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Palcoscenico

Paola Bonesi

La follia del teatro

Giorgia Gelsi (GG): Siamo in compagnia di Paola Bonesi e Massimo Somaglino, due attori, interpreti in questi giorni dello spettacolo al Teatro “La Contrada” di Trieste, “Ballando con Cecilia”, tratto dall’omonimo romanzo di Pino Roveredo.
Un testo intenso e coinvolgente, sia per gli spettatori che per gli attori, come immagino. Come avete fatto per entrare nell’interpretazione di personaggi così difficili? Iniziamo da Paola…

Paola Bonesi (PB): Mah, gradualmente… Devo dire che pur trattandosi di personaggi legati al mondo degli ospedali psichiatrici, io — e posso parlare anche per i miei colleghi — non ho lavorato tanto sullo stereotipo del malato di mente, quanto sulle tipologie umane di persone che vivono per moltissimi anni recluse da molto tempo, fin da quando erano giovani… Persone che non hanno vissuto, il cui mondo è limitato alle quattro pareti nelle quali vivono, all’interno di una situazione che modifica il corpo, il loro modo di parlare e di guardare.

GG: Certo. In questo mondo sommerso, come diceva Paola Bonesi, punto irrompe a un certo punto l’operatore, interpretato da Massimo Somaglino: questa figura che è di Pino Roveredo, — quindi autobiografica nel testo -nello spettacolo è interpretata da te. Ti sei anche avvalso della consulenza di Pino Roveredo per entrare nel personaggio?Che tipo di percorso hai fatto?

Massimo Somaglino (MS): Mi sarebbe piaciuto molto, in realtà io non ne ho avuto il tempo, perché io sono un panchinaro, nel senso che sono un sostituto e quindi nell’allestimento di questo spettacolo che ha debuttato l’anno scorso nel festival di Todi, ho lavorato poco. E non ho fatto questo percorso che invece i miei colleghi hanno fatto, anche perché il mio personaggio rimane un po’ fuori… Li invidio molto, perché il percorso del marginale è uno dei miti per gliattori che lavorano nelle accademie e studiano come potrebbero essere altro da sé, quindi quello che non sono, e in questo senso è anche una grande occasione. Per me è stato tutto sorprendente, nel senso che non ho potuto fare se non la strada più breve per andare in scena. Che cosa vuol dire? Che tutto il processo d’identificazione dell’attore con un protagonista è stato percorso davvero in fretta e furia per arrivare poi al fine che è quello teatrale, e cioè un fatto scenico.

È stato un bel percorso, in qualche modo parallelo, in quanto di servizio: un conto è il servizio dell’operatore che da volontario interviene, si mette in relazione per prestare una sorta di assistenza ai pazienti, e d’altra parte il servizio che ho fatto io cercando di rispettare quelle che erano le consegne che mi venivano date e che erano condizioni necessarie per poter garantire ai miei colleghi di svolgere bene il loro lavoro, che è per certi versi più importante del mio dal punto di vista dell’attore. Lo smarrimento che ho provato e che continuo a provare stando in scena è funzionale al mio personaggio, quindi alla fine è il segreto degli attori: ognuno trova i propri percorsi e non li racconta di solito.

GG: Ecco, uscendo ho sentito alcuni spettatori che commentavano lo spettacolo, e alcuni erano rimasti come”scioccati” dalla visione dello spettacolo, forse perché ha toccato anche una realtà molto vicina a loro. Qui a Trieste molte persone hanno avuto vicino a loro, nella loro famiglia o nella loro cerchia di amici, delle persone che sono state internate. Voi avete mai avuto un incontro ravvicinato con questa realtà prima di questo spettacolo, e comunque che cosa vi ha dato umanamente questo spettacolo?

