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Musica

Il piccolo uomo dalla lunga vita: Irving Berling e le sue mille canzoni (II)

“Izzy” alle stelle, ma muore Gershwin. E c’è anche “On the Avenue”

Berlin durante il loro lavoro in comune, ha sempre ammirato il perfezionismo dì Fred Astaire. E sotto questo aspetto hanno dimostrato un carattere affine. Entrambi di origini modeste (in particolare Irving, poverissimo) hanno lottato per affermarsi e ci sono riusciti, secondo la classica “American Way” verso il successo . Berlin ha anche avuto la soddisfazione di poter scrivere le sue musiche per due coppie storiche del Musical: a suo tempo Vernon e Irene Castle per il teatro, e poi Astaire e Rogers per Hollywood.

Il carattere del “piccolo” Berlin, anche nel pieno della maturità, si è dimostrato sempre quello d’un introverso di poche parole, che diceva: “Le belle frasi cerco di tenerle per le mie canzoni”.

Quando però gli eventi lo esigono, sa anche essere molto socievole. All’inizio del 1936 tutta Hollywood festeggia i suoi venticinque anni di splendida carriera: attori, registi, produttori, il fedele amico e compositore Jerome Kern, il produttore Joseph Schenck, una vera folla. Vogliono che Berlin parli e canti, e lui non si risparmierà: sulla mitica tastiera scorrono i suoi “classici”, cantati con la sua vocetta sottile, per finire con un breve discorso di ringraziamento. Quella sera, lui è semplicemente “Izzy” per tutti . Non c’è Gershwin, l’altro grande amico, che ha appena avuto il trionfo del suo “Porgy and Bess” all’Alvin Theatre e che è al lavoro per le “Follies” sollecitate dalla Metro.

Da qualche mese, però, Gershwin non sta bene. Ha dolori di testa, vertigini, e si sente stanco: quanto basta ai medici per parlare di disturbi nervosi da troppo lavoro. Un giorno, nella primavera del ‘37, George sta un po’ meglio ed è a cena cori i coniugi Berlin: è con lui Kay Swift, bella e dolce compagna da tempo.

Gershwin, improvvisamente, ha una violenta crisi di cefalea e sviene. Ricovero immediato, sospetto di tumore cerebrale e rapido intervento, che conferma il sospetto, senza possibile asportazione. Muore il giorno dopo, l’11 luglio 1937.

Morte e Vita: poche settimane dopo nasce la terza figlia di Berlin, Elizabeth. Le altre due, Mary — Ellen e Louise, hanno rispettivamente dieci e quattro anni. Nel futuro di Berlin incombe una casa con quattro donne…

Intanto, nel ‘36, il produttore Darryl F. Zanuck ha ottenuto un contratto fra la sua Casa, 2Oth Century Fox, e Irving Berlin. Mediatore e garante è il solito Joe Schenck, socio di Zanuck e amico fidato del musicista. La Fox sta producendo molti film musicali in concorrenza con le altre “Majors”, e Berlin conosce già Zanuck. La Casa ha pure un buon staff dii attori, in buona parte giovani e cari al pubblico: Tyrone Power, Alice Faye, Don Ameche, tanto per fare qualche nome.

Il primo non canta, lo sappiamo, ma gli altri due sì, e anche molto bene. Sono gli interpreti di “On the Avenue”, un Musical del 1937 diretto per la Fox da Roy Del Ruth, uno specialista la cui formula è semplice:, divertimento, ma senza grandiosità, bravi interpreti, qualche numero comico, ma soprattutto belle canzoni.

Quattro anni prima, il trionfo di “As Thousands Cheer a Broadway era legato in buona parte alle sue caratteristiche di “Rivista in forma di periodico illustrato”, con i motivi di Irving Berlin a colorare ogni singolo episodio o “sketch” dello spettacolo. Nel 1937 questo nuovo film, sempre con le “Music and Lyrics by I. Berlin” ci racconta cosa potrebbe accadere se qualcuno dei brani in scena prendesse una sua via autonoma. Ed ecco “la ragazza più ricca del mondo” , la bella attrice Madeleine Carroll, che si innamora di Dick Powell, autore e regista d’uno spettacolo pieno di spunti satirici e irriverenti verso il padre miliardario di lei, complici gli infernali e sconnessi “Ritz Brothers”. Ma l’amore, si sa, vince tutto, compreso il principale ostacolo che è una dolcissima Alice Faye. E ci canta “This Year’s Kissess”, i baci di quest’anno che le stanno sfuggendo…. Nella trama si infila anche uno spunto di vivace colore d’altri tempi, una scena dal titolo “The Girl on the Police Gazette” , dove un Dick Powell smarrito cerca la ragazza che ha visto in fotografia dal parrucchiere, su un giornale.

Secondo il mio parere assolutamente personale, “On the Avenue” è la migliore raccolta di canzoni di Berlin concentrate in un solo film dove c’è del semplice e talvolta ingenuo divertimento, ma di vera classe.

God Bless America

Alla Fox il produttore Zanuck ha un progetto che gli sta molto a cuore: una versione per il cinema di” Alexander’s Ragtime Band” , lo spettacolo che nel 1910 aveva rivelato un Berlin poco conosciuto. In “Applause”, un film di Mamoulian del ‘29, il motivo era già stato accennato, ma l’edizione “ufficiale” arriva nel 1938, diretta da Henry King con Tyrone Power, Don Ameche, Alice Faye e altri fedelissimi della stessa Fox.

Tyrone è un clarinettista e “Bandleader”, Ameche il suo pianista, e la Faye è la bella cantante amata da entrambi. La storia si prolunga dal 1911 al 37, con qualche spunto lontanamente biografico di Berlin, la cui musica percorre fedelmente il filo del racconto. Oltre a quello del titolo, qualche motivo di vario genere, fra storia patria, sospiri d’amore, guerra..

Nel film i militari cantano: “We’re on Our Way to France”, e anche “For You and My Country”, mentre l’innamorato si domanda: “What’ll I do?” (cosa farò?). Cari, semplici motivi di Berlin . Ma ecco che irrompe in piena colonna sonora il motivo — inno: “Vieni ad ascoltare la banda di Alexander!” . E pensare che questa canzone, al momento dell’uscita del film, sta compiendo i suoi trent’anni… Un particolare: non esisteva, in realtà, un capo orchestra di nome Alexander. Berlin aveva adottato questo nome che riteneva degno di riguardo soltanto per sottolineare la “normalità” dei suoi personaggi: un piccolo tributo di affetto.

