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Scrittura

Sinan Gudzevic

Poeti di guerra

Patrizia Vascotto (PV): Sinan Gudzevic sei il traduttore ufficiale di Izet Sarajlic? Hai sempre tradotto tu le sue cose in italiano?

Sinan Gudzevic (SG): Io sono traduttore per metà, l’altra metà spetta a Raffaella Marzano qui accanto a me. Il nostro è stato un lavoro a quattro mani. Ed è ufficiale. Adesso siamo entrambi traduttori ufficiali delle poesie di Izet Sarajlic. Anche se non so se esista un “corpo” che ci riconosce questo status.

PV: Tu dici che Izet Sarajlic ha introdotto nella poesia dei balcani uno stile colloquiale, parlato, narrato. C’è una minore o maggiore difficoltà a tradurre una poesia con queste caratteristiche?

SG: Introdurre il linguaggio quotidiano nella poesia non è sicuramente un’invenzione di Izet Sarajlic. E soprattutto non può essere suo il merito per la poesia balcanica, che è un concetto molto vasto e in continuo divenire. Ma Izet Sarajlic è uno dei poeti che ha partecipato e fatto parte di un certo movimento della poesia Jugoslava, soprattutto quella serbo-croata, in quell’area linguistica tra la Slovenia e la Macedonia. Questo movimento è stato importante per aver cercato la chiarezza delle parole e Izet Sarajlic è sicuramente tra i poeti più importanti di questa avanguardia della lingua serbo-croata nella seconda metà del ‘900.

Izet Sarajlic è uno dei più famosi e amati poeti di questa area linguistica; adesso però, in questa stessa situazione linguistica, non si sa nemmeno come si chiama questa lingua, non si sa nemmeno come si chiama la letteratura bosniaca o serbo-croata o balcanica. è veramente una situazione tragica, una parte della catastrofe culturale che da dieci anni ha distrutto tutta la cultura della ex-Jugoslavia. E questa situazione ha trovato appoggio anche all’estero, ma questa è un’altra cosa.

PV: Questo libro raccoglie poesie che appartengono a raccolte diverse. Come sono state assemblate? C’è stata una scelta di fondo? Quale criterio avete seguito?

SG: Ci siamo sempre consultati, Sergio Iagulli, che è il direttore della collana, Raffaella ed io. Ci siamo messi d’accordo sulle poesie che ci piacevano e le abbiamo messe in ordine cronologico. Oggi, a un mese dall’uscita del libro, questo nostro lavoro ci piace. Comunque, dopo questa prima scelta abbiamo cercato di evitare di tradurre le poesie maggiormente tradotte in passato, inserendo quindi un’ottantina di poesie inedite e mai ancora tradotte in nessuna lingua.

PV: Possiamo considerare questo libro come il ritratto di Sarajlic in tutte le sue sfaccettature, come uomo politico, uomo di cultura, uomo rappresentativo di una realtà europea?

SG: Sì. Purtroppo c’è un aspetto tragico anche in questa problematica. Si è stabilito un criterio che a me non piace. Purtroppo è un criterio che troviamo dappertutto noi che veniamo dall’ex-jugoslavia. Si tratta di una situazione particolare. Noi da dieci anni serviamo al mondo e all’Europa culturale per fare i rapporti di guerra. E così si è stabilito questo criterio che chi vuole scrivere del mondo balcanico deve innanzitutto scrivere e parlare solo della guerra. Così l’Europa aspetta da noi sempre le sceneggiature di guerra, le poesie di guerra. E quelle d’amore e di altre passioni umane non sono più consentite. Io conosco un poeta che ha scritto una raccolta bellissima di poesie d’amore con una casa editrice in Germania. Lui dice che non c’è nessuna traccia di guerra balcanica. Si dice, con una dose di ipocrisia terribile, che bisogna chiamarla sempre “guerra balcanica” e quindi noi serviamo al mondo per essere definiti “poeti di guerra” e questo è sempre ripetuto. E anche Sarajlic viene sempre presentato come il poeta testimone di guerra della Sarajevo martire.

PV: Quindi ci vuoi dire che l’Occidente guarda sempre alla ex-Jugoslavia con un insieme di immagini fortemente stereotipate? Cioè questi paesi sono i paesi della guerra, questi paesi non possono fare altro che parlare di guerra, questi paesi ci devono ricordare che esistono ancora le guerre e non possono ad esempio parlare d’amore del quotidiano dell’intimo? Questo allora è vero? C’è uno stereotipo così forte, così doppio, che impedisce di essere accettati se si scrive qualcosa di diverso? O c’è anche di mezzo, come lo stesso Sarajlic dice in una sua poesia, questa “vergogna dell’umanità nel parlare d’amore”? Non siamo più capaci di farlo? E quindi dobbiamo per forza parlare solo di guerra di tragiche realtà che poi vengono intese più come scoop?

