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Cinema

…dalle tenebre. Il cinema fantastico italiano e le sue suggestioni

Sono ancora tutti lì. Forse meno spaventevoli di ieri, chiusi negli armadi (e nelle videoteche, e nelle stanze dei cinefili) come oggetti impolverati del passato che fu. Eppure, a loro modo, suggestivi…

I vecchi mostri del cinema fantastico italiano hanno subito per anni la diffidenza e il dileggio dei superficiali, che in quelle Cinecittà di cartapesta veneravano Antonioni, Fellini, Visconti, ma non Bava, Freda, Margheriti, Mastrocinque, Pupillo.

Poi la generazione di critici cinematografici che oggi veleggia verso gli “anta” ha operato di fino, ridando a Cesare quel che è di Cesare.

Solo Goffredo Fofi, in quegli Anni Sessanta dal corso sovvertitore e bizzarro, si permise di dire bene di un gioiellino-perla rara quale La ragazza che sapeva troppo (Mario Bava, 1963), delizioso giallorosa dai sinistri risvolti.

Lì, con i soliti quattro soldi ridicoli, quello spartano mago degli alambicchi ricreava una Trinità dei Monti capitolina in bianconero, pronta a trasformarsi in incubo.

Per la prima volta vedemmo in Italia l’icona del maniaco assassino in guanti neri, poi ripresa e sublimata da Dario Argento nel suo passo d’overture, L’uccello dalle piume di cristallo.

Volendo leggere il libro dalla prima pagina, ci accorgiamo inequivocabilmente che in principio furono in due: Mario Bava e Riccardo Freda.

Come dire, il Diavolo e l’Acquasanta, il burbero artigiano dalla bottega “alla buona” e l’aristocratico con frequentazioni parigine.

Due tipologie umane completamente differenti, eppure pronte a lavorare insieme gomito a gomito, a diventare quasi indispensabili l’uno all’altro.

Bava aveva parlato di streghe in maniera sublime, artistica, supremamente gotica: La maschera del demonio (1960) ebbe tra i tra i non pochi meriti il lancio in scala internazionale di Barbara Steele, sorta di icona del Fantastico italiano.

In quello stesso 1960, per un’ironica legge del contrappasso, perfino un autore intellettuale come Brunello Rondi si avvicinò al filone delle Tenebre, con il complicato e psicologico Il Demonio.

Ma certo il genere si apparentava meglio agli spiriti bizzarri, anarcoidi, o solo semplicemente tesi a raccontare quello che nessuno aveva il coraggio di raccontare.

Prendete Riccardo Freda e il suo vituperato, vivisezionato L’orribile segreto del Dottor Hichcock: una specie di cronaca nera della necrofilia, Eros e Thanatos al loro apogeo: la macchina da presa che investiga il Male, che lo esplora, senza pietà.

Ancora, come dimenticare Antonio Margheriti e il suo raggelante dipinto funebre: Danza macabra (1964) è un circo teatrale dell’orrore, con le inquietanti Margareth Robsahm e Barbara Steele a giocar di fioretto nei dintorni di Saffo.

Un caso — anomalo nel cinema non soltanto italiano — di un cineasta autore del remake di un suo stesso lavoro: Nella stretta morsa del ragno (1971) con Klaus Kinsky nei panni di Edgar Allan Poe, è uno straordinario rifacimento a colori dell’ancestrale Danza macabra sopracitato, con uno sbalorditivo meccanismo narrativo che basterebbe da solo ad inserire Margheriti nell’alveo dei Grandi Autori.

Perfino il caro Camillo Mastrocinque, a cui si legano alcuni dei migliori momenti cinematografici di Totò, si concesse una fuga verso i territori dell’incubo firmando Cinque tombe per un medium (1965), di elegante e non comune sadismo.

