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Cinema

Il lato oscuro del sogno americano (III)

Elementi surrealisti nel cinema di Wes Craven

3. Omicidi seriali: tra realtà e immaginazione, sogno e incubo

3.1 A nightmare on Elm Street

Fate attenzione a ciò che desiderate,
perché potrebbe avverarsi.

Anonimo

L’emergere del serial killer come la figura più significativa nell’immaginario di fine millennio rivela molti aspetti nascosti della vita nelle società più industrializzate, a partire dall’impero americano. Senza volto, imprendibile, violento, irrazionale il serial killer cinematografico ribalta la vecchia immagine del “cattivo” sullo schermo. Con le mutazioni del costume e della censura comincia ad essere prevalente l’interesse per la parte oscura, per il lato in ombra, per il deviante definitivo: l’assassino, meglio se seriale.

Protagonista assoluto del genere thriller nella sua evoluzione da semplice meccanismo per creare brividi, a ritratto sempre più inquietante di turbe mentali. Il cuore di tali pellicole diviene così la rappresentazione visiva del delitto. L’occhio della cinepresa rimane aperto sul momento del crimine, non esita a ritrarre le fasi di un assassinio, a insistere sul particolare sanguinario e persino macabro.

Le gesta di Jack lo Squartatore, personaggio reale ed europeo che assunse nell’immaginario cinematografico americano il ruolo di padre putativo di tutti i suoi assassini seriali e di Norman Bates, entrambi accomunati da una sessualità folle e malata come evidenziano i loro delitti, ispirarono la fantasia di numerosi produttori e registi del genere horror, per cui tale figura trovò in esso la sua più naturale collocazione(1).

Nel thriller il serial killer mantiene una forte aderenza con la realtà, tanto da spingere illustri psichiatri a stilare un profilo psicologico molto simile a quelli di un omicida reale: i protagonisti di tali film sono abitualmente giovani e non coniugati; più frequentemente sono maschi (misogini), ma non mancano le ragazze; sono longilinei, d’aspetto piacente; introversi, vivono soli, oppure con la madre o la sorella. I loro delitti “patologici”, diretta conseguenza della malattia, affondano le radici in motivi edipici o comunque legati alla sfera affettiva familiare. Da un punto di vista clinico tali personaggi cinematografici sono “corretti”, vale a dire presentano quelle caratteristiche che effettivamente più spesso si riscontrano nei pazienti schizofrenici(2).

Nel genere horror gli assassini seriali assumono una dimensione per lo più metafisica, simbolica, ieratica, orientandosi verso l’irreale e il fantastico. Un fantastico “per esitazione” secondo la definizione cara a Todorov per cui di fronte ad una messinscena/evento, che non si sa se interpretare come oggettiva/o od onirica/o, si esita sino a far scaturire l’effetto fantastico.

Il metamorfismo linguistico delle figure dell’horror, quali i mostri o gli assassini seriali, che da semplici stratagemmi teatrali si sono trasformate in vere e proprie “allusioni” con tanto di corpo e forma materiale, sono divenute una peculiarità del New Horror. Nel primo Halloween, Michael Myers non era un uomo, bensì il Male, proprio Lui con la “emme” maiuscola. La psicoanalisi ha fatto in modo che l’inconscio riemergesse alla luce, materializzasse le sue creature. L’inconscio è il colpevole e soprattutto è inafferrabile(3). Sono i signori dell’incubo, i padroni della paura e della morte, viaggiano tra il mondo reale ed onirico seminando morte e mietendo giovani vittime. Sono creature spaventose, cannibali, fantasmi, zombie, ombre, mostri. Contro di loro non funzionano le armi normali: muoiono infinite volte e altrettanto infinite volte risorgono dall’aldilà per vendicarsi. Per sconfiggerli è necessario colpirli nel loro mondo, nella loro più intima essenza, oppure ricorrere ai rimedi più impensabili per impedire il loro definitivo ingresso nella realtà(4). Assassini inquietanti ma talmente esagerati da provocare una sorta di straniamento e distacco che ne diminuisce la pericolosità e la credibilità. Divengono una sorta di contenitore in cui lo spettatore riversa tutte le sue pulsioni più basse e bestiali, un “vaso di Pandora” che permette di essere aperto e di gustarne il contenuto senza temere dirette ripercussioni, una valvola di sicurezza in cui l’individuo può dare libero sfogo al proprio “Es”.

Tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, apparvero sul grande schermo tre esemplari di serial killer che divennero in poco tempo protagonisti di fortunate saghe cinematografiche, veri e propri eroi per una massa di adolescenti in continua ricerca di emozioni forti.

Il primo a fare il suo ingresso trionfante nell’immaginario collettivo americano fu Michael Myers protagonista della serie Halloween (otto capitoli), il cui capostipite risale al 1978 per opera di John Carpenter (Halloween — la notte delle streghe). Con indosso una maschera bianca totalmente inespressiva e per questo terrificante, l’assassino è veramente l’ombra della strega, un terribile automa, un fantasma punitore(5).”L’ho incontrato quindici anni fa ed era come svuotato, non capiva, non aveva coscienza, non sentiva, anche nel senso più rudimentale, né gioia né dolore, né male né bene, né caldo né freddo. Spaventoso, un ragazzo di sei anni con una faccia atona, bianca, completamente spettro e gli occhi neri, gli occhi del diavolo.” Questo è l’agghiacciante ritratto che ne fa il suo maggior antagonista il Dottor Loonis, interpretato nella serie dallo scomparso Donald Pleasence.

Alcuni elementi quali il sesso adolescenziale, le trasgressioni, la follia e il delirio punitivo, vengono ripresi ed estremizzati nella serie Venerdì 13 (composta attualmente da ben nove capitoli), con protagonista il deforme Jason Voorhees, un bambino mongoloide che come ci viene illustrato nell’incipit del primo capitolo (diretto da Sean Cunningham nel 1980) annegò nel campeggio di Crystal Lake per la negligenza della baby-sitter che invece di sorvegliarlo aveva preferito amoreggiare con il proprio ragazzo. Con il volto celato da una maschera di hockey, assume le fattezze di un demone punitore, un mostruoso vendicatore che vive delle paure e dei desideri della gioventù.

Chi si nutre dei sogni e dei desideri repressi dei giovani adolescenti americani è Freddy Krueger. Nato nel 1984 dalla fantasia di Wes Craven, questo mostro che popola i sogni di un gruppo di ragazzi, diviene il protagonista assoluto di una serie di sette pellicole. Autore della sceneggiatura e regista del primo capitolo, così ricorda l’origine di uno dei suoi personaggi più riusciti: “Avevo fatto due film uno dietro l’altro e avevo messo da parte un po’ di denaro. Decisi che mi potevo permettere di scrivere per sei mesi. Scrissi la mia prima completa sceneggiatura. Era un lavoro completamente sperimentale che mi prese diversi anni per trovare i finanziamenti per realizzarlo. Si trattava di Nightmare […] Ritagliai una serie di articoli apparsi sul Los Angeles Times intorno al 1981. Nell’arco di un anno e mezzo ci furono una serie di incidenti di persone che ebbero diversi incubi e raccontarono alle loro famiglie che questi sogni erano i peggiori che avessero mai fatto prima. La loro reazione fu la medesima — non volevano più dormire. Erano spaventati di rifare i medesimi sogni. Tentarono in ogni modo di restare svegli. La volta successiva che questi si addormentarono, morirono. Un ragazzo in particolare si adoperò a rimanere sveglio per tre o quattro giorni. La sua famiglia temendo un esaurimento nervoso gli diede del latte caldo e del sonnifero, esattamente ciò che non voleva prendere. Quando finalmente si addormentò, lo sentirono urlare e dimenarsi. Quando raggiunsero la sua camera, era morto. L’autopsia escluse l’attacco cardiaco o altre cause; era semplicemente morto”(6). Da qui la creazione di un serial killer che uccide le proprie vittime all’interno dei loro sogni; la loro unica via di salvezza è rimanere svegli, non dormire.