PB: Per quello che mi riguarda io non avevo mai avuto degli incontri ravvicinati. Io poi non sono di Trieste — lo sono diventata, triestina d’adozione! — ma vengo da Varese e quindi non ero vicina a questo tipo di realtà. E prima dello spettacolo non ho avuto contatti; dopo sì. Un giorno sono andata al padiglione I, il famoso padiglione I che rappresentiamo, sono stata piacevolmente sorpresa che non è come questa stanza (quella ricostruita nel palco da allestimento scenografico, n.d.r.), che è una trasposizione poetica, ma è un padiglione allegro, almeno nella struttura, i pazienti poi sono ben vestiti, contrariamente a noi, quello che mi ha colpito,nonostante la diversità, è che io sono entrata, un po’ come l’operatore, e mi sono trovata lì, e al primo momento ho provato una sorta di imbarazzo, mi sono sentita un’estranea, e in quel momento ho pensato quanto sia condizionante l’abitudine.

In realtà poi ho pensato che fosse una casa di riposo qualsiasi. Però al primo momento ho avuto questa sensazione di estraneità, di paura, perché sei condizionato da letture, cinematografia, per renderti conto cinque minuti dopo, quando sono state date le cioccolate — esattamente come facciamo noi — e persone mi guardavano, mi salutavano, e mi sono sentita tra dei nonni, diciamo così.

GG: Massimo?

MS: Sì, è importante segnalare questa differenza, affinché non ci sia confusione: questo è uno spettacolo teatrale, noi facciamo del teatro, e questa è una cosa che mi sono detto molte volte, pensando a come si può sentire un volontario che ha davvero davanti queste persone. Io cioè so che mi trovo davanti a Paola, Ariella, a tutti i miei colleghi. Mi è molto più facile relazionarmi con persone: che io sono una persona e mi relaziono con una persona, a prescindere dall’etichetta che viene data. Per cui non sono molto contento quando viene detto di questo spettacolo: la “rappresentazione dei matti, della follia”. Mi sembra impossibile esaurire il problema della malattia mentale in uno spettacolo di un’ora e mezza, è folle solo pretendere di pensarlo! Invece tra gli incontri all’interno di questo spazio ci sono momenti in cui ci si ritrova… Quando tu dicevi che ci sono degli spettatori che escono “scioccati”, io francamente non credo sia perché vedono dei matti, ma perché vedono rapporti che ognuno di noi può avere con un’altra persona. Fra le cose che dice Cecilia c’è ad esempio una cosa che ogni volta che ci penso mi fa impazzire; quando parla del suo fidanzato che non le ha scritto, dice: “Bastavano quattro righe e forse non mi sarei ammalata”.

Quante volte è capitato a ognuno di noi di rapportarsi con una persona — non un malato! — decidere di non fare o fare qualcosa, e questa decisione ha cambiato in un senso o nell’altro — non lo so e forse non lo sapremo mai — la vita di quest’altra persona. Quindi sono momenti di vita quotidiana per vivere i quali non è necessario essere matti.

PB: Ci sono situazioni limite. Se questo spettacolo dà qualche impatto emotivo, credo che lo dia proprio perché da spettatore rivedrei rese in situazioni limite situazioni quotidiane di disagio.

GG: Parlando in un certo senso d’altro… Prima ricordavi che non sei di Trieste, ma sei di Varese, tu se non sbaglio sei di Udine. Quindi, due attori che convergono qua a Trieste. Da un punto di vista culturale, in senso lato, che cosa trovate di particolare, se c’è qualcosa di particolare, aTrieste?

MS: Io sono però molto sprovveduto da questo punto di vista, non ho frequentato molto i palcoscenici triestini… Mi rendo conto che c’è la presenza di due strutture molto grosse: a Udine, strutture di questo tipo non ce n’è! Intendo strutture di produzione, e quindi di grande fermento, di presenza… La quantità di pubblico che c’è ogni sera… non credo proprio che “La Contrada” viva la crisi di spettatori! Io ogni volta che apro la porta dico “Boia, c’è gente fin laggiù!”, e questo tutte le sere! E poi mi sembra che l’identità di Trieste sia molto forte… Succede tutto in questo spazio, mi sembra ad esempio che “La Contrada” lavori a contatto con questa città e con la cultura che questa città produce. Io, in quanto friulano, superando questo campanilismo stupido e annoso tra friulani etriestini, sono molto contento di essere qui.