Ma certo il nome di cui tutti gli adepti del Fantastico vogliono sentir parlare è Mario Bava, dalla direzione artistica delirante e grottesca, l’unico in qualche modo a credere fino in fondo nelle possibilità del cinema dell’orrore e oggi, dopo tante ingiustizie, finalmente rivalutato come grande autore.

Forse la punta di diamante della sua produzione resta I tre volti della paura (1963), raffinatissima trilogia gotica mutuata da racconti di Gògol, Tolstoj, Maupassant, con un cast dalle preziose presenze femminili (Michèle Mercier, Lydia Alfonsi) coinvolte in angoscianti meccanismi di morte.

Qui Bava approfondisce la sua ricerca sui colori e sulle luci, realizzando dei “cromatismi psicologici” (il verde, il giallo, il blu, il rosso, usati “a pioggia” sui volti degli interpreti) che tuttora rimangono come testimonianza stilisticamente preziosa.

Testimonianza peraltro prontamente assimilata per esempio da Dario Argento, che nei suoi due gotici stregoneschi Suspiria (1977) ed Inferno (1979) sfrutterà quei non comuni giochi di colori e di luci nelle scene stilisticamente più terrorizzanti.

Bava, inoltre, smonta e rimonta i meccanismi stessi del genere fantastico, facendo sempre salva la sua arma migliore, quell’ironia raffinata e crudelmente sarcastica che spesso sconfina nel Grottesco.

Ne sono fulgida conferma Sei donne per l’assassino (1966), Il rosso segno della follia (1968) e Cinque bambole per la luna d’agosto (1969), probabilmente i suoi film più trasgressivi e rivoluzionari, coloratissimi e quasi sbeffeggianti le mode e i modi degli ultimi Anni Sessanta.

Il decennio successivo sarà, per Bava, quello di un malinconico crepuscolo professionale e anche morale, qua e là interrotto da pellicole bellissime in cui pervicacemente ribadisce la sua appartenenza ad un Cinema di qualità, senz’altro denso di brividi di cartapesta, ma recisamente non volgare.

Il suo canto del cigno, Shock (1977), realizzato a quattro mani assieme al figlio Lamberto, è una cupa storia di fantasmi ed allucinazioni interpretata con superbo talento teatrale da Daria Nicolodi.

Anche per Riccardo Freda la paura è atteggiamento filosofico, atteggiamento mentale.

Emigrato a Parigi, confessa al giornalista Goffredo Fofi: “La televisione, questa mostruosa spazzatura del nostro cinematografo, non è stata capace di dedicare al mio amico Bava non dico una serata, ma nemmeno un tardo pomeriggio, proponendoci la sua allucinante Maschera del demonio…”.

Polemicamente, Freda darà l’addio alla regia con Murder Obsession (1981): un altro fulminante esercizio di Grande Stile.

Proseguendo in una traiettoria inconsueta e caoticamente creativa, alcuni cani sciolti del cinema italiano si avvicinano ad un genere che sempre più li attira, nonostante la loro formazione culturale sia d’altro tipo.

Un caso eclatante è quello di Elio Petri, regista simbolo del cinema italiano di denuncia sociale e d’impegno civile.

Rinunciando per una volta al suo attore prediletto, Gianmaria Volontè, il regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto colloca Franco Nero e Vanessa Redgrave (all’epoca marito e moglie) in una villa palladiana della campagna veneta, lui pittore e lei sua moglie in rotta di collisione.

Il film è Un tranquillo posto di campagna (1969), e nonostante il tipico stile di Petri, pesante ed ossessivo, si segnala per il magistrale gioco perverso che fonde allucinazioni e realtà, non mancando di tirare alcune frecce, tipicamente petriane, di sapore polemico-politico.

Sergio Sollima, regista del Sandokan televisivo, si accosta al giallo psicanalitico con il fulminante Il Diavolo nel cervello (1972), dal ricco cast in cui spiccano Stefania Sandrelli e Tino Buazzelli (ma il protagonista è uno strano bambino accusato di omicidio…).

