene e del male ed ha imparato la loro profonda inscindibilità non si pone più alcun problema nell’eliminare fisicamente gli uomini che hanno distrutto la sua forma materiale sulla Terra. E adesso che è ritornato al suo mondo, Swamp Thing può finalmente godersi i meritati momenti di pace insieme ad Abigail. Moore ha terminato di scrivere Swamp Thing ma il suo influsso determinante si farà sentire nel mondo dei comic book ancora per molto, molto tempo. Conscio senza dubbio dell’importanza del suo lavoro e della necessità di dargli una conclusione autonoma, Moore scende in campo in prima persona nelle pagine del fumetto e lascia che sia il suo alter ego cajun LaBostrie a siglare definitivamente la saga, che non sarà certo più la stessa dopo il suo abbandono. Con una tale partecipazione e passione per il proprio lavoro, gli si perdonano facilmente la verbosità che caratterizza questi ultimi due episodi e i vari “abbagli” che ha preso nell’ultimo periodo della sua gestione.

La Magic Press ha compiuto un’operazione meritoria ristampando uno dei capisaldi del fumetto USA, che peraltro in Italia avevamo visto spezzettato ed incompleto. E ad impreziosire ulteriormente questa edizione ci sono dei gustosi editoriali che inquadrano meglio il cosmo DC o trattano i “dietro le quinte” della serie. Non è difficile prevedere per Swamp Thing un futuro da testata-culto di cui si parlerà ancora a lungo.

Alan Moore è stato un vero ciclone nella scena del fumetto statunitense (e di conseguenza mondiale) quando quasi vent’anni fa rivoluzionò drasticamente, inserendo elementi adulti ed un lirismo inedito, l’asettico e stantio mondo dei comic book d’oltreoceano.


Nato nel 1954, ha sempre manifestato una grave insofferenza verso la natia Inghilterra, Paese che non ha però mai realmente abbandonato. Intorno ai 25 anni realizza delle strisce umoristiche (impegnate sul piano testuale e “sporche” su quello grafico: evidente l’influenza dell’underground americano) per la rivista musicale Sound. Soltanto qualche anno dopo ha modo di dedicarsi con maggiore impegno alla sceneggiatura fumettistica e compie la trafila abituale per gli autori britannici dell’epoca: scrive soggetti per le riviste Dr. Who, 2000 AD, Warrior.


Dal 1981 in poi realizza opere fondamentali per il fumetto mondiale, vere pietre miliari che hanno contribuito in maniera determinante a rivalutare il medium fumetto agli occhi della cultura ufficiale: oltre a Swamp Thing vanno ricordati almeno V for Vendetta (un’antiutopia all’inglese, dalla narrazione glaciale e disperata), Watchmen (il fumetto supereroistico revisionista per eccellenza), Brought to light: Shadowplay (denuncia delle nefandezze compiute dalla CIA nell’America latina), From Hell (meticolosa ricostruzione della vita e delle “opere” di Jack lo Squartatore), A small killing (una minimalista “tale of lost innocence” in cui è lecito cogliere elementi autobiografici).


Moore ha anche avuto modo di dire la sua su due personaggi-cardine dell’universo DC e dell’immaginario collettivo: Superman e Batman, rispettivamente nelle storie Whatever happen to the Man of tomorrow? e The killing joke.


Dissapori con la DC Comics (vertenti principalmente sulla gestione dei diritti d’Autore per il merchandising) lo spingono ad avviare una propria casa editrice, la Mad Love, che fallisce però dopo pochissimo. Big Numbers, iniziato nel 1990 per i disegni di Bill Sienkiewicz, avrebbe potuto aggiungersi alla lista di capolavori di cui sopra, ma divergenze artistiche e soprattutto umane con il disegnatore non faranno proseguire la serie oltre il numero 2 (l’ipotesi di una continuazione ad opera di Al Columbia, che di Sienkiewicz fu assistente, è a tutt’oggi da considerare abortita).


A metà anni ’90 Alan Moore sembra quasi essere caduto nel dimenticatoio, e comunque è irrimediabilmente messo in ombra dai nuovi fumetti DC che senza il suo contributo non avrebbero mai visto la luce: Sandman, Hellblazer, ecc. Pur di non tornare a lavorare per l’odiata casa editrice di Superman, Moore compie una scelta quasi contraddittoria: scrive storie per la Image, nuova realtà editoriale che rompe il duopolio DC-Marvel puntando però su disegni spettacolari (va riconosciuto all’Image il drastico miglioramento della colorazione, cui tutte le altre case editrici furono costrette ad adeguarsi) mentre i testi sono poco più che temini da seconda elementare. Quando l’Image non era ancora frantumata nella miriade di studi che curano oggi i singoli pacchetti di testate, Todd McFarlane chiamò quattro sceneggiatori famosi a scrivere un episodio ciascuno del suo Spawn. Ma mentre Frank Miller, Dave Sim e Neil Gaiman tornarono alle loro normali attività, Moore rimase alla Image, realizzando dapprima il dissacrante 1963 (e la presenza di Rick Veitch come cocreatore la dice lunga sul grado si sarcasmo di queste storie!) ma ripiegando poi su Spawn, WildC.A.T.S (di queste due testate Moore curò un crossover) e soprattutto sul Supreme di Rob Liefeld.


Quando il geniale creatore di Watchmen sembrava aver perso (o, peggio, tradito) la sua vena artistica, ecco uscire sul finire dei suoi tormentati anni ’90 delle ottime serie facenti parte del progetto più generale America’s Best Comics: Tom Strong, Promethea, League of extraordinary Gentlemen, ecc., con cui l’astro di Alan Moore torna a brillare trionfalmente nel firmamento del fumetto.


Oltre che sceneggiatore di fumetti, lavoro che comunque costituisce la sua attività principale, Moore ha scritto anche romanzi ed una sceneggiatura cinematografica (Fashion Beast, purtroppo non ancora realizzata).

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