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Cinema

Emir Keta

L’identità del cinema albanese

Ermir Keta, giovane regista albanese, ha presentato all’AlpeAdria Film Festival, il suo cortometraggio Fatmir con il quale ha conseguito il diploma a Milano, alla Scuola di Cinema.

Martina Palaskov Begov (MP): Parliamo di Fatmir. Qual è la filosofia e il messaggio del corto?

Ermir Keta (EK): Volevo raccontare una semplice storia di un ragazzo straniero che vive in Italia da tanto tempo. Però, anche dopo tutto questo tempo, e pur facendo parte della realtà italiana, non riesce ancora a capire quale sia la sua vera identità. Quando si confronta con gli italiani, questi gli danno dello straniero, e viceversa, quando ha a che fare con persone albanesi, non lo riconoscono come fratello. Ho cercato di giocare su questo dilemma.

MP: Fatmir è un uomo che come te se ne è andato dall’Albania e si è trasferito in Italia. Hai avuto problemi nello stabilirti in un altro paese e che tipo di accoglienza hai avuto in Italia?

EK: Problemi ci sono anche quando cambi quartiere o quando cambi casa… Mi trovo in Italia da quasi sei anni, e mi trovo bene, mi torvo bene a Milano. Non credo di voler lasciare Milano per nessun’altra città, in questo momento. C’è da sottolineare che i problemi ci sono sempre… con la casa, il lavoro e via dicendo. Dopo sei anni, non credo che riuscirei a lasciare Milano così facilmente. Parigi, per esempio, l’ho lasciata dopo un anno…

Per quanto riguarda l’accoglienza, devo dire che ci sono stati dei momenti in cui mi sono reso chiaramente conto di come la gente considera lo straniero in generale e l’albanese in particolare. Parlando con la gente, spesso mi sento dire “ma tu non sembri albanese”… questo è ciò che mi fa stare peggio. Tutti sono abituati a considerare l’albanese attraverso gli stereotipi offerti dalla Tv. Ma non solo l’albanese, ma anche l’africano, il rumeno… ci sono tanti colori nel mondo.

MP: A Parigi cos’è successo che te ne sei andato così presto?

EK: A Parigi non ho avuto problemi. Ero probabilmente troppo giovane.

MP: Credi che la comunità albanese o di stranieri in generale si sia abbastanza integrata in Italia?

EK: Anche in questo caso gli albanesi fanno la differenza, non in bene tuttavia. La comunità albanese è l’unica comunità che non è una comunità. Nel senso che non esistono i bar dove vanno gli albanesi, non ci sono locali dove si fanno feste albanesi, non esiste un luogo dove la gente si riunisce per festeggiare ricorrenze nazionali. Invece per quanto riguarda le altre comunità, parlo per la realtà milanese, quella che conosco meglio, le altre comunità dicevo, sono molto unite. Mi riferisco agli africani, agli eritrei… i tunisini, i marocchini sono molto legati. Gli albanesi sono individualisti. Ognuno viene in Italia per conto suo e rimane in Italia per conto suo. Non penso che si tratti di egoismo, anzi, siamo molto curiosi come popolo, ma ognuno fa la sua vita. Quando succede qualcosa a qualcuno, l’albanese se ne lava le mani, anche se poi è facile finire nei casini solo perché sei straniero e dovrebbe esserci un po’ di solidarietà.

Il cortometraggio che abbiamo girato non riesce a toccare tutti questi problemi, anche se il mio intento era quello di evidenziare queste caratteristiche.

MP: E la complicità che troviamo nel corto tra Fatmir e il povero immigrato che viene travolto in bici?

EK: Fatmir vede l’incidente e si trascrive il numero di targa sul pacchetto di sigarette. Egli poi non lo riferisce al vigile, ma lo affida direttamente al ragazzo straniero. Si tratta di un particolare un po’ più complesso che ho ideato parlandone con lo sceneggiatore. Colgo l’occasione per sottolineare che la troup, attori compresi, sono tutti italiani, io sono l’unico albanese della produzione. Abbiamo discusso molto tra di noi (i due sceneggiatori sono Aldo Semproni e Nicola Lorenzi). Dovevamo decidere a chi Fatmir doveva dare il numero di targa dell’automobilista pirata. Abbiamo infine deciso che Fatmir avrebbe dato l’informazione al filippino e non alla polizia per evitare di “finire nei casini”. L’idea del “io sono albanese e vivo qua, ma non voglio avere problemi”; però dall’altra parte assicura il filippino dicendogli che poteva chiamarlo se avesse avuto dei problemi. Qui la complicità si vede. Se non ci proteggiamo tra di noi chi ci protegge? Chiaramente senza offendere nessuno. Questo clima c’è, esiste, lo sento.