SG: Di stereotipi ce ne sono tanti, sicuramente. La cosiddetta Comunità Internazionale in realtà faceva parte della guerra, era una parte della guerra jugoslava. Gli stereotipi di un paese dove si combatte per il nulla si sono stabiliti già da dieci anni, ma la guerra jugoslava non è niente di nuovo. Ricordiamo le guerre del ‘900 e quella del Vietnam dove gli americani hanno ucciso tre milioni di uomini, per non parlare della prima e della seconda guerra mondiale… Ma l’ipocrisia della Comunità internazionale è molto grave. E così noi abbiamo bisogno di una reinterpretazione di questa guerra jugoslava, perché fino a ieri si parlava di Milosevic come un focus di guerra e adesso, da nove mesi, Milosevic non c’è più, ma la guerra c’è lo stesso! Allora ci vuole una reinterpretazione. Io ritengo gli americani la nostra polizia responsabile della Comunità europea, e questo vale anche per voi italiani, perché il popolo jugoslavo non può dare un voto rispetto a questa nuova suddivisione dei nostri territori. Per questo noi siamo amareggiati e quindi non crediamo a questo nuovo progetto di globalizzazione. Io personalmente sono molto scettico e non credo a nulla di tutto questo che è costato 200 mila vite umane, 500 mila feriti e oltre due milioni di profughi dispersi in tutto il mondo.

Gli americani avevano dato il “mouse” a Milosevic davanti al loro computer nella base militare di Dayton per fare i confini della Bosnia. Non è stato il popolo, ma loro. Questo non è stato considerato un crimine di guerra, ma poi il Kosovo sì. Noi che conosciamo ogni giorno le notizie di questa guerra la pensiamo in un altro modo.

PV: Adesso una domanda più tecnica, da traduttore quale tu sei, e mi piacerebbe che alla risposta partecipasse anche Raffaella Marzano della Multimedia Edizioni. Anzi, se mi consenti, partirei proprio da un suo intervento. Senti, com’è stata questa esperienza a quattro mani? è la prima volta per te o hai già avuto altre esperienze simili a questa?

Raffaella Marzano (RM): Sì, è stata la prima esperienza, ma spero che non sia la prima e ultima, perché l’esperienza è stata magnifica, divertente e soprattutto mi ha molto arricchito aver avuto la possibilità di lavorare con Sinan Gudzevic, ma soprattutto l’aver potuto lavorare su un’opera così importante e completa come questa di Izet Sarajlic. Ci saranno altri lavori come ad esempio la traduzione degli “Epigrammi romani” dello stesso Sinan Gudzevic e la traduzione della poesia balcanica contemporanea. Quindi abbiamo grandi progetti.

PV: Ho una curiosità da chiedervi, che è tutta personale in quanto anch’io traduco: vorrei chiedervi di raccontarmi un ricordo particolarmente impegnativo nel corso della traduzione e cioè quali sono stati i momenti più difficili incontrati. Ci sono dei momenti in cui le difficoltà sembrano insuperabili o per determinate parole o per determinate immagini o per determinati riferimenti culturali che stanno dietro ad un poeta e che chi traduce non sempre è in grado di condividere, come ad esempio tu, Raffaella, che vivi in una realtà completamente diversa, cioè in Italia, mentre Sinan, che vive a Zagabria, è più vicino come sensibilità alla situazione del paese in cui l’autore vive…

RM: Una cosa che ci ha facilitato nel lavoro è stata proprio il fatto che io sono italiana e Sinan croato e quindi proveniente dalla ex-Jugoslavia. Questa è stata una combinazione giusta perché riuscivamo in qualche modo ad entrare nel testo. I punti più difficili sono stati quelli in cui l’espressione era più semplice, i punti della quotidianità, quella più normale per così dire, e quindi è stato difficile riportarli senza banalizzare le cose.

Comunque ci siamo divertiti molto, anche se qualche volta abbiamo mandato al diavolo Izet…

SG: Io sono molto grato a Raffaella per il lavoro che ha fatto. Io non sono italiano, ma capisco l’italiano, ho studiato latino e greco e questo fenomeno di imparare la lingua con gli occhi e non con le orecchie mi crea tante difficoltà a volte, ma questa traduzione a quattro mani è stata molto efficace. Poi sono d’accordo con Raffaella Marzano su quei testi che sembravano più semplici, ma che alla fine ci hanno dato qualche difficoltà, anche se siamo stati sempre in contatto con Izet.

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