PB: Io adesso esattamente non lo so più. Non saprei più rispondere perché comunque sono qui da dodici anni, quindi gli anni più importanti della mia esistenza di una persona mediamente pensante. Io mi sento integrata nella città, quindi quando sono arrivata qui ero guidata da miti letterari, da Trieste città del caffè, città dei caffè letterari appunto, quindi di grandi scrittori, poeti, pittori… Pian piano sono entrata in questo mondo quasi come a dimenticarmene. Miti esterni sono diventati pelle, e io ora non saprei più giudicare, non saprei più dire che impatto emotivo, culturale mi dà la città, perché vivo da dentro… è come quando sono in scena: posso dire che mi diverto, posso dire chemi piace, che è un onore farlo, ma non posso dire com’è uno spettacolo che faccio.

GG: Una domanda per Massimo, ne parlavamo anche prima… Tu hai lavorato in spettacoli, come anche “I Turcs tal Fiul”, che ha segnato davvero un evento nell’ambito regionale. Quali sono secondo te — una domanda un po’ “pesante” — i nuovi “orizzonti del teatro”?

MS: Be’, quanto tempo abbiamo, tra quanto andiamo in scena? La morte del teatro è stata preannunciata già un po’ di tempo fa e costantemente si sente che si ha a che fare con un malato grave. Tuttavia, gli orizzonti del teatro si avranno quando il teatro si ricorderà da dove viene, cioè si ricorderà quali sono le sue specificità, quanto più aderirà a quel meccanismo di condivisione, di ritualità, di memoria, che è parte fondamentale del rapporto che tutte le sere si innesta tra spettatore e attore.
Perché sia chiaro che da un punto di vista di divertimento puro, mai potrà competere con gli stadi dove si gioca una partita al giorno, con i megaschermi del cinema, eccetera, questo è ovvio! La sua vita è nella verità che porta in sé: lo spettacolo dura un’ora e mezza, quell’ora e mezza ha lo stesso valore che ha la vita, perché avviene in quell’ora e in quel momento e tiene presenti tutte le energie che sono convenute in quel luogo. Non vorrei esser sacrilego, ma non lo dico io per la prima volta: è come una Messa, un rito.

GG: Invece Paola, facendo delle ricerche ho visto che tu hai avuto anche delle esperienze di didattica teatrale. Ecco, una domanda “curiosa”: negli allievi che si avvicinano al teatro, che vogliono far l’attore, secondo te è più importante il talento o la disciplina?

PB: Bella domanda. Potrei girarla anche a Massimo, perché anche Massimo è insegnante: siamo colleghi tra l’altro. è una domanda complicata, ti rispondo come insegnante. Come insegnante tu hai degli allievi che sono stati scelti: la scelta si fa cercando di comprendere, perché poi la scelta comporta molti anni. Potresti in teoria rischiare di far perdere del tempo della vita a delle persone, ma poi è difficile veramente valutare all’inizio se una persona ha o meno del talento: sì, ci sono dei piccoli parametri, ma è difficile decidere che una persona non ha per niente talento. La disciplina credo sia fondamentale: io più che di talento parlerei di attenzione, di creatività, di passione. Questo credo sia necessario: e poi la disciplina, assolutamente tanta perché è un lavoro duro, anche se non sembra. Stiamo lì sul palco, parliamo… Ogni tanto anche amici, magari recenti, quando vengono in teatro alla fine mi chiedono “ma sei stanca?”. Magari soprattutto se sono seduti in prima fila mi dicono: “Ma che voce che hai, non è mica la voce che usi normalmente!”.

Soltanto per emettere quei volumi e renderli verosimili, uno impiega uno sforzo energetico altissimo, e questo sforzo energetico a monte deve essere educato e deve corrispondere sia a un grande allenamento sia a una capacità dell’uso della strumentazione che ci permette l’apparato fonatorio. Per non parlare poi del centro dell’attore che è il corpo, il movimento.