L’anno seguente Berlin è incaricato di comporre le canzoni per un altro film: “Second Fiddle” (Il secondo violino). Facendo seguito al grande successo del precedente, risulta una produzione di poco interesse, dove neppure le musiche riescono a trovare la nota giusta, malgrado la partecipazione di due cantanti come Rudy Vallee e la promettente Mary Healy. Tyrone Power, protagonista nel ruolo d’un pubblicitario di bell’aspetto, non ha molto da dirci, come pure una ballerina sui pattini (sic!) di nome Sonja Henie. Un film opaco e di scarso interesse, col quale si conclude il contratto Berlin — Fox. Non poteva esserci un’altra Alexander’s Ragtime Band”.

Nel 1938 l’America è entrata nel conflitto mondiale. I soldati partono per l’Europa e gli americani chiedono che venga presto rifornito il loro patrimonio di canzoni patriottiche. Naturalmente questo sollecito va anche all’ex — sergente Berlin, cinquantenne prolifico di canzoni d’ogni genere. Si ricorda d’una sua canzone che, come tante altre, giace in un cassetto fin dai tempi del suo servizio militare: è una specie di invocazione che non ha nulla di marziale, ma che gli pare adatta al momento storico.

Dice Berlin: “In un paese dove anche i presidenti devono prestare giuramento sulla Bibbia, mi sembra normale che si possa chiedere a Dio di benedire l’America” e aggiungerà: “di tutte le canzoni che ho scritto è quella che oggi mi sta più a cuore”. Ecco i versi originali:

“God bless America, land that I love,
from the mountains to the prairies,
to the oceans white whith foam,
God bless America, my home, sweet home…”
E’ veramente una poetica preghiera al Signore, con montagne, praterie, oceani spumeggianti di bianco…

E adesso bisogna farla conoscere, ma non è difficile: in una trasmissione radiofonica la canterà Kate Smith, una simpatica e corpulenta soprano, già molto nota agli ascoltatori di tutto il Paese.

Da quel lontano 1939, “God bless America”, che non è l’inno ufficiale degli Stati Uniti, è sicuramente la canzone patriottica più amata.

La sentiremo nella colonna sonora di altri film, e non è il caso di fare un elenco. Uno però va segnalato: “Il cacciatore”, diretto da Michael Cimino nel 1978. Un gruppo di amici, quasi tutti figli di immigrati, ha pagato un pesante tributo alla guerra del Vietnam: dopo il funerale a uno dei caduti, parenti e amici si sono riuniti, e Meryl Streep, sottovoce, comincia a cantare “God Bless America”. Tutti i presenti, De Niro compreso, si uniscono nella canzone, sommessi.

È una scena semplice e commovente, Berlin l’avrebbe apprezzata…

Bianco Natale alla “Taverna delle vacanze”.

Non si può dire che Berlin abbia mai avuto molta simpatia per Hollywood, malgrado il bel clima della California e il notevole “business” del cinema. Ha fatto già molte cose laggiù, ma il richiamo di New York e dei teatri della sua Broadway non è mai venuto meno.

Gli giunge una proposta di collaborazione da Buddy de Silva, un “lyricist” molto conosciuto che ha scritto dei testi per musicisti come Gershwin, Porter e Kern. La commedia in questione è “Louisiana Purchase” (l’acquisto della Luisiana), un soggetto satirico d’attualità, con buone prospettive di successo.

Come protagonista sul palcoscenico è stata scelta Carol Bruce, una bella ragazza con un fisico da ballerina, all’inizio della carriera. Pare che fra lei e Berlin si stabilisca un rapporto sentimentale, ma senza molte conseguenze, e la bella Carol riferisce il loro primo incontro in questo modo: “Lui ha una voce acuta e suona uno strano pianoforte, ma è un uomo abile che sa sempre ottenere quanto vuole…”

Nel maggio 1940 c’è la “prima” all’Imperial Theatre: molto pubblico e festeggiamenti per il ritorno di Berlin a Broadway. Fra gli attori, un esperto del mestiere come Victor Moore, e Vera Zorina, famosa danzatrice mitteleuropea. Anche la debuttante Bruce se la cava bene, e accetta con disinvoltura gli omaggi floreali di Berlin.

La momentanea infatuazione per l’attricetta non ha conseguenze sulla vita famigliare di Irving. Morto il suocero, c’è molta tranquillità in casa, e le tre figlie crescono nel benessere, intelligenti e affettuose. La moglie Ellin ha qualche velleità politica e simpatizza per i Democratici e il presidente Roosevelt, mettendosi temporaneamente in concorrenza con un’altra importante signora, la moglie di Lindbergh.

Ma Hollywood insiste per un ritorno di Berlin al cinema, e siccome non vi sono altre proposte valide per il teatro, lui accetta una proposta della Paramount per “Holiday Inn”, che sarà poi sugli schermi nel 1942 (In Italia, “La taverna dell’allegria”)

Fred Astaire, numero uno della danza, e Bing Crosby, analogo per il canto nello stesso film, sono ottimi elementi di richiamo.

Per di più, Berlin ritrova con molto piacere il suo collaboratore e soggettista Moss Hart, mettendosi subito al lavoro. Anche il regista è una vecchia conoscenza, Mark Sandrich, e le numerose canzoni inserite nel racconto ruoteranno intorno al grande “hit” di “White Christmas”, introdotta per la prima volta da Bing Crosby.

Molto semplice il soggetto: una coppia intraprendente dl “Song and Dance Men” apre una lussuosa locanda in campagna: ma il locale ha una singolare prerogativa: è aperto solamente nella ricorrenza di festività importanti. Modesta la trama, ricchissime le musiche e le danze: Crosby presenta nove canzoni, e Astaire fa sei numeri di danza: la sua brava partner è Marjorie Reynolds, con un passato di “star — bambina”.

Se pensiamo per un momento all’enorme lavoro svolto da Irving Berlin nella sua vita, mi sembra necessario parlare di questa sua canzone natalizia, che ormai è fuori dal tempo, un piccolo gioiello di cui è proprietario il mondo. Diciamo subito che non è un canto religioso: nessuna “notte santa”, nessun neonato nella stalla, non angeli o pastori, stella cometa o Magi.

È la storia molto semplice di un sogno, o meglio di un desiderio. L’autore, da Hollywood sotto il sole californiano, ci racconta, in pochi versi di prologo, che è il 24 dicembre e che lui vorrebbe tanto essere al Nord. E viene fuori il “refrain” più conosciuto da tutti nel mondo:

“I’m dreaming of a white Christmas..” Io sto sognando di un bianco Natale, proprio uno di quelli ai quali ero abituato: un Natale di neve con Santa Claus barbuto nella sua bella palandrana rossa, che arriva scampanellando sulla sua slitta con le renne e i suoi doni.

È un dolce sogno infantile che si ripete puntualmente una volta all’anno, nella sua affascinante banalità senza tempo e senza confini, senza una vera sede: è solo un sogno. Berlin ha regalato a tutti questa magia di Natale (dono di un ebreo, si noti) piena di tenerezza.

Glie ne saremo sempre grati.

La guerra e lo spettacolo.

