LEGGI LA RECENSIONE |
Sotto una pioggia leggera
Distillava il cielo
su strade e case
una pioggia leggera.
Nella tua libreria
avevamo discorso
– Domenica passata
con amici a Cremona,
pranzo in campagna. –
Gli occhi socchiusi,
quando sei assorta
lentamente leggevi
quella mia lettera,
sorridevi nelle pause,
ma non rispondevi,
o forse la risposta
era nel tuo sguardo,
una volta per tutte,
nell’enigma
del tuo sguardo,
talvolta solare, così
indifferente sempre.
Una pioggia leggera
fuori cadeva.
Parlavamo di tutto,
parlavamo di niente.
– Che buio, qui dentro
in fondo al locale,
negli ultimi scaffali
che buio. –
– Quanto sei bella,
più che mai stasera. –
– Grazie —, al solito
rispondi garbata,
recitativa, nulla
ti sfugge di te,
alla mia ansia
nessuna risposta,
nulla concedi.
– Non posso lagnarmi –
– Una sigaretta? –
– Preferisci le mie? –
– Alle sette si chiude. –
Sotto la pioggia leggera
traversavamo il corso,
t’ho sfiorata appena,
ho sentito (sfumatura)
il tuo braccio ritrarsi.
– Preferisci un Porto?
– Meglio un Martini
nel frastuono del bar
un affrettato brindisi,
poi il tuo saluto
consueto, improvviso,
m’hai teso la mano.
Sotto la pioggia leggera
la tua figura,
il passo cadenzato,
ho visto lontanarsi;
la tua figura eretta
apparire sotto i lampioni,
disparire nera
nel buio nero.
L’ho vista lontanarsi
verso un invidiato
dissimulato recesso.
Come sempre…
Sotto la pioggia leggera
improvvisa ritorna
(un neo nella memoria)
l’attesa nella stazione
d’una periferia immemore
(la campanella suonava),
precipite irruppe
ululando il rapido,
un attimo, e da rotaie
frementi, fascinoso,
assurdo, mi colse
il noto richiamo.
…come sempre,
e allora perché
questa angoscia
come dopo un addio?
Lentamente ho ripreso
i passi consueti,
una sigaretta accesa
tanto per fare.
Mai ho così sentito
la lontananza, mai
ho così detestato
il tuo atroce garbo.
Continuava a cadere
una pioggia leggera…
La chiave
Come materno languido
abbraccio la rosea promessa
dell’alba è apparsa
d’un torrido giorno
che ad una gelida stagione
il ruolo usurpava.
Viali deserti ho percorso
di platani spogli, di tigli
frequenti e di frassini
sino alla vasca dove
ninfee moribonde
esalavano un vergine candore.
Una chiave dalla ghiaia
ho raccolto che il caso
fatale aveva smarrito.
Dopo porte innumerevoli
invano tentate, a capo
di scale di screziato marmo
di nobili ricche magioni,
furtivamente visitate,
sotto una pioggia inattesa,
in una semiperiferia densa
di lezzi nauseanti, infine
un piccolo scuro battente
d’una casa di pietra grigia
di poche esigue finestre,
fiera d’una crostata
antica dignità sfuggita
a sepoltura, infine ha ceduto.
Una stanza piccina
abbagliante di luce solare
immersa in un silenzio immemore,
lento ho seguito il perimetro
carezzando antiche pareti
esalanti sorrisi ineffabili,
mi son rotolato nel verde
soffice prato del pavimento,
ebbro d’una felicità
dimenticata. Una porta
senza battenti spalancava
la vista d’un corridoio
e il buio era interrotto
da infrequenti plafoniere
che nivee tracce sul nero
suolo arabescavano
e spazi si schiudevano
irregolarmente sui lati.
Incerto son penetrato
nel caldo d’una stanza
d’azzurro diffuso
e un tiretto del cassettone
luigi sedici che sorridendo
riconoscevo, sobbalzante
ho tratto, di giuggiole colmo.
Furtivo, attorno guardando,
la nota che assaporavo
dolceamara speranza.
Di lì un’ampia via s’apriva,
che lastricata scendeva,
e ormai era giorno e Lena
lentamente s’allontanava
e sorrideva lieve d’un sorriso
inafferrabile e un uomo
piccolo l’accompagnava,
la chiamavo ma altro suono
la mia voce balbettava;
con larghi gesti suadenti
l’uomo piccino m’invitava
e di sordo furore tremavo.
Ora pioggia con cadenzato
crepito sulla tettoia cadeva
e, sotto, indifferente, Lena
sedeva al bar; invano
con voce recalcitrante
replicavo l’invito.
Nella luce del giorno
sui viali son tornato
non più deserti, di platani
spogli, di tigli frequenti
e di frassini, alla vasca
dove moribonde ninfee
esalavano un vergine candore,
come qualcosa strappata
alla carne, come in deserto
paese, la fine d’un amore.
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Quando mi chiedono da dove nasce la poesia un brivido di sconforto mi percorre perché nessun poeta, nessun santo ha mai capito quali siano le scaturigini del suo “rapimento”. In questo senso molti contristano i grandi perché vorrebbero “Possederli” e in un certo modo violentare la loro innocenza di vita, perché la poesia è vita e poi diventa canto di vita. Ma la poesia, e molti non lo sanno, è anche una grande lacerazione e non tutti credo siano in grado di passare attraverso le forche caudine del dolore; bisogna certe volle toccare i lembi della morte. Quindi la poesia è un rischio ma anche una forma di resurrezione verbale. Sò che Vanni Scheiwiller venne maledetto da poeti pusillanimi che si credevano grandi e che Vanni non voleva pubblicare. Ma avrebbe certamente pubblicato le poesie di Franco Gatti che è almeno discreto quanto bravo.
Certo ne avrebbe pubblicate meno in quella stupenda collezione del suo “Pesce d’oro” celebre quanto lui, che prese il nome da una vecchia trattoria chiamata “All’insegna del pesce d’oro”.
Caffè culturali a Milano non ne esistono più, io e il poeta Gatti ci siamo incontrati in un bar dei Navigli dove si fa musica e schiamazzi, io, disperata alla ricerca delle vitalissime sigarette che sempre hanno ispirato i poeti, a volte pendule dalle labbra e sostanzialmente mai fumate. Il vizio ha sempre accompagnato i poeti soprattutto il vizio di andare fuori strada e di giocarsi la vita per una grande ispirazione.
I nostri giovani non lo sanno più fare, vivono in tribù anomale e non hanno più sete di individualismo. In alcune delle poesie di Gatti ho trovato un modo di “far poesia” che mi ha ricordato il grande Montale scorbutico capriccioso severissimo come tutti i grandi poeti. Comunque anche se mi sono presa le mie bastonate, devo dire che le perfette composizioni del Gatti mancano a parer mio di un tocco di lirismo in più ma probabilmente come tutti i poeti forti alle volle si preferisce piangere e pregare piuttosto che cantare il grande dono della poesia. Con tanto affetto e tanti auguri.
Alda Merini
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