Il successo del primo film diede origine ad una lunga serie dalla quale Craven si allontanò fatta eccezione per due episodi. Le motivazioni che lo spinsero ad appropriarsi nuovamente della sua creatura così le ricorda: “Vennero da me per il numero “tre” e chiesero se volessi dirigerlo. Proprio in quel periodo stavo completando Dovevi essere morta, sicché non ero disponibile, ma raccontai loro un’idea che piacque, così scrissi la sceneggiatura. Volevo fare Nightmare 3 perché sentivo la necessità di ampliare il concetto espresso nel primo film. Decidemmo — insieme al co-sceneggiatore Bruce Wagner — che non potesse più essere una sola persona ad affrontare Freddy, ma un gruppo, perché le anime delle sue vittime lo avevano reso più forte”(7). Nacque così lo spunto per Nightmare 3: I guerrieri del sogno (A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors, 1987, diretto da Chuck Russel): Nancy, la protagonista del primo film, è una dottoressa che cura un gruppo di ragazzi rinchiusi in una clinica per i disturbi del sonno, perseguitati dalla diabolica figura di Freddy che attraverso orribili incubi li spinge al suicidio. I ragazzi vengono ad uno ad uno catapultati nel mondo onirico dove Freddy li costringe a confrontarsi con le loro più profonde paure.

Così come l’aveva creata, era giusto che fosse il suo autore a porre termine ad una serie che, con il passare del tempo, era divenuta sempre più ripetitiva e mediocre. A dieci anni dal primo film Craven mise in cantiere l’ultimo capitolo: Nightmare — Nuovo Incubo (Wes Craven’s New Nightmare, 1994). Come già capitato in passato, l’idea base gli venne durante un sogno: “L’intero staff della New Line, la casa di produzione dell’intera serie, era ad un cocktail-party. Robert Englund con i costumi di scena stava recitando il diabolico Freddy, quando vidi una spettrale figura muoversi parallelamente a Robert — la sua ombra oscura completamente staccata da lui e decisamente terrorizzante”(8). L’intenzione del regista era quella di ridurre la serie di film precedenti in “mero foraggio” per questo ultimo e definitivo capitolo: “L’idea era che la New Line con il progetto di interrompere la serie, avrebbe permesso allo spirito di Freddy di andare ovunque avesse voluto, di oltrepassare i limiti della finzione per entrare nella nostra realtà. Ma la sua unica via d’accesso era costituita dall’attrice che recitò il personaggio che per primo lo sconfisse, Heather Langenkamp”(9).

Il mondo onirico, la possibilità di contaminare la rappresentazione quotidiana degli eventi con immagini fantastiche, visioni stranianti, ha da sempre interessato il regista americano: “Il mondo dei sogni mi ha sempre intrigato […] Ho giocato con le sequenze oniriche ove non si è sicuri se la persona stia sognando o meno; questo sin dalle mie prime pellicole […] La stessa natura del film è simile a quella di un sogno […] Mi incuriosisce la possibilità di allargare le forme della coscienza grazie al mio lavoro perché penso che, con l’eccezione di alcuni registi europei, il cinema sia stato troppo limitato all’area della coscienza. Io lo vedo come una limitazione dell’arte stessa, perché il film è come un sogno. è capace di alterare le sequenze temporali, di contrarle, di andare avanti e indietro nel tempo. Non è come su un palcoscenico — puoi affidarti a trucchi ottici, creare strane tracce sonore e qualsiasi altra cosa ti venga in mente”(10).Dalle sembianze di un divertissement, un’allegra e fantasiosa parentesi all’interno del film in cui dar sfogo a tutte le pulsioni irrazionali come in L’ultima casa a sinistra, la dimensione onirica acquista con il passare del tempo un maggior spazio finendo per diventare la struttura portante dei film e fagocitando l’aspetto realistico tanto da abbatterne limiti e confini.

La scoperta di tale dimensione è relativamente recente. L’Ottocento si era chiuso con il successo della grande industria. Il progresso scientifico e tecnologico poneva l’uomo in un universo che appariva sempre più piccolo, in cui l’individuo vedeva ridotta la propria capacità d’azione. Il mondo sembrava completamente conoscibile e dominabile; si trattava solo di comprendere a fondo le leggi per poter adeguatamente agire e avere successo. Il positivismo e il realismo erano sintomi di questo stato d’animo. Ma l’alba del nuovo secolo attaccò tutte le certezze acquisite. Albert Einstein con l’enunciazione della teoria della relatività annullò l’assolutezza di due categorie quali spazio e tempo, rendendole due grandezze relative ad ogni osservatore; Sigmund Freud rivalutò aspetti del nostro Io rimasti