Nel 1914 la guerra si estende in Giappone, e nello stesso anno Berlin, con la solita fertilità creativa, pubblica una mezza dozzina di canzoni collegate al tema bellico, che avranno una durata piuttosto breve, entro le circostanze del momento. “Le canzoni fanno la storia, e la storia fa le canzoni”, questo il suo punto di vista al compimento dei suoi 53 anni di vita. Vorrebbe comunque creare per Broadway un nuovo spettacolo sul tema militare, il secondo dopo quello lontano del 1918. Il generale Marshall, messo al corrente del progetto, lo esorta

a realizzarlo quanto prima, dato il momento storico in cui il soldato americano ha bisogno anche di un sostegno di questo genere.

Il titolo sarà “This is the Army” (Questo è l’esercito): una grande rivista musicale, messa in scena senza risparmio. Berlin promette di consegnare la sceneggiatura completa entro un mese, e ottiene come spazio per le prove quel Camp Union nel quale aveva già allestito la commedia militare di vent’anni prima.

Per l’organizzazione, compito delicato e impegnativo, ha la fortuna di trovare l’uomo adatto in Alan Anderson, figlio del famoso drammaturgo Maxwell Anderson. C’è anche una novità: lo spettacolo sarà del tutto multi — etnico: l’esercito USA degli anni ’40 non ha più le barriere del passato nel campo razziale, specialmente in una rappresentazione fatta per divertire tutti i soldati, d’ogni origine e colore.

Anche il direttore di scena risulta una scelta felice: un giovane laureato di Princeton, grande ammiratore di Berlin, che si chiama Joshua Logan. Ha già una discreta esperienza di teatro, e nel futuro sarà un notissimo regista del cinema, in film come Bus Stop, Sayonara, e la rivista musicale South Pacific.

Il 4 luglio 1942 c’è la prima rappresentazione al Broadway Theatre di New York. In platea, al posto del solito pubblico elegante, vi sono centinaia di soldati, e non a caso è stata scelta la data storica dell’Independence Day: successo completo ed entusiastico. Il cospicuo incasso delle tante repliche andrà, per desiderio di Berlin, a beneficio dell’American Emergency Relief, il fondo di solidarietà per i militari e le loro famiglie.

L’anno seguente, com’era facile prevedere, è già pronta la versione cinematografica con lo stesso titolo, prodotta dalla Warner Brothers e diretta da Michael Curtiz. Fra gli attori, un Ronald Reagan militare autentico, la cantante Kathe Smith e lo stesso Berlin “as himself” , in persona, con tanti altri. Uno spettacolo piuttosto di circostanza, ma molto variato e con una eccellente cornice musicale. C’è anche George Murphy, ottimo attore e ballerino nei tempi già lontani delle “Broadway Melodies” degli anni 30: sarebbe poi passato alla politica come senatore.

Intanto, la rivista teatrale fa una lunga tournée negli States, per concludersi nel febbraio ‘43 con un incasso di due milioni di dollari, tutti destinati al Fondo dell’Esercito e alle famiglie dei militari.

Ma non basta: nell’ottobre l’intera compagnia si imbarca per Liverpool, malgrado l’insidia sottomarina tedesca e ha inizio, dal “Palladium” di Londra, un trionfale “Tour” britannico.

Immagine articolo Fucine MuteDivertente la svista di Churchill, che si rivolge a Berlin, appena conosciuto, chiamandolo “professore” e confondendolo con un docente universitario inglese che insegna in America. E Berlin non ha il coraggio di smentirlo.

Molti spostamenti per le rappresentazioni di “This is the Army” vengono decisi dalle alte gerarchie dell’esercito. A Londra, nel giugno del ’44 c’è uno spettatore eccezionale, il generale Eisenhower, che propone subito un giro di repliche per le truppe in Nord Africa e poi delle rappresentazioni a Napoli e a Roma liberate. Successo enorme dappertutto, con omaggio a Roma per il Papa da parte dell’autore del “Bianco Natale” laico…

Ancora viaggi: un breve rientro in America e poi nelle isole del Pacifico, sempre al seguito dei soldati. Il 6 agosto 1945 è il tragico giorno di Hiroshima con la resa del Giappone, e in ottobre la troupe ritorna in patria, con breve sosta alle Hawaii. Berlin si congeda per ora da pubblico e amici, dichiarando la sua ferma speranza di non dover più scrivere altre canzoni di guerra. Ma prima riceve anche una solenne decorazione dal presidente Truman “For highly meritorious services”.

Ha compiuto cinquantasette anni.

Annie depone il fucile.

Al termine della guerra, i palcoscenici di Broadway riprendono a cantare con rinnovato vigore. Primi fra gli altri sono i compositori Rodgers e Hammerstein con i loro due “Musical”, Oklahoma e Carousel, del 1943 e 1945, che dopo i successi in teatro avrebbero preso la via del cinema, secondo l’usanza.

Un altro veterano di Broadway è Jerome Kern, già autore fin dal 1936 dello splendido “Show Boat”, che si accinge a mettere in scena un nuovo lavoro “Annie get your Gun” (Anna prendi il tuo fucile), trasferendosi da Los Angeles a New York. L’indomani del suo arrivo, uscendo dall’albergo, ha una gravissima crisi circolatoria cerebrale, viene ricoverato e muore in ospedale dopo pochi giorni di coma. è l’11 Novembre 1945.

Scatta rapidamente l’inevitabile regola dello “Show Must Go On”: Berlin ha girato il mondo negli ultimi anni, è passato attraverso la guerra, ha avuto elogi e onorificenze. Adesso è l’ora di tornare al mondo di sempre, che nel suo caso non può essere altro che Broadway.

Gli propongono di subentrare immediatamente al povero Kern, fra l’altro uno dei suoi amici più cari, e anche lo stesso Rodgers, altro collega e amico, insiste a sua volta. Berlin è ancora libero, deve mettersi al lavoro.

Come al solito, quando crea nuove musiche, lo fa con una rapidità incredibile: in poco più d’una settimana ha già pronti sei motivi. Collabora con lui il suo arrangiatore Helmy Kresa, abilissimo nel fare l’adattamento di quanto il compositore gli sottopone con un ritmo vertiginoso.

“Annie Get your Gun” è una commedia Western, scritta dai fratelli Herbert e Dorothy Fields. I protagonisti sono un “lui” e una “lei”, abili tiratori entrambi, ma impegnati ciascuno in un proprio show con il fucile, e per di più in completa concorrenza. La protagonista è l’attrice e cantante Ethel Merman, una “First Lady” nel Musical di quegli anni, con una bella voce che si adatta perfettamente alle canzoni di Berlin. Ray Middleton è il tiratore rivale, e la messa in scena è molto colorata e vivace. Il resto lo fanno ben nove motivi di Irving, come “l’ve got the Sun in the Morning”, “The Girl that I Marry”, e tutti gli altri.

