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Cinema

Jerzy Kawalerowicz

Il Maestro dell’Est

Il grande maestro del cinema polacco, sbarca a Trieste, all’Alpe Adria film Festival. In suo onore è stata organizzata una rassegna cinematografica che permetterà a tutti di gustare i grandi capolavori del maestro, tra cui anche Madre Teresa degli Angeli.

Fucine Mute (FM): Buon compleanno innanzitutto. Signor Kawalerovich, lei ha visto il volume che il festival ha preparato su di lei e sulla sua cinematografia?

Jerzy Kawalerowicz (JK): No, lo ho soltanto sfogliato, non lo ho letto bene a fondo.

FM: Bene, allora riformulo la domanda “se lei aggiungesse qualcosa al suo background artistico nel libro” in “ci racconti un po’ della sua formazione artistica e di particolare poco noto della sua carriera” ?

JK: Io ho ottant’anni e mi riesce un po’ difficile ricordarmi tutto, dell’inizio soprattutto. Sicuramente il neorealismo italiano ha influenzato molto il mio cinema. La base dalla quale abbiamo incominciato noi registi polacchi è stata un po’ la stessa dei registi neorealisti, il dopoguerra, il voler ricostruire, ricostituire il cinema. All’epoca, quando il neorealismo entrava a far parte di un circuito mondiale, noi incominciavamo a fare cinema, a fare film sociali che dovevano descrivere la realtà e i suoi cambiamenti, le sue complessità… Perciò l’inizio è più o meno lo stesso del neorealismo italiano.

Il cinema polacco antebellico non esisteva, non esisteva l’arte di fare cinema. Il cinema polacco era molto commerciale. Solamente dopo l’esperienza lacerante della guerra noi abbiamo incominciato a girare film seri e socialmente impegnati, ma soprattutto abbiamo incominciato a fare Arte. In particolare ci siamo soffermati sulla ricerca del protagonista, dell’eroe, che prima non c’era. Penso che questo tipo di studio e di ricerca artistica abbia coinvolto tutto il cinema tranne quello americano che fa storia a se. Dopo la guerra il cinema ricercava l’Arte, intellettuale, delle domande.

Secondo me, prima della guerra, il regista, la figura del regista non esisteva. C’erano pochi produttori potenti e prepotenti come appunto la Metro Goldwyn Meyer, la Twentieth Century Fox, che imponevano una certa realtà commerciale e artistica ai registi. All’epoca esistevano il produttore e l’attore, la star. Il regista rimaneva un po’ in disparte. Dopo la guerra la ricerca si è fatta Arte.

FM: Lo studio system, lo star system che si è sviluppato particolarmente dopo gli anni trenta in America…

JK: Sicuramente, tutto si svolgeva lì, all’oscuro delle potenzialità artistiche del regista e della pellicola.

Noi, dopo la guerra avevamo due scuole a cui facevamo riferimento: quella del neorealismo italiano e quella del grande cinema sovietico, che incominciava ad uscire dal quel circolo vizioso che era la propaganda e dal socialismo reale.

FM: Al di là del realismo e dalla sociologia, noto che nel suo cinema ci sono grandi passioni e che ci sia anche un grande coinvolgimento emotivo del protagonista… Grandi passioni, incroci di destini. Questo coinvolgimento emotivo viene risolto formalmente con molte riprese dall’alto e con l’avvicinamento ai personaggi ripresi da dietro che poi vengono scoperti. Che cosa ne pensa del melodramma? Le interessa come forma artistica?

JK: In realtà, il melodramma è una necessità del cinema, in quanto è una tendenza presente da sempre non soltanto nel cinema ma in tutte la Arti in generale. Una necessità che sta alla base di un racconto.

FM: Il suo film, Madre Giovanna degli angeli, che abbiamo visto in sala recentemente, a mio avviso, continua a far riflettere. Alla fine della proiezione la gente stava in silenzio, pensava. Che effetto crede che faccia vedere il suo film oggi per la prima volta, e che effetto può avere questo film sullo spettatore giovane?

JK: Partiamo dal presupposto che il film è stato girato più di quarant’anni fa, quindi c’è una enorme differenza tra lo spettatore contemporaneo e quello di quaranta anni fa. Io non posso parlare per gli altri, posso solamente immaginare la reazione di un pubblico giovane. Se, come dite, si sono alzati in silenzio, pensierosi, penso che lo abbiano recepito molto intensamente. Spero che il film li faccia riflettere. Di una cosa sono sicuro: il film, formalmente, artisticamente e visivamente è molto differente da ciò che i giovani sono abituati a vedere ogni giorno. Non posso però parlare della loro percezione del film, anche se spero che possano rifletterci sopra.

