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Palcoscenico

Paolo Bonacelli

Le furbizie di Scapino

Nell’ambìto dello spettacolo “Le furbizie di Scapino” — Politeama Rossetti.

Riccardo Visintin (RV): Allora, siamo qui per fare due chiacchiere con… possiamo dire un amico di Trieste, perché Paolo Bonacelli è venuto parecchie volte a Trieste, credo forse la prima addirittura negli anni Settanta…

Paolo Bonacelli (PB): Mi pare di sì, non in questo teatro, in un altro teatro, l’Auditorium mi pare, sì… mi ricordo sì, e poi sono venuto molte volte, ho fatto anche due stagioni qui con il Teatro Stabile, due spettacoli dello Stabile in epoche diverse, intorno agli anni Settanta.

RV: E torna a Trieste con questo spettacolo molto divertente, molto spumeggiante che non lascia così, al pubblico pause interlocutorie: “Le furbizie di Scapino”,e siamo qui anche per incontrarlo, per conoscerlo un po’ meglio. Allora, partiamo un po’ dallo spettacolo come prima domanda, insomma… c’è questo gioco collettivo vostro che è talmente fluido, talmente sciolto da riversarsi poi sul pubblico appunto con altrettanta facilità: è spontaneo o in questo gioco poi c’è in realtà un lavoro dietro ben congegnato, insomma…

PB: Sì, come hai detto giustamente te uno dei segreti di questo spettacolo è un grande ritmo, una grande velocità , non perché il pubblico non debba pensare, ma perché un po’ è il senso dello spettacolo in sé, cioè è una situazione di grande vicinanza con la realtà, oltretutto c’è questo linguaggio che rende ancora più attuale , anzi la attualizza molto bene, la commedia di Molìere, e quindi noi abbiamo visto che dalla prima replica, proprio dal debutto circa tre mesi fa da oggi, lo spettacolo ha acquistato proprio una grande facilità di comprensione dal pubblico, attraverso questa velocità. Naturalmente poi ci sono delle pause interne, ma sono tutte a ragion veduta, ed è uno spettacolo che incontra molto, è una lettura nuova di Scapino, un po’ il regista Fantoni ha messo in evidenza una certa dose di malinconia e di solitudine del protagonista, che a me ad una prima lettura era sfuggita, e che poi però piano piano ho trovato con il lavoro fatto insieme.

RV: C’è una domanda che io mi sono in qualche modo posto ma che poi avevo un po’ di pudore a fare, allora cerco di formularla nella maniera migliore.

Sergio Fantoni è un suo collega, è un attore che ha lavorato per moltissimi anni e conosciamo la sua carriera a teatro ed anche al cinema.

Ha avuto dei problemi di salute seri, credo che abbia vissuto l’esperienza più difficile da un punto di vista anche psicologico per un attore, cioè ha perso buona parte della sua voce.

A me interessava capire — se Paolo Bonacelli vuole raccontarmelo- il rapporto che si è creato tra voi e che tipo di fiducia si deve creare tra un grande interprete come Paolo Bonacelli e un suo collega che l’attore non lo può più fare, che fa il regista e quindi affida in qualche modo in qualche modo ad un suo collega “il mandato”. Come si vive questo dal punto di vista emotivo, e quindi non solo tecnico?

PB: Io non mi sono fatto un problema del passato di Sergio Fantoni, lo conoscevo, lo sapevo… Io l’ho preso come un regista, ci sono tanti attori che fanno delle regie e l’ho preso come tale, cioè un attore che fa la regia. Io non credo che in lui ci fosse mai stata la voglia di fare Scapino, per esempio… Credo che non abbia mai pensato a questo personaggio, non perché non fosse nelle sue corde, perché io penso che tutti gli attori possano fare tutto, ma perché obbiettivamente il suo percorso di interprete non lo avrebbe portato a fare questo tipo di Molìere, poi ne ha fatti altri con esito eccellente.

Il mio rapporto è stato quindi quello che ho normalmente con un regista, cioè apportare… Io sono un attore un po’ così, non dico particolare, ma io giorno dopo giorno cambio, cambio un po’, vado avanti. Il personaggio lo faccio verso la quindicesima replica, perché ho bisogno poi del rapporto con il pubblico, perché è il pubblico che certe volte mi fa capire meglio quello che né il regista, né i miei colleghi né io delle volte capiamo.

L’approfondimento quindi dello spettacolo avviene dopo un po’ di repliche con il pubblico, quest’anno abbiamo avuto una cosa già studiata, di farlo un po’ in provincia, e anche in certi teatri magari più piccoli che ci hanno stimolato magari di più a rendere per esempio la velocità di questo spettacolo, e Fantoni mi sembra una persona con la quale si può lavorare bene, perché è un attore che suggerisce, un attore che suggerisce, e lascia all’attore un certo margine di creatività.

RV: Grazie. Io le faccio una ultima domanda, intanto ringraziandola per la sua disponibilità; che in qualche modo poi ci è capitato di fare spesso in questi ultimi tempi a suoi colleghi con un passato un po’ ponderoso — noi abbiamo incontrato Glauco Mauri, Paolo Poli…

Io lo conoscevo già, ma insomma mi sono dato una scorsa a questo vertiginoso e molto affascinante curriculum di Paolo Bonacelli, che ha iniziato prima degli Anni Sessanta. Per dire che ha iniziato con Gassman, per fare un nome, e poi è andato avanti; non vorrei sbagliare, ma credo che lei abbia condiviso con Gassman l’esperienza del Teatro Popolare Italiano.