Quanto al soggetto, va da sè che la rivalità fra i due protagonisti evolve rapidamente in amore, con lieto fine e torrenti di musiche

Il 16 maggio del ’46 c’è il debutto all’Imperial, un teatro di Broadway appena restaurato: il solito trionfo. Vi saranno centinaia di repliche in tutta l’America e anche all’estero: notevoli quelle al Colyseum di Londra, con rotazione degli attori ma costanti applausi.

Verso la fine dello stesso anno c’è ancora una di quelle alternanze fra teatro e cinema alle quali Berlin ha fatto ormai l’abitudine.

Il film è “Blue Skies” (cieli azzurri) e prevede il ritorno della coppia Fred Astaire — Bing Crosby che in “Holiday Inn”, quattro anni prima, aveva riscosso un ottimo successo. Superata qualche difficoltà da parte di Astaire che vorrebbe concludere quanto prima la sua lunga carriera (e che per fortuna cambierà idea), sostituito inoltre il regista della Paramount Mark Sandrich, deceduto in quei giorni improvvisamente (è una vera fatalità), il film può procedere con una lavorazione tranquilla.

È più che altro una rassegna musicale con una quantità di motivi nuovi o già affermati, tutti di Berlin, dalla canzone del titolo, fino a “Puttin’ on The Ritz”, un numero classico di Astaire che balia con un gruppo di altri “Astaires” in prospettiva sullo sfondo: trovata scenica sempre efficace. E Bing Crosby ci fa anche sentire, per buona misura, un fugace “White Christmas”…

Continua intanto il successo di “Annie Get your Gun” le cui repliche si susseguono alle ribalte d’America e anche in Europa, specialmente in Inghilterra. è ovvio che il cinema ha già rivolto la propria attenzione alle divertenti vicende dei due innamorati col fucile, ed è la potente Metro Goldwin Mayer del produttore Arthur Freed a coltivare il progetto.

Parata sulla Quinta Strada.

La “Metro” però ha già in programma un altro film musicale, ispirato al motivo di Berlin “Easter Parade” (Parata di Pasqua), che faceva parte, nel 1933, della fortunata rivista “As thousands Cheer”.

I protagonisti saranno Judy Garland e Gene Kelly: tutto procede bene fino al momento in cui Kelly, durante una prova, si rompe un piede e deve ritirarsi dal set. L’onnipotente Arthur Freed sa che l’unico attore in grado di sostituirlo è Fred Astaire, e lo stesso Kelly insiste per convincere il collega e amico. Del resto, un abbinamento Garland — Astaire è già una garanzia di successo: lo sa bene il produttore.

Berlin contribuisce alle musiche con l’apporto di ben diciassette motivi, dieci già noti e sette nuovi. Astaire, dopo “Blue Skies”, è ancora alla ricerca d’una tregua nel suo lavoro, ma la sua amicizia per Kelly e la prospettiva d’un film con la Garland superano tutto.

Il soggetto è tipico del Musical: iniziale incomprensione in una coppia di danzatori appena costituita, con gelosie e contrasti fino alla felice conclusione d’amore. Il tutto fra canzoni, numeri di danza, e soprattutto una splendida messa in scena. I balli hanno in più un contributo professionale da parte della brava Ann Miller, e rimane nel ricordo il numero comico — musicale fra Astaire e Garland nei panni di due incredibili straccioni: “A couple of Swells”.

Le note musicali che danno il titolo al film con questa “Parata di Pasqua” hanno un fondamento storico: a New York, a partire dal 1912, la festività pasquale era celebrata con un lungo corteo nella Quinta Strada, tutto o quasi di coppie molto eleganti, e gli uomini portavano un vistoso nastro colorato sul loro cappello a cilindro. Questo motivo “Easter Parade” è indimenticabile, Judy è dolcissima, ancora una volta vincente su tutti i suoi guai privati, e Astaire si sta avvicinando ai suoi anni maturi con la disinvoltura di vent’anni prima.

Un’osservazione: Berlin, con la musica, ha celebrato la Patria in “God Bless America” ha reso più intimo il Natale con “White Christmas”. Ora, con “Easter Parade” ci consegna una Pasqua piena di solenne allegria lungo la Quinta Strada. Feste e ricorrenze d’America sottolineate con amore da un profugo russo…

Il notevole successo commerciale del film giustifica il nuovo legame che viene a stabilirsi fra il musicista e la MGM. Quanto al pubblico, è evidente che il nome del “songwriter” più famoso al mondo continua a mantenere la sua attrattiva anche nell’era post — bellica.

Il giorno 11 maggio 1948 Berlin compie sessant’anni. Con l’età si è fatto più restio ai festeggiamenti: preferisce stare tranquillo con gli amici intimi e con la famiglia. è aumentata anche la sua abituale insonnia, e deve ricuperare con qualche breve riposo diurno ciò che perde nella notte. Si fa inoltre più spazio la sua ansia, del tutto infondata, sulla sua situazione economica, ovviamente floridissima: teme sempre un ipotetico “crack” finanziario mondiale o personale, una vera ossessione dalla quale non riesce a liberarsi quasi mai.

Di tutto questo, fortunatamente, non sembra risentire la sua produzione artistica: la musica è inattaccabile.

“Miss Liberty” e la statua sul ponte.

Notizie da casa Berlin: la prima è il successo letterario della moglie Ellin. Nel 1948 esce il suo secondo romanzo, quattro anni dopo il precedente. Il fatto che i due libri abbiano come autrice “Mrs. Berlin” avrà anche contato, ma la loro diffusione è notevole, e le recensioni positive. Seconda novità: il matrimonio della figlia maggiore, Mary — Ellen, con un giovane pilota della U. S. Navy, di famiglia molto ricca: l’odioso nonno materno della ragazza, se vivesse ancora, ne sarebbe lietissimo. Ma, tutto sommato, lo è anche il padre della sposa.

Per il Natale 1948 all’aeroporto di Berlino atterrano alcuni aerei americani portando un gruppo di attori e musicisti (c’è anche Bob Hope) per uno spettacolo dedicato ai soldati che presidiano la capitale in pieno “blocco”. Berlin è lieto di trovarsi con loro, nella città che quarant’anni prima gli aveva ispirato il suo nuovo cognome, ma subito dopo deve anche volare a Londra, chiamato da Robert Sherwood, il noto commediografo americano che da tempo risiede in Europa.

Sherwood gli propone una nuova commedia musicale, “Miss Liberty” con un soggetto originale, basato sulla statua, copia della Statua della Libertà di New York che, in formato ridotto, l’America ha voluto regalare a Parigi in segno di fraternità e simpatia (situata a metà d’un ponte sulla Senna, tuttora ben visibile) Siamo decisamente in un campo diverso dalle pittoresche vicende dei Musicals precedenti.