MP: Come hai lavorato al corto, ti sei ispirato a qualcuno in particolare, avevi uno storyboard di ferro? Mi ha colpito particolarmente quel movimento di macchina che hai girato intorno ai due personaggi, mentre si parlano.

EK: Del film, raramente c’è stata una cosa improvvisata, è stato tutto pensato prima; gli stessi movimenti che ti sono piaciuti, i dialoghi, tutto insomma. Abbiamo lavorato con Nicola e Aldo, che sono gli sceneggiatori, su una trama che inizialmente era una “trashata”, poi scrivendo ancora e discutendo abbiamo sviluppato un soggetto che poteva andar bene per il mio progetto di diploma. Abbiamo lavorato tre mesi solo sulla sceneggiatura. Poi abbiamo lavorato sul piano regia. Abbiamo discusso molto anche sul piano regia. Io ho cercato di spiegare al meglio alla troupe quale era la mia idea per le immagini. Poi abbiamo inoltre pensato di girare con tecniche diverse a seconda dello stato d’animo del protagonista. Fatmir, quando si trova nel suo call center vive un’atmosfera rilassata e i movimenti di macchina lo sono anche, mentre quando arriva il cugino, l’atmosfera si riscalda e la situazione diventa più tesa, come fanno chiaramente vedere anche i movimenti di macchina, la telecamera gira, come in un vortice. Nella stanza di Fatmir, c’è un momento di macchina a mano che significa che Fatmir vive un briciolo di disagio. Anche la scena nel ristorante, con la macchina che gira intorno ai personaggi, evidenzia il fastidio che prova il protagonista. Il girotondo viene costantemente interrotto dal montaggio. A me personalmente disturba vedere che la scena non finisce mai ed è questo quello che intendevo esprimere. La calma poi, quando i due si trovano nell’appartamento e la clamorosa richiesta del cugino che esplicita il vero motivo della sua visita. I movimenti sono limpidi, morbidi, lucidi. Poi ancora macchina a mano, quando litigano… non sto a descrivere tutto il film, ma intendo sottolineare come tutto, veramente tutto, sia stato calcolato prima. Con ogni movimento di macchina ho voluto dire qualcosa.

MP: Tu hai studiato a Milano, in Italia, trovi che le scuole italiane tendano a formare lo studente secondo delle caratteristiche particolari della cinematografia italiana?

EK: Ho frequentato questa scuola che è la ex scuola civica che adesso è diventata la scuola di cinema, di televisione e nuovi media. Sono molto contento si aver studiato in questa scuola. Inizialmente, durante i primi sei mesi, mi riusciva difficile starci dietro, non capivo nulla di cinema. In seguito, dopo parecchie lezioni, ho finalmente iniziato a capire perché mi trovavo lì. Ho trovato la scuola molto umana, i professori sono come genitori, ti stimolano. Non ci sono solamente studenti di venti, ventitre anni, ma anche gente più anziana che ha già un’esperienza e che cerca di specializzarsi. Tutti noi, in questo mestiere intendo, abbiamo spesso delle crisi d’identità, e pensiamo “non c’è la faccio, e non c’è la farò mai, voglio andare via”. Anche in questo i professori ci hanno dato una mano, ci hanno fatto crescere. A maggior ragione per il cinema che è un lavoro di gruppo, nel quale è fondamentale la determinazione. La troupe di Fatmir era composta da quaranta persone. è stata un’esperienza fantastica, anche durante le discussioni. è bello dire alla fine “abbiamo finito”, anche se è andata male. La scuola e gl’insegnanti mi hanno temprato parecchio per questo lavoro.

MP: Parliamo della sottile polemica che riguarda le scuole di cinema italiane. In Italia, le scuole tendono a rimanere molto tradizionaliste e poco disponibili ad avviare corsi che insegnino i giovani ad utilizzare le nuove tecnologie. In particolare mi riferisco al Centro Sperimentale che ha eliminato dalla programmazione di studio cinematografico la sezione dell’animazione.