PB: Sì, ma non era più il “tendone”, era ritornato nei teatri normali, io recitai a Roma al Teatro Quirino, a Milano al Manzoni, e non era più il tendone, questa famosa iniziativa… Era un po’ l’ultimo anno, perché poi lui passò al cinema, si disinteressò per un po’ di anni di teatro.

RV: Lei ha vissuto un’esperienza — lo ha accennato lei adesso — quarantennale, ricchissima di esperienze a teatro, al cinema, inutile elencare, ma insomma anche tantissimi film con Bolognini, con Rossellini, con Benigni negli ultimi tempi, ed altrettante esperienze intense a teatro, con Albertazzi, con Missiroli, poi c’è questa esperienza attuale che si sta protraendo da parecchi anni con il Teatro di Sardegna…

Allora la mia domanda è questa: quando Paolo Bonacelli vede i suoi colleghi giovani, venticinquenni o trentenni , che in qualche modo volenti o nolenti hanno un cammino diverso, cioè fanno uno spettacolo a teatro, poi fanno la fiction, poi fanno altre cose, cosa prova, cosa pensa tra sé e sé, dice: “ma forse non se lo meritano, il successo”, “non hanno faticato, sudato, sanguinato sui testi come noi “?

Ecco: mi interessava capire se c’è una differenza generazionale…

PB: Ma certo che c’è una differenza generazionale… io penso che per certi versi ognuno ha la sua storia, e che poi risente del tempo in cui si è vissuti… oggi quel che conta molto è la popolarità, soprattutto in qualche modo la televisione, ai tempi miei questo contava molto poco, molto meno, non c’era ancora la televisione.

Cioè, cominciava allora, erano gli Anni Sessanta… quello che era importante era il teatro ed il cinema, io penso che tuttora teatro e cinema siano ancora di gran lunga più importanti della televisione, io penso che la televisione è un mezzo così, che va in tutte le case, che può dare popolarità, ma che in effetti per chi lavora in questo settore rappresenta una parte diciamo laterale, se dovessi definirla in un modo, anche quando si fanno certi grandi protagonisti in televisione poi si rimane legati a quei protagonisti e difficilmente poi si riesce a fare il cinema, questo perché per esempio se uno fa un film e non incassa una lira, non va bene. Ed invece uno è difficile che in televisione non faccia soldi, c’è sempre un pubblico, ma il discorso è un altro… Ma uno che fa il mestiere che cosa vuole: vuole comunicare con il pubblico, vuole risolvere solo problemi personali, vuole il successo, vuole avere la popolarità… dipende un po’ da tutto questo, cioè dall’inizio come parte questo, questa persona, questo giovane.

Io sono partito perché mi interessava sapere, conoscere me stesso, e comunicare con il pubblico. Poi il successo mi è arrivato, ma tardi, più tardi. Forse avrei potuto, ma non era il mio obbiettivo il successo; oggi i giovani giustamente pensano anche molto al successo — e fanno bene —, alla cosiddetta popolarità.

Ognuno ha, secondo me, non per essere fatalista, un suo disegno che seguirà poi durante tutta la carriera. Io sono riuscito, ho attuato questo disegno, cioè sono contento di aver fatto tante cose, di aver fatto il cinema oltre che il teatro; è una cosa secondo me molto importante per un attore conoscere il mezzo cinematografico, e l’ho fatto a tanti livelli. Tu parlavi di Bolognini, ma ho lavorato anche con Liliana Cavani, Pasolini, Rosi, tanta gente con cui ho lavorato, anche Sergio Corbucci o Alan Parker, tutta questa gente qui. Sono stati degli incontri molto fortunati , che se avessi fatto soltanto il teatro non avrei avuto mai modo di avere.

RV: Una postilla, in chiusura… La sua poliedricità è nota, per esempio mi è piaciuto molto da spettatore vedere Paolo Bonacelli passare da “Una solitudine troppo rumorosa” al “Ritorno a casa” di Pinter, per esempio. Però si dice che ogni attore di teatro e forse anche di cinema ha un sogno nel cassetto, un ruolo che bolle in pentola, ma poi bisognerebbe anche che qualcuno questa pentola la accenda…

PB: Io ho fatto più di quello che sognavo di fare, non ho nessun tipo di sogno nel cassetto: è come quando ci si sveglia un giorno, la mattina, e si dice “come sarà questa giornata?” .

In questa giornata ci sarà un certo tempo, e in quella giornata ci sarà una certa offerta, una certa idea che viene, ma non ho niente, non ho nessun tipo di rimpianto, ho fatto quasi… non quello che volevo fare, ripeto, di più di quello che volevo fare.

Io ho affrontato questo mestiere partendo dai libri, non partendo da esperienze di palcoscenico, leggevo i libri, facevo il liceo, poi ho fatto l’università e i libri mi hanno portato al teatro, a fare poi l’esame in Accademia, ma non ho mai sognato di fare Amleto, o di fare Otello, no… Ho sognato anzi di essere un po’ come Sordi e Totò, e in questo spettacolo un po’ Totò lo sono, anche se fisicamente non sono certo lui…

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