Berlin rientra a New York: si tratta di trovare un’attrice per la parte impegnativa del modello della statua, e la prescelta è Allyn Mc Lerie, giovane ballerina di talento, moglie del compositore Adolph Green. Non mancheranno i problemi: Sherwood non ammette modifiche al suo soggetto, mentre il bravo Moss Hart, ancora una volta direttore di scena, ha molte cose da discutere. Quanto alle canzoni, Berlin ne ha scritte parecchie, valide come sempre, e si dimostra ottimista.

La “prima” di “Miss Liberty” inaugura la stagione all’Imperial di Broadway, nel teatro che ha visto tre anni prima il trionfo di “Annie get your Gun”. è il 15 luglio del 1949. Le repliche arrivano fino all’aprile seguente, ma si tratta d’un successo più che altro di stima.

Questa volta la magica linearità delle musiche di Berlin con la loro capacità di evocare e blandire, non riesce ad emergere. Ma è proprio Broadway, contemporaneamente impegnata con i suoi teatri in tanti ottimi Musicals, a far sentire la sua spietata concorrenza: basta citare “South Pacific” di Rodgers e Harnmerstein, commedia esotica e romantica come poche altre, che è proprio quanto chiede il pubblico al posto della storia senza vitalità di quella statua sul ponte di Parigi…

Una mezza delusione da Broadway, ma subito dopo una grande soddisfazione dal cinema, seguendo la consueta alternativa fra schermo e palcoscenico.

Siamo nel 1950, e la Metro Goldwin Mayer sta continuando a sfruttare lo splendido risultato ottenuto l’anno prima con “Easter Parade”. Ma è già in programma la prevedibile versione cinematografica di “Annie Get Your Gun”.

Si fa assegnamento su Judy Garland. come protagonista, visto che nel film “pasquale” è stata bravissima e anche disciplinata, a fianco d’un severo e perfezionista Fred Astaire. Ma Judy è cambiata: in poco tempo è tornata ai suoi farmaci antidepressivi ed è anche deperita, risultando ben poco idonea al ruolo vitalistico di “Annie”

La Metro non dovrà cercare molto per la sostituta. Ma è necessario versare alla Paramount una cifra con molti zeri per ottenere la disponibilità di Betty Hutton, attrice trentenne ben nota per i suoi ruoli vivaci. La parte del rivale innamorato andrà a Howard Keel, attore e cantante di bell’aspetto.

La Hutton non è inferiore alla brava Ethel Merman della versione teatrale, e Berlin le dedica di buon grado alcuni piacevoli motivi in aggiunta, come “I’m an Indian too”, in stretta collaborazione con Robert Alton, coreografo sicuro.

Il regista è George Sidney, un grande professionista il cui nome resterà a lungo nella storia dei film musicali. Ed è obbligatorio ricordare la sua scomparsa, all’età di novant’anni, avvenuta proprio nei giorni in cui stiamo scrivendo questi appunti (maggio 2002). Il lavoro di Sidney resterà legato a una trentina di film importanti, da inserire nel libro d’oro di un genere molto caro al pubblico non solo americano, ma di tutto il mondo.

“Annie Get your Gun” ha un enorme successo in America e poi all’estero. E Berlin adotterà d’ora in poi questo fondamentale principio: fare sempre una storia semplice, con una “star” di cui si possa scrivere con simpatia, e con un’ambizione non più grande di quella destinata a divertire il pubblico…

“Call Me Madam” e altre cose.

Rassicurato dal nuovo successo al cinema, Berlin vuole rinfrescare la sua fama in teatro, poiché quella statua di Miss Liberty gli pesa ancora addosso. E ha già pronto un ottimo progetto per Broadway. Avrà la collaborazione del librettista Russel Crouse e di Howard Lindsay, già autore di buone commedie musicali per Cole Porter, fra le quali “Anything Goes”.

Ethel Merman sta continuando la sua carriera di diva del Musical riverita e famosa. E Berlin, con il soggettista Crouse, la vorrebbe interprete d’una sua commedia musicale dal titolo “Call Me Madam” (Chiamatemi signora). Tutti d’accordo: le prove hanno inizio il 14 agosto del 1952 al Golden Theatre di New York, con molte nuove e belle canzoni di Berlin. Una di queste, fra le tante, è “You’re Just in Love” ed è forse l’ultima grande melodia della sua carriera. Il ruolo maschile viene affidato a Russel Nype, un giovane attore che promette bene.

La “Prima” è a New York il 12 ottobre, e poi c’è una tournée di enorme successo, della durata di diciotto mesi.

Sui giornali si leggono recensioni come “Robust, cynical, romantic” soprattutto a beneficio della protagonista: la Merman è Molly Adams, proprietaria d’un albergo nonché ambasciatrice del Lichtenberg, un ipotetico stato da operetta. Una parte che è perfetta per lei, padrona della scena dall’inizio alla fine.

Una facile previsione: si fa subito avanti il cinema nella persona di Darryil F. Zanuck, magnate della Fox, e l’accordo è presto raggiunto.

A Hollywood il film è ultimato nel 1953, e la Merman è ancora la protagonista: è il secondo caso in cui la protagonista in teatro lo è anche sullo schermo,un evento piuttosto raro. Il regista è Walter Lang e il coreografo Robert Alton, due famosi esperti di Musical al cinema. Tutta la musica è naturalmente di Berlin.

Accanto a Ethel Merman c’è George Sanders, un noto attore di genere “serio”, che qui si esibisce come moderato cantante, unica occasione della sua lunga carriera. Poi abbiamo Donald O’Connor e Vera-Ellen, che cantano e ballano in “It’s a Lovely Day Today”. La Merman, a sua volta, ha uno speciale “a solo” vocale in “The Ocarina”. Seguono altre piacevoli canzoni: è una vera festa sonora.

Il 1954 è un anno tutto dedicato al cinema: dopo l’uscita di “Call me Madam” con un successo uguale, se non superiore, alla stessa commedia musicale, esce subito un altro “White Christmas”, questa volta con il titolo della canzone ormai famosa. Sarà il film “Top money making”, vale a dire il più prodigo di incassi dell’anno, in corso: è una solida esibizione di musiche e attori famosi in un Technicolor e Vistavision suntuosamente natalizio. Gli attori sono Bing Crosby (travestito da Santa Claus), con Danny Kaye e Rosemary Clooney che cantano, Vera-Ellen che danza, e tante belle melodie come “Sisters” per Clooney e Vera-Ellen in duo e anche una ripresa di “Blue Skies” nell’immancabile duo Crosby-Kaye . Il regista è Michael Curtiz,il coreografo è il solito Alton . Abbiamo detto degli incassi e del grande successo.