EK: A Milano il problema c’è lo stesso problema. In Italia purtroppo mancano i soldi o forse ci sono e nessuno li spende per le scuole di cinema. La gente non si fida immediatamente di giovani ragazzi che vogliono fare cinema, oppure ancora c’è chi se ne lava le mani dicendo che il cinema è stato prodotto fino adesso in questo modo perché non andare avanti così. Quando infatti ti capita di entrare in contatto con le case di produzione per girare un film dopo la scuola, entri in contatto con tutta questa nuova tecnologia, e i nuovi formati ti rendi conto che poi nuovi non sono. Noi siamo stati abituati a lavorare con la classica moviola, con il classico Avid, apparecchiature che tutti noi consideravamo all’avanguardia. Poi invece scopri macchine di duecento miliardi che girano il film per te senza che tu faccia nulla. Nonostante ciò, ritengo che il problema sia uno, ovvero mancano persone disposte a riporre un po’ di fiducia nei giovani, ed è questo uno dei motivi che creano disoccupazione nel nostro settore. Il discorso cambia spostandosi in Francia. Io ho fatto anche teatro in Francia. Ma non solo la Francia, anche i tedeschi e gli stessi spagnoli sono meglio degli italiani da questo punto di vista. I Rumeni anche, nonostante le condizioni terribili della scuola di cinema. Io conosco questa realtà poiché ho frequentato la mia prima scuola di cinema in Albania. La scuola era organizzata benissimo, i professori molto competenti poiché derivano tutti dalla grande tradizione cinematografica Russa. Però anche da noi mancano i soldi. Tu finisci l’accademia e fai la fame.

MP: Ti sei ispirato a qualche regista in particolare girando il tuo corto?

EK: Le mie passioni sono molteplici; mi piace il cinema francese, il cinema di Anghelopulos, di Kusturica, tutta gente che fa parte della mia realtà culturale. Però ho tentato di non citare nessuno nel mio corto, mi piace vedere i loro film, vedere ciò che raccontano ma non fare la stessa cosa. Inoltre guardo molti film, e non ho un regista preferito o un film preferito. Non riesco ad affezionarmi così tanto ad un regista. Ciò mi capita anche con i libri. Da bimbo ricordo leggevo un libro che però non era l’unico. Appena ne usciva uno più bello e interessante accantonavo l’altro.

MP: Hai intenzione di girare un film in Albania?

EK: Se trovo i soldi sicuramente si. è difficile però. è difficile girarlo in Italia, figuriamoci in Albania.

MP: Prossimo progetto?

EK: Solo un progetto. Penso che sarà un cortometraggio. Si tratta di una storia che sta in piedi da sola anche se la si può anche considerare come un seguito a Fatmir. Stiamo ancora parlano, e discutendo molto sul da farsi. Io sono sempre in attesa di quella famosa telefonata che mi dica “abbiamo dieci milioni da spendere, ti piacerebbe girare qualcosa?

MP: Non trovi che manchino produttori in Italia?

EK: Mancano produttori indipendenti e coraggiosi come lo siamo noi. Noi registi non siamo mica deficienti, anche a me non piace rischiare, non mi piace giocare con la mia immagine. Se dico una cosa,. Intendo mantenere le mie promesse. Penso che dovrebbero essere così anche i produttori, i quali parlano molto ma raramente concludono qualcosa.

MP: Parliamo di Trieste; una città multiculturale, multireligiosa. Tu, per tua esperienza personale hai girato molto, in molti luoghi, che ne pensi di Trieste come a un set cinematografico?

EK: Ci ho pensato molto in questi giorni e penso che tutta la città di Trieste sia da considerare come un’unica grande location. Molto mi è stato spiegato sulla storia di Trieste, in questi giorni e oltre ad avere una realtà così variegata si nota l’influsso austriaco soprattutto per quanto riguarda questi bar favolosi che avete nel centro. Mi è capitato solo di entrare per dare un’occhiata e sono rimasto sbalordito. Anche la piazza è molto affascinante.

Fatmir, un albanese di circa 40 anni, sta chiudendo il suo call center quando assiste a un incidente stradale nel quale resta ferito un filippino. Chiama subito i vigili e un’ambulanza. Anche se è riuscito a prendere il numero di targa della macchina dell’investitore, non lo comunica al vigile. A fermarlo è stato l’atteggiamento di costui: lo ha fatto sentire uno straniero, nonostante Fatmir sia in Italia da quasi 20 anni. Il giorno dopo, Fatmir riceve la comunicazione dell’imminente arrivo di suo cugino Salia dall’Albania. È preoccupato: teme che Salia gli possa chiedere qualcosa di sgradevole. Infatti, Salia ha bisogno di una pistola. Con l’aiuto di Giovanna, la sua donna, Fatmir risolverà a suo modo la situazione…


(fonte: www.spin.it)

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