GG: Ecco, ultima domanda per entrambi: mi hai dato tra l’altro il suggerimento ricordando quelli che sono gli sforzi e la preparazione di un attore. Perché è vero che gli spettatori vedono un attore sul palco e pensano che bello, tutto luce e applausi… E invece qual è, dal punto di vista vostro personale, il punto debole di questo mestiere?

MS: Oh santo cielo! Se devo sceglierne uno — e tanti ce n’è! — credo sia nel rischio che questo mestiere comporta. Noi ci costruiamo come persone, e intendo ci costruiamo come persone in quello che vogliamo, che ci piace, eccetera. L’attore lavora a sgretolare progressivamente, mano a mano che queste cose si formano, continuamente. Quindi diciamo che rischia la vita, senza tanto esagerare, quasi tutte le sere!

GG: Paola, in una battuta?

PB: Sono d’accordo con Massimo, di rischi ce ne sono tanti, tra i quali questo: ma non appena ho preparato tutte le mie belle difese, allora proprio dalle scuole cominciano a dire: “No, togliere, togliere, togliere!”. Forse tra le cose che mancano, alle volte manca una vita privata normale, e per normale intendo che, quando tu hai finito di lavorare, le persone che vorrestifrequentare dormono!

Da oltre dieci anni Pino Roveredo è impegnato nell’attività sociale. Il lavoro con i ragazzi tossicodipendenti, o accanto agli alcolisti, o presso ospedali psichiatrici, ha nutrito i suoi libri (Capriole in salita è il più noto) e i suoi lavori teatrali, e gli ha dato strumenti per leggere con partecipazione e senza compatimento i temi di un umanità svantaggiata. Ballando con Cecilia fotografa la sua esperienza nei padiglioni dell’ex manicomio triestino (quello a cui ha legato il proprio nome Franco Basaglia). Ma è soprattutto l’incontro con una straordinaria personalità di donna, per la quale – dice Roveredo – “mi venne voglia di fare lo scrittore ballerino, e con la libertà di una calligrafia, mi abbracciai a lei, e la feci ballare su una fantasia”. Cecilia è interpretata da Ariella Reggio.


Nel padiglione “I”, una vecchia casetta situata nel comprensorio dell’ex manicomio di Trieste, da oltre sessant’anni gira la storia senza storia di un gruppo di anziani, una storia che è stata pagata prima con la condanna pesante dell’internamento psichiatrico, e poi, con il riposo silenzioso della residenza.


Un gruppo di anziani che ha completamente ignorato la storia dei sani oltre la costrizione dei portoni e delle mura, qualcuno con l’assenza naturale dell’alienazione, qualcun altro invece, come Cecilia, con la protesta di chi è consapevole di subire un’ingiustizia, e per questo, alza un muro dentro la memoria, riservandosi solo un piccolo spazio dove far girare i ricordi dei suoi trentasei anni di libertà, mantenendolo lucido e pulito come un presente.


“Il mio ingresso al padiglione “i” risale a tre anni fa, grazie alla precaria qualifica di operatore, e grazie ad una mansione non ben definita: Vedi tu. Stai con loro e leggi qualche libro, t’inventi qualche fiaba, insomma, qualcosa che assomigli a un lavoro di gruppo. Disegni, parole, figure. Di quel primo giorno, oltre al nauseante odore di verza cotta che impregnava l’aria, ricordo l’incredibile sensazione di ‘polvere’ che girava intorno. Polvere sugli oggetti, sulle persone, i movimenti, e polvere su un tempo che pareva completamente immobile.”


Pino Roveredo


Ballando con Cecilia di Pino Roveredo


Regia:
Francesco Macedonio
Scene:
Tania Bucur
Costumi:
Fabio Bergamo
Musiche:
Carlo Moser


con Ariella Reggio

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