Analogamente riuscita è l’allucinante vicenda del Profumo della signora in nero (Francesco Barilli, 1974) in cui Mimsy Farmer rimane coinvolta nei sordidi e pericolosissimi giochi di una setta satanica capitanata da un crudele Mario Scaccia.

Nello stesso anno si cimenta nel fantastico screziato di rosso persino un autore teatrale blasonato come Giuseppe Patroni Griffi, che dirige la diva americana Elizabeth Taylor in un’angosciosa storia di paranoia e morte: Identikit, ricco di sequenze che sfruttano il lato minaccioso della città di Roma.

Ancora la Capitale come fondale di sangue ed orrore per Macchie Solari (1975) di Armando Crispino, con una sceneggiatura bizzarra che imbastisce addirittura un’epidemia di patologie suicide…

Mentre Dario Argento segna con Profondo Rosso (1975) una pietra miliare del genere e nel contempo un progressivo suo allontanarsi dagli stilemi del giallo puro, si affaccia all’orizzonte del Fantastico un regista di ruspante marca padana, fin dai suoi esordi impegnato in un genere tutto suo che da un lato strizza l’occhio a certe suggestioni di marca felliniana (del resto il territorio di provenienza è lo stesso, l’Emilia Romagna) ma dall’altro inaugura personali ed interessanti tematiche dell’Irrazionale: Pupi Avati.

Aveva debuttato nel 1968 con Balsamus, l’uomo di Satana, dove rileggeva a modo suo la figura del mago Cagliostro, si era inventato una troupe di attori teatrali alle prese con fantasmi pirandelliani (Thomas e gli indemoniati, 1969): ma certo il suo salto definitivo nel filone horror era ancora da compiere.

Succede nel 1976 con La casa dalle finestre che ridono, pregevole esempio di gotico padano, dove l’ambiente contadino viene risolto in chiave sardonica, parossistica, trasfigurata: questo film, medio successo di cassetta alla sua uscita, è stato rivalutato soprattutto dalla critica cinematografica francese, che retrospettivamente ha parlato di capolavoro assoluto.

Avati, fortemente legato alle tematiche del grottesco, ma nel contempo attirato dal genere sentimentale-nostalgico, sfrutta questo doppio pedale nel bellissimo Le strelle nel fosso (1978), mentre Tutti defunti tranne i morti (1976) è una spassosa parodia di Agatha Christie e Zeder (1982) un’originale versione avatiana del vecchio caro tema dei morti viventi.

Dario Argento, dal canto suo, segna a metà Anni Settanta il suo periodo produttivo più felice, quello contrassegnato da una visionarietà e da un formalismo audace e barocco che non mancheranno di far proseliti.

Archiviata per il momento la classica iconografia gialla del “maniaco dai guanti neri” (fu Argento in Italia il capostipite del thrilling all’italiana con l’antesignano L’Uccello dalle piume di cristallo, 1969, e poi con i seguenti Il gatto a nove code, 1970 e Quattro mosche di velluto grigio, 1971, quest’ultimo con embrionali suggestioni parapsicologiche), il cineasta romano compie una lunga ricerca filologica in Germania, riscoprendo testi e documenti legati alla stregoneria.

Si interessa di pittura, arte (specialmente del periodo simbolista) e gli echi della Mitteleuropa costituiscono materia viva per Suspiria (1977) pensato come una rilettura in chiave horror della favola di Biancaneve.

L’alchimia e il Magico saranno invece al centro del successivo Inferno (1979), girato tra Roma e New York, quasi un viaggio ancestrale alla ricerca delle radici del Male.

Sempre a metà anni Settanta inizia il suo lungo cammino tenebroso Lucio Fulci, “facitore” di film di tutti i tipi e per tutti i pubblici, con una spiccata propensione per le tematiche della tensione e del morboso.