FM: E crede inoltre che l’importanza dell’influenza della Chiesa oggi sui giovani (sicuramente più aperta su certe questioni), possa far vedere il film sotto un’ottica diversa?

JK: Sicuramente c’è una percezione diversa dovuta al differente influsso che ha oggi la Chiesa sulla società. Negli anni sessanta, quando ho girato questo film, venne considerato da tutti un film scandaloso, è stato censurato e fortemente contraddetto dalla Città del Vaticano. Ricordo che in Polonia, sulla porta delle chiese, c’erano delle pseudo-recensioni del film che vietavano la sua visione e la sua proiezione. Andare a vedere questo film era addirittura considerato un peccato. Oggi è diverso. Oggi mi sono recato al Vaticano per proiettare il mio Quo Vadis? e ho incontrato un vescovo che allora aveva visto Madre Giovanna degli Angeli. Mi confessò di aver rivisto il film e di considerarlo una bella pellicola; “non la biasimo”, mi disse. “Quella volta quando lo vidi da giovane prete ero indignato, ma oggi, dopo quarant’anni, devo proprio complimentarmi.

Io credo che si tratti semplicemente di un film sull’Amore, sul difficile amore risaltato dalla complessità di rapporti che i due hanno, e i dogmi della religione impediscono loro di amarsi. Un amore impossibile tra un prete e una monaca. Questa è la sostanza del film, la sua universalità, mentre la percezione è diversa.

FM: Il film, Madre Giovanna, è simbolicamente molto codificato; i personaggi si rivolgono alla telecamera (sguardo in macchina) in maniera molto diretta. Oggi forse non sembra un’innovazione, ma lo era quarant’anni fa. Volevo sapere se queste caratteristiche derivano dalla sua formazione cinematografica e artistica.

JK: Le arti figurative mi hanno dato l’opportunità di esprimermi formalmente. Per quanto riguarda questa tecnica in particolare, dello sguardo in macchina, per me si tratta di un processo legato alla “soggettivizzazione” del messaggio e ad un certo coinvolgimento da parte dello spettatore. Ovvero lo spettatore non è osservatore, ma partecipante. Questo procedimento deve renderlo partecipe alla situazione. Per dirla con una metafora direi che “possiamo filmare con delle macchine fisse, dalle tribune, una partita di calcio e renderla il più oggettiva possibile, oppure possiamo montare la cinepresa sul piede di uno dei calciatori che riprenda soggettivamente la partita”. Si tratta di due procedimenti diversi, io preferisco la telecamera attaccata alla scarpa del giocatore. è tutta un’altra emozione, un altro modo di partecipare allo spettacolo.

FM: Sempre a proposito di Madre Giovanna degli angeli, volevo sapere se si può anche parlare di influenza nordica oltre che del neorealismo e della grande cinematografia russa.

JK: Io non punto molto sulle scuole, piuttosto sulle individualità. In ogni collettività cinematografica, in ogni circolo, si può spesso far riferimento ad un’individualità. Quando mi dite cinema nordico, io penso a Bergman, che in ogni caso è molto differente da me. Egli, infatti, illustra attraverso il suo cinema, cosa che io tendo a non fare.

FM: Volevo parlare di una sequenza in particolare, quella in cui lo stesso attore interpreta due personaggi diversi, un prete e un rabbino. Avrei due domande che riguardano il film: se ci sono state delle reazioni dalla comunità ebraica, e se, riguardo al secondo personaggio, la religione poteva essere qualsiasi o se è stato scelto l’ebreo per un motivo in particolare.

JK: No, un deciso no per la sostituzione, poiché si tratta dello stesso personaggio diviso in due, ovvero due lati della stessa religiosità, dello stesso mondo emozionale. Non si possono sostituire perché il rabbino e il prete, ovvero le due religioni, sono legate l’una l’altra in maniera particolare, in maniera genetica, molto conflittuale, e sono imprescindibili l’una dall’altra. L’unico tipo di scambio che si può fare è quello tra loro due, all’interno del film, se parliamo di quei valori ideologici che essi incarnano. La chiave di lettura della scena va vista come una generale impotenza dei due di fronte alla situazione dell’intreccio. Non riescono a fare niente, non riescono a ricorrere a nessuna soluzione. Sono ugualmente indifesi e soli.