Il terzo film ha un titolo un po’ lungo: “There’s no Business like Show Business” (nessun affare è paragonabile all’affare dello spettacolo)

È un’affermazione che non ammette replica, ideata con ironia dallo stesso Berlin, con una canzone che vuole essere un omaggio alla gente del cinema e del teatro. È la storia d’una famiglia di attori del “Vaudeville”, nella quale il padre ha una fugace avventura con una cantante di Night Club, cui fa seguito un prevedibile rientro nella normalità. Il cast ha dei nomi famosi: ancora la Merman con Dan Dailey nel ruolo dei genitori, con Mitzi Gaynor, Donald. O’Connor e Johnny Ray (sconosciuto e presto scordato) nella parte dei tre figli.

In più c’è un’attrice a sorpresa, Marilyn Monroe, che interpreta la seduttrice del capo famiglia: è proprio l’anno del suo sfortunato matrimonio con Joe Di Maggio. E canta una versione piuttosto sexy di “Heath Wave” (ondata di calore), motivo già noto, ma reso “speciale” da lei. Il regista del film è Walter Lang, le danze sono dirette ancora dal bravo e fedele Robert Alton. E c’è un altro motivo di Berlin che fa il suo rientro nel film: “A Pretty Girl is like a Melody”, eseguito dalla Merman con Dan Dailey.

L’unica partecipazione della Monroe a un lavoro di Berlin non lascerà un buon ricordo: l’attrice è in crisi col suo matrimonio, e per di più ha dei contrasti con Ethel Merman a causa dei suoi continui ritardi sul lavoro, mal tollerati dalla scrupolosa partner.

“In recognition of his services”.

Berlin si è sempre tenuto fuori dalla politica. In una sola occasione ha scritto un motivo in omaggio al presidente Eisenhower, del quale è sempre stato un ammiratore. Il titolo è “They like Ike”,con il nomignolo affettuoso che gli danno i cittadini. E nel luglio del ’54, accompagnato dalla moglie Ellin, riceve alla Casa Bianca una medaglia dal presidente degli Stati Uniti “in recognition of his services in composing many popular songs, including “God Bless America”.

In questa occasione viene anche rammentata la sua generosità nel finanziare le iniziative benefiche per i congiunti dei militari.

Ricordiamo che questo riconoscimento è il secondo nella sua carriera: una prima medaglia l’aveva ricevuta dal presidente Truman nel ’45 “For highly meritous services”, e la motivazione è la stessa. Il piccolo americano premiato è sempre lui, apparentemente poco sensibile agli elogi, ma visibilmente commosso se questi gli pervengono dai potenti del suo Paese.

“There’s no Business.. .” non ha il successo sul quale si faceva assegnamento. È possibile che in parte ne sia responsabile l’effetto Cinemascope, più adatto a vasti panorami che a una commedia musicale con un soggetto un po’ casalingo, ne il contributo di Marylin sembra sollevare troppo le sorti del film, uscito anche in Italia con il titolo di “Follie dell’anno”. Inoltre, i programmi dei cinematografi sono gremiti, in quegli anni, di Musicals d’ogni tipo, una vera inflazione.

Berlin è depresso, e pensa addirittura a non fare più del cinema. Nel ’55, durante una vacanza distensiva con Ellin a Haiti, incontra il commediografo inglese Noel Coward nel suo stesso albergo, mentre suona al pianoforte proprio le sue canzoni ai clienti soddisfatti. Sembra quasi incredibile, ma per Berlin è l’inizio di una ripresa morale quasi immediata. E Ellin ringrazia di cuore l’amico inglese.

Tornato in America,incontra delle altre contrarietà: qualche giornalista ha scritto su un’ipotesi completamente infondata, che vorrebbe Berlin aiutato da un collaboratore (un “negro” come si dice) nel suo lavoro di compositore. E altri lo descrivono addirittura come un consumatore di stupefacenti: infatti il povero Irving prende qualche sonnifero nei suoi momenti di maggiore tensione. E si trova costretto a promuovere suo malgrado delle cause legali che vince regolarmente, ma che non giovano molto al suo morale. È irascibile e solitario, cose insolite per lui. Siccome deperisce anche fisicamente, viene deciso un ricovero in una clinica privata, e ne avrà un notevole beneficio.

Nel maggio del 1958 compie settant’anni. La moglie Ellin gli è sempre stata molto vicina in questo periodo difficile, e così pure le tre figlie, ormai completamente autonome. Vive piuttosto isolato nel suo lussuoso appartamento di Beckman Place a Manhattan, e ha sempre accanto, quasi come un portafortuna, il suo “transposing piano”, ancora funzionante. È la musica, purtroppo, che si è fatta più scarsa…

Per il suo settantesimo compleanno, una celebrazione affettuosa e spettacolare gli viene dedicata dalla BBC inglese, mentre gli americani trasmettono un mediocre telefilm biografico con un interprete vagamente rassomigliante.

Esce poco di casa, e quasi sempre di sera, perché non ama essere riconosciuto. Frequentemente lo accompagna Ellin, che è impegnata dal suo lavoro di scrittrice, ma lui, in genere, preferisce stare solo.

Nei periodi di depressione più intensa ha i consueti complessi di inferiorità verso i suoi colleghi di successo, come Rodgers, Arlen e Porter, peraltro suoi ammiratori e amici sinceri. E intanto il tempo scorre via senza nessuna iniziativa: sono parecchi anni che non scrive più per Broadway.

Nel maggio del ’61 i suoi ultimi collaboratori, Lindsay e Crouse, gli sottopongono un progetto che gli sembra molto attraente: una commedia musicale su un presidente americano, magari anche Kennedy…


“Mr. President”, un errore fuori tempo.

Davanti all’idea di dedicare un suo spettacolo al nuovo “leader” degli Stati Uniti, Berlin si trasforma in un miracolato: si fa attivo, scrive con entusiasmo delle nuove musiche, sembra ringiovanito. Vengono scelti i protagonisti: per la parte di John Fitzgerald Kennedy c’è Robert Ryan, un veterano dello spettacolo, visto che qualche suo Musical con Fred Astaire risale agli anni 30. Nel ruolo della moglie Jacqueline troveremo Nanette Fabray, che si era già distinta fra i protagonisti di quel grande spettacolo che era stato il film “The Band Wagon” nel ’53. Ha appena avuto un bambino, e spera che i suoi anni di esperienze a Broadway la mantengano tuttora nei ricordi del pubblico.

Kennedy è alla presidenza da circa un anno. E sta già percorrendo con sicurezza il suo cammino verso quella “nuova frontiera” che lo porterà lontano,fino (purtroppo) a quel viaggio a Dallas nel 1963.

Il titolo della commedia sarà semplicemente “Mr. President”. Il vecchio pianoforte “truccato” è di nuovo in piena funzione. Il direttore di scena è Joshua Logan, e lo script è ovviamente tutto di Berlin, insieme ai consueti collaboratori Lindsay e Crouse. Il “Mr. President” nella finzione ha nome Stephen Anderson, e la First Lady si chiama Nell.