Dopo aver approcciato il filone a fine Anni Sessanta con Una sull’altra (1969), ritorna a bomba con Una lucertola con la pelle di donna (1973) che se nel titolo scimmiotta Argento e il suo immaginario “zoofilo”, è però apportatore di inediti spunti macabri.

Il suo lavoro più pertinente, nel decennio preso in esame, rimane Sette note in nero (1977), rielaborazione da Edgar Allan Poe (la “Sepoltura prematura”), con la bellissima Jennifer O’ Neill e Gabriele Ferzetti.

Mentre i vecchi draghi del Fantastico Italiano agonizzano e si rifiutano di partecipare ai balletti macabri di una nuova generazione di autori troppo disinvoltamente sanguinari, Fulci che pure giovanissimo non è, annusa l’aria intorno al Nuovo Cinema e realizza tutta una serie di piccoli classici dello spavento, tuttora soggetto d’esame filmico.

Narrativamente molto vicino, come già si diceva, a Poe e Lovecraft, Lucio Fulci firma Paura nella città dei morti viventi (1980), L’Aldilà (1981), Quella villa accanto al cimitero (1981), Lo squartatore di New York (1982), Aenigma (1987), per non citare che i più efficaci, senza dimenticare quel Zombi 2 che suscitò le funeste ire di George Romero e Dario Argento, autori del più famoso Zombi (1978).

Fulci, mediocre direttore d’attori e claudicante sceneggiatore, brilla viceversa per un non comune senso visivo, molto sadico ed aggressivo, che sovrabbonda di effetti speciali (a cura di Giannetto De Rossi, artigiano storico di Cinecittà) e tende di inserire la materia filmica in un contesto visionario ed allucinatorio.

Seguendo il cammino di Lucio Fulci, siamo arrivati a parlare del decennio più infelice e improduttivo del Fantastico Italiano, che purtroppo si protrae fino ad oggi, a parte sporadici casi.

La moda splatter-gore impera nel cinema horror internazionale, e se ne fanno italici portavoce registi quali Lamberto Bava e Michele Soavi.

Il primo, figlio di Mario, debutta nel 1980 con una raccapricciante vicenda di teste mozzate conservate in frigorifero (Macabro, prodotto da Pupi Avati), per proseguire una carriera altalenante con La casa con la scala nel buio (1982) e la saga in tre capitoli, prodotta da Argento, di Demoni.

Attualmente, Bava junior si occupa stabilmente della fiction Mediaset.

Introverso e cerebrale, Michele Soavi debutta nel 1987 con Deliria, ispirato ai racconti di Edgar Wallace, preciso e fulminante.

Torinese, Soavi è stato assistente alla regia per Argento, e dopo Dellamorte Dellamore (1992) non riesce a replicare la propria vena descrittiva.

Mentre Argento ritorna al giallo con Tenebre (1982) e poi fatica a ritrovare smalto e idee (Phenomena, 1984; Opera, 1987; Due occhi diabolici, 1990), assistiamo alla dimessa scomparsa di Fulci (1996) e al debutto dietro la macchina da presa del mago degli effetti mostruosi argentiani Sergio Stivaletti.

Ma si tratta, veramente, di un malinconico sipario che cala su un filone che ha dato tante e ripetute emozioni a platee eterogenee di spettatori.

“Dalle tenebre” siamo progressivamente passati all’oblio, al vuoto pneumatico, alla totale aridità.

Paradossale, come dicemmo all’inizio, che proprio dalle ceneri di quest’Araba Fenice che è stata il Fantastico Italiano, sia nata una generazione di appassionati cinefili giovani e visionari, pronti a ripescare i gialli erotici di Sergio Martino con Edwige Fenech o gli horror “etruschi” di Armando Crispino.

Operazioni, purtroppo, di retroguardia, di celebrazione del passato, di venerazione di un tempo che fu.

A quando un altro scintillante, delirante, visionario “schermo insanguinato”?

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