FM: Però c’è il rabbino che porta il seme del dubbio, mentre il cattolico professa una verità: questo è un modo, da parte del maestro, di intendere le due religioni? La religione ebraica portatrice anche di dubbi e invece quella cattolica portatrice di certezze?

JK: L’interpretazione è giusta, infatti è proprio il rabbino che semina dubbi. Dobbiamo sempre tener presente che si tratta della voce interna dello stesso personaggio rappresentata visivamente dal rabbino. Sono due lati della stessa riflessività. Sarei più restio ad ideologizzare questa posizione: si tratta di posizioni piuttosto psicologiche e ideali. Il rabbino dice poi al prete che lui non ha capito nulla. Gli fa vedere come egli sia completamente impotente di fronte all’amore.

FM: Infatti torna a casa e incomincia a flagellarsi…

JK: Un’avvertenza: bisogna stare attenti a non incappare in una esagerata semplificazione della materia di studio. Le interpretazioni, infatti, possono essere molteplici. In realtà, l’amore è indefinibile, e in questo film io non offro una definizione dell’amore. Esso viene portato all’estremo, io tratto l’amore tra due persone che per dogma non si possono amare. Ho portato una situazione, che risulta complessa dal lato psicologico e etico, all’estremità.

FM: E le reazioni della comunità ebraica?

JK: Quando portai questo film a Chicago… anzi (interviene la moglie, n.d.r.) quando portai la Locanda Austeria a Chicago…

Signora Kawalerowicz: Quando uscì Madre Giovanna, ci fu una doppia reazione: isterica quella della Chiesa di cui abbiamo molto parlato, ma anche quella dello Stato. La condanna è stata doppia. Mentre per La Locanda, film che tratta in particolare le tematiche ebraiche, presentato al Festival dei Film Ebraici a Chicago, gli “ebrei santi”, quelli che hanno vissuto in Galizia, da dove provengo io, gli ebrei ortodossi ‘hassidim’, mi hanno regalato il vestito rituale per la preghiera, in segno di riconoscenza. Questo per quanto riguarda la reazione alla Locanda.

JK: Questa confusione non è del tutto casuale: infatti considero i due film trattati quelli più importanti e significativi per il mio cinema. Trattano delle tematiche che sono molto legate tra di loro. In realtà Madre Giovanna degli angeli ha avuto una pubblicità incredibile, sia fuori che dentro al nostro Paese poiché il regime era dell’opinione che fosse fin troppo cattolico, mentre la Chiesa sosteneva di essere stata schiaffeggiata dalla pellicola. Doppiamente condannato, il film ha avuto doppia pubblicità e il mondo intero è andato a vederlo.

FM: Alcuni suoi film sono impegnati politicamente; volevo sapere se lei si considera un’esponente del cinema di ‘Inquietudine Morale’? Mi riferisco a film come La morte del presidente.

JK: Questo è stato un episodio isolato del cinema polacco che alla fine non fece scuola. Da questa corrente sono uscite solo delle individualità come Kiewsloski o altri. Mentre quella tendenza, quella scuola, che si concentrava intorno all’attualità, era un cinema che voleva riparare a piccoli guasti della realtà. All’inizio questo cinema della ‘Inquietudine Morale’, questi giovani hanno poi rinunciato alle vere idee iniziali che caratterizzavano questa tendenza. Io non credo di far parte di questo gruppo, anche perché la scuola polacca, quella del dopo 1956, è andata oltre.

FM: Si dice che la metà della storia del cinema polacco si sia sviluppata in questi ultimi cinquanta anni. Che cosa crede sia cambiato adesso ontologicamente, nel cinema polacco?

JK: Sono cambiate le tecniche, i modi narrativi, la situazione di comunicazione, il rapporto tra film e spettatore. Adesso i film vengono anche visti in videocassetta, in dvd, a casa alla televisione. Il contatto è diverso. Però l’essenza è la stessa, il cinema non cambia perché il suo senso è quello di narrare, come in letteratura. Possiamo cambiare modi narrativi, strutture, modalità di comunicazione, ma l’essenza è la stessa.

FM: L’ironia nei suoi film ha una funzione tecnica di alleggerimento della pellicola oppure è fondamentale nella sua visione delle cose?

JK: No ho mai analizzato l’ironia nei miei film, quindi non è una cosa decisa a tavolino, si tratta di intuito, credo. Spontanea intuizione, come nel caso di un pittore che ha in mente un disegno generale e riempie la tela di colore.

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