Alla fine di agosto ’62 ha luogo la prima rappresentazione a Boston, lontano da Broadway, come si usa spesso. È un disastro: i numeri comici non divertono, e le canzoni sentimentali sono fuori moda in modo imbarazzante. Per di più, la messa in scena è veramente molto debole.

I critici aggrediscono lo spettacolo: il più quotato cronista di Boston usa semplicemente un aggettivo: “Dreadful” (spaventoso) e aggiunge che “mai, nella sua carriera, Irving Berlin ha scritto canzoni così stucchevoli”. Ma lui, anziché deprimersi, non vuole cedere: soltanto un mese dopo il fiasco di Boston, “Mr. President” viene presentato al National Theatre di Washington con qualche modifica. Kennedy e la moglie sono attesi nel palco d’onore, e sono presenti molte personalità, come Lyndon Johnson e Clara Boothe-Luce, fra gli altri.

Ma nel palco c’è solo Jacqueline detta Jackie: si saprà in seguito che il Presidente è rimasto a casa per poter seguire in televisione un importante match di pugilato… Nel dopo-teatro c’è un ricevimento alla Ambasciata britannica, nel quale, come per incanto, Kennedy e signora si materializzano tranquilli e con molta cordialità. Risulta evidente che al vero “Mr. President” importa ben poco di questa sua presunta glorificazione sul palcoscenico.

Infine la commedia si sposta a Broadway, ma la sfortuna colpisce ancora, perché in quei giorni scoppia la grave crisi politica dei missili a Cuba. Lo sguardo ottimista che Berlin ha rivolto alla Casa Bianca risulta ingenuo e fuori tempo…

Sei mesi dopo l’apertura, le richieste al botteghino del teatro sono praticamente ridotte a zero. Le musiche, incise sui dischi dalla Columbia, ottengono anche loro uno scarso risultato, mentre Berlin si ostina a volerla considerare un successo.

Passa qualche mese, e l’attentato di Dallas mette fine all’era Kennedy: la storia ha giocato uno scherzo crudele all’autore di “Mr. President”. E davanti all’ondata di patriottismo degli americani la recente commedia di Berlin è ormai un ricordo patetico.

La vecchia guardia degli autori di Musical sta scomparendo:

Oscar Hammerstein, il partner indivisibile di Richard Rodgers, è morto nel 1960, e il grande Cole Porter se ne andrà nel ’64. Il “Music Business” non è più un monopolio di Broadway, e si sta spostando sulla West Coast, dove c’è Hollywood con i suoi richiami molto più interessanti.

Un ultimo tributo di stima per Berlin: Arthur Freed, autore dei più memorabili Musical della Metro, vedendo che sono già usciti molti film biografici in questo settore: Porter, Glenn Miller e altri, pensa di farne un altro, ispirato alla vita di questo illustre veterano: potrebbe uscirne quasi una storia di tutto il cinema musicale…


“Dillo con la musica”.

Nel ’63, dopo che Berlin si è ripreso dalla dura esperienza di “Mr. President”, lui e Freed cominciano a studiare insieme la possibile realizzazione del progetto, che avrebbe come titolo “Say it with Music” (dillo con la musica). La vita di Irving con le sue svariate vicende private fornirebbe uno splendido soggetto, ma lui oppone un netto rifiuto a divulgarle in forma di spettacolo: si disponga pure delle musiche, ma la trama deve toccare soltanto da lontano le cose reali.

È chiaro che non se ne può fare una semplice rassegna di canzoni senza un sostegno narrativo: potrebbe essere un soggetto modulato sullo schema delle vecchie “Follies”: molto spettacolo, molta musica, e degli intermezzi blandamente biografici. Berlin è d’accordo, e si fanno già dei nomi per gli interpreti, come Julie Andrews e Sinatra.

Tempo dopo, mentre Berlin è a Londra per il matrimonio della figlia più giovane Elizabeth, lui accenna, al ricevimento e con la sua solita vocetta dei momenti lieti, qualche motivo della rivista per Hollywood che dovrebbe cominciare quanto prima le riprese. Ma tutto si fermerà ad un livello di bel progetto mai realizzato: nel ’64 vorrebbe trasformare lo spettacolo in tre episodi musicali fra Europa e America. Gli autori sono Comden e Green, quelli che dieci anni prima avevano scritto “Singing in the Rain” e “Band Wagon”, due veri capolavori del Musical.

Ormai si è fuori del tutto dal progetto iniziale: Berlin rinuncia, e non si parlerà più di “Say it with Music”

Intanto si è perso molto tempo, e siamo ormai all’inizio del 1966.

Non sembra tuttavia che Irving abbia intenzione di ritirarsi dallo “Show Business”. Proprio in quel periodo Richard Rodgers, che è sempre un autore di solido successo, è stato nominato presidente del “Music Theatre” al Lincoln Center di New York e gli propone di allestire un “Revival” nel prestigioso locale, con una riedizione di “Annie Get Your Gun.” interpretato ancora dalla Merman, con musiche e dialoghi modificati secondo i tempi nuovi. Si giunge alla “Prima” nel maggio del ’66 mentre Berlin compie 78 anni: la critica è soddisfatta, si fa una buona “tournée” per l’America, e le successive rappresentazioni nel ritorno a Broadway confermano questo momento felice dell’anziano Maestro.

Due anni dopo, il 5 maggio 1968, è il giorno del suo ottantesimo compleanno, con grandi festeggiamenti e la presenza del Presidente del momento, che adesso è Lyndon Johnson. Il notissimo “anchorman” della televisione Ed Sullivan riesce a trasformare le formalità degli auguri in un appuntamento nostalgico e commovente.

Dopo il momentaneo successo del ’66 con quel rifacimento del suo “Annie”, siamo giunti definitivamente al termine della sua infinita carriera. A parte l’età, vi hanno contribuito la sonora sconfitta di “Say it with Music” per il cinema, e il completo fallimento di “Mister President” nei teatri di Broadway di qualche armo prima.

In ogni caso, se la carriera è giunta ormai al traguardo, la presenza al mondo di questo straordinario personaggio è ancora ben lontana dalla conclusione.

Arriva comunque il momento del suo ritiro volontario nella tranquilla comodità della sua casa di Beckman Place a Manhattan, dove la sua Ellin è sempre una compagna paziente e impareggiabile. Trascorre molto tempo al telefono, consultandosi con i suoi legali, ai quali raccomanda con insistenza la tutela degli utili che continuano a pervenirgli dal suo lungo lavoro: è molto diffidente e spesso tormentato dal sospetto che qualcuno trami contro la sua buona fede. Si è messo a dipingere. Due suoi colleghi famosi, Gershwin e Arlen, erano stati dei buoni pittori, mentre i suoi lavori di pennello sono alquanto modesti. Scherzando con gli amici dice “Come pittore sono proprio un ottimo musicista…”

Molti gli chiedono se vuole vendere qualche raccolta delle sue “Lyrics” più conosciute, e una casa musicale gli propone la pubblicazione in due volumi di molte sue canzoni offrendo un notevole compenso in dollari. Il rifiuto è categorico: nessun editore avrà mai la sua produzione. Due sole eccezioni:

“God Bless America” per una associazione di Boy-Scouts, e “Always” per Ellin. In quel tempo è morta Gussie, l’ultima sorella rimasta: il gruppo dei “Baline” arrivato dalla Russia nel 1893 è finito, c’è solo più lui. E mentre continua la sua dorata reclusione, i pochi che riescono a vederlo si meravigliano della sua ottima condizione fisica, visto che sta raggiungendo i novanta.

L’elenco degli scomparsi in quel tempo è notevole: fra i molti c’è Harold Arlen, il delicato autore di “Over the Rainbow”, e poi anche Fred Astaire, per il quale ha sempre avuto una fraterna amicizia e tanta ammirazione. Quando a Fred aveva chiesto perché mai non avesse dato neppure un bacio sullo schermo alle sue meravigliose partner, si era sentito rispondere: “Ma mi hai preso per Clark Gable?” Era un mondo pieno di musica, fra persone che si volevano bene e che si stimavano, ma si stava avviando verso la fine.

Il centenario.

Il tempo passa, e la sua prolungata assenza dagli occhi del pubblico fa credere a qualcuno che sia già morto, non si sa bene da quando. All’arrivo del suo centesimo compleanno la ASCAP (American Society of Composers, Authors and Publishers ) decide di affidare al New York Times una pagina intera per la celebrazione dell’evento, mentre lui è pronto a deplorare questa leggerezza così costosa… Naturalmente l’Ascap fa la sua bella pubblicazione, per cui mercoledì 11 maggio 1988 Irving Berlin fa ufficialmente la sua entrata nel secondo secolo della sua vita.

E non sono pochi quelli che, di età molto più giovane, hanno creduto a lungo che “White Christmas” fosse una canzone popolare senza un vero autore, e che “God Bless America” fosse opera di un musicista scomparso in miseria.

Ma il paginone del New York Times ha ormai diffuso la voce che l’autore esiste, ha un nome, è ricco e compie un secolo: un autentico “Scoop” per tutta la stampa, e in particolare per il quotidiano che aveva dato per primo la notizia con un titolo: “A Reclusive Immortal” (Un immortale recluso…)

Ma non basta: viene organizzata una grande cerimonia al Carnegie Hall, il sacro tempio della musica americana. Due autentiche signore dello spettacolo musicale, Shirley Mac Laine e Rosemary Clooney, cantano tanti motivi di Berlin, e Frank Sinatra vi aggiunge “Always”: generale commozione. Poi Leonard Bernstein suona al pianoforte una “Russian Lullaby” in. omaggio alle origini del festeggiato, e per concludere in bellezza il coro dell’Esercito intona “This is The Army” , la canzone di quando Berlin era soldato. Infine la celebre cantante lirica Marylin Horne canta “God Bless America” fuori programma.

Entusiasmo e commozione a non finire, ma il festeggiato non si è neanche fatto vivo con gli organizzatori.

Tre mesi dopo si spegne la moglie Ellin, dopo qualche anno di cattiva salute . Una volta lei aveva detto: Mi ero sposata con Berlin non andando fuori, ma sopra al mio stato sociale… Era stata la figlia fuggiasca per amore del giovane musicista e contro il volere paterno. Una donna innamorata e coraggiosa.

Berlin sta velocemente decadendo: nessuno lo ha più visto al di fuori dei medici e delle figlie, e non si ha neppure una diagnosi precisa. “Morto di vecchiaia”, si diceva una volta, ed è quanto si può affermare quel giorno 21 di settembre del 1989 , quando si spegne nel sonno.

Un suo genero comunica ai giornalisti: “Aveva centouno anni e si è semplicemente addormentato”. Il funerale è semplicissimo, e i giornali lo piangono come “The Nation’s Songwriter”. Come in tutte le occasioni di Berlin, c’è anche qui un Presidente in persona, che in questa definitiva circostanza è George Bush senior. Si unisce anche lui al coro di sempre, quello che invoca Dio affinché benedica l’America…

La storia di Irving Berlin è finita.

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Jerome Kern, uno dei più geniali compositori di canzoni per le commedie teatrali di Broadway e per le pellicole di Hollywood, ha scritto: “Irving Berlin has no place in american music. He is american Music” (non ha un posto nella musica americana, lui è la musica americana)


Questa frase ricorre sovente nelle biografie di Berlin, nell’introduzione alle sue raccolte di canzoni e in ogni circostanza dedicata al suo ricordo, che è ancora tanto presente.


Berlin ha vissuto centouno anni, e ha composto un numero mai precisato di motivi musicali, quasi sicuramente qualcuno più di mille. Sono cifre incredibili per un uomo piuttosto serio e introverso, sostenuto da una mentalità di scrupoloso fabbricatore di musica, a volte dubbioso, mai stanco.


I suoi motivi più belli sono vivi come fossero appena venuti al mondo. Dopo il terribile dramma di New York dello scorso settembre, gli americani cantavano in coro “God Bless America”, e a Natale, l’immancabile “White Christmas” ha fatto scendere sulla gente la nostalgia dei fiocchi di neve dell’infanzia e una grande speranza verso qualcosa di ancora buono e innocente. Erano due omaggi a Irving Berlin, che ormai non hanno più età.


Per lui non vi saranno mai scadenze. La sua musica è come un patrimonio di tutti, e per sempre. 


Bibliografia e iconografia:


Il contrassegno indica dati bibliografici e iconografici nella stessa fonte.


Volumi:


Laurence Bergreen, As Thousands Cheer. The Life of Irving Berlin, Ed. Penguin Books, 1991.


Stanley Green: Encyclopaedia of the Musical Film, Oxford University Press, 1981


Ernesto G. Oppicelli, Musical!, Gremese Ed., Roma, 1989.


Roy Pickard, Fred Astaire, Crescent Books, New York, 1985.


Clive Hirshorn, The Hollywood Musical,. Uctopus Books, London, 1981.


Tom Vallance, The American Musical, Library of Congress, 1970.


Marion Vidal & Isabelle Champion, Chansons du Cinéma, M.A. Paris, 1990.


Stanley Appelbaum, Quiz Book of Hollywood Musical, Dover Publications, New York,  1971


Raccolte di canzoni:


American Songbook, Messaggerie Musicali, Milano, 1953.


Evergreen, Ed. Curci, Milano, 1938.


Articoli su periodici:


Alvise Sapori, E’ morto Irving Berlin, La Repubblica, 24-9-1989.


Mario Pasi, Il mondo intero ha cantato il suo Bianco Natale, Il Corriere della Sera, 24-9-89.


William Weawer, Bianco Natale all’Università. La Stampa, 16-6-1994.

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