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Omnia

Il lusso della dignità

Anche alle soglie delle vacanze estive non vi abbandoniamo, tanto che, contrariamente a quanto accadde gli anni scorsi, ci rivedremo puntuali tra un mese con un altro numero: mai più numeri doppi fino alla fine dell’anno.

Se tutto procede secondo le aspettative, siamo agli sgoccioli con la Fucine Mute che avete conosciuto in questo quadriennio, sebbene tema un po’ le vostre reazioni in seguito al restyling che, ricordiamolo, non sarà solo tecnico: ma vedrete, sarà questione di abitudine, e alla fine ci riconoscerete la classe che, modestamente, ci contraddistingue da sempre.

Dopo questa lieve lustrata al mio ego un po’ sudaticcio – ma stanotte parto e lascio afa e climi malsani a chi rimane – e della quale spero abbiate colto la vena ironica e assolutamente priva di alcun intento autocelebrativo, rifletto su come le cose cambiano in fretta dalle nostre parti. Pensate: più o meno un anno fa c’era chi a Genova finiva dalle scuole e dalle strade alle caserme senza alcuna possibilità di ingarbugliare le procedure mentre oggi, da qualche ora a questa parte, chi ha qualche problema a Milano può risolvere il tutto limitandosi a fare i capricci. Ieri seppellivamo Montanelli, oggi la decenza.

Chiedo scusa per una parentesi che non mi sarei mai voluto permettere, ma la cronaca di questi giorni – anche quella nera, anche quella stucchevolmente rosa del gossip estivo, anche quella squallidamente sportiva da cui ci salva solo il nuoto berlinese – lascia l’amaro in bocca a me così come, credo, un po’ a tutti, indipendentemente da fedi, bandiere, opinioni.

In questo generale calo del senso della dignità collettiva (l’ormai banale senso civico lo abbiamo abbandonato randagio in autostrada parecchie stagioni fa) mi piacerebbe sentire la forza della mia giovinezza ancora spendibile per una spinta ideale e ideologica, di lotta se serve, più auspicabilmente di confronto produttivo. Ventisette anni, a meno di chiamarsi Kurt Cobain, Jim Morrison o Janis Joplin, sono in linea teorica ancora pochi; ma forse sto diventando grande, non certo per sottolineare la fondatezza del mio pensiero, quanto piuttosto per indirizzare lucidamente e in più direzioni le mie risorse. Ottimizzabili, oggi, stringendo i denti, e talvolta resistendo tre volte, perché ognuno di noi, più o meno lontana, ha una propria linea del Piave.

Non ho mollato il colpo, non preoccupatevi, sono anzi più combattivo che mai. Ma restare in piedi con il vento contrario a volte è sfiancante, specie se non si ha alcuna intenzione di risolvere le cose semplicemente girandosi e facendosi sospingere.

Mentre scrivevo il commento critico ad American Gods, una sorpresa che sfiora il capolavoro anche per chi già apprezza Gaiman da anni, mi domandavo il motivo di una ricerca filologica che sembra prendere il sopravvento sulla storia, di un amore – che condivido al di là delle mode, sono sempre un tolkieniano – per le vicende passate più o meno idealizzate e/o verosimili, che studiano il documento ma non sempre si curano del divenire. Non è il caso di Gaiman, che è scrittore troppo sensibile e maturo per cadere in certi trabocchetti, e certo la ricerca di un’identità collettiva è il prezzo da pagare per una sacrosanta laicità che tuttavia richiede il proprio bagno di sangue prima di svelarci chi siamo veramente. Ma ho paura di trovare la risposta non tanto nell’ambito culturale in cui trovo anzi un placido rifugio (ma allora, da fruitore, sono anch’io colpevole del tanto rimarcato allontanamento della cultura dalla società, seppure nell’altro senso), quanto nell’agire di ogni giorno: nella tendenza a guardare per terra per non pestare la cacca quando sarebbe sufficiente guardarsi intorno per imparare a schivarle tutte, quando in altri termini un po’ più di accortezza e di capacità di apprendere dagli errori del passato sarebbe del tutto compatibile con la fisiologica ristrettezza di vedute indotta dai piccoli e grandi – mai banali – problemi del quotidiano, quelli che da una parte ci distraggono e dall’altra restano i più importanti.

Se la storia è morta, che Francis Fukuyama ci abbia o meno ripensato, è un problema della storia; per quanto ne facciamo parte, non abbiamo il diritto di sederci senza nemmeno stare a guardare, avanti come indietro.

Ma mi fermo, perché non mi chiamo nemmeno Ligabue e, prima di cadere nella trappola della vita da mediano, non ho alcuna intenzione di insegnare nulla a nessuno dall’alto di chissà quale quieta mediocrità, quella che i nostri musicisti “impegnati” offrono a tutti quale diritto inalienabile e fasulla ancora di salvezza, facendoci sentire cercatori d’oro e lasciandoci la bigiotteria di bassa lega. Non so cosa c’entri, ma insieme a tutto il resto sono stanco di gente che non conosco e che si arroga il diritto di insegnarmi a vivere. Questo lo concedo solo all’arte, quella vera.

Quella di Gaiman, appunto; quella che verrà, e di cui Valerio Bindi ci offre le prospettive con un libro che recensiamo in questo numero; quella – provocatoria e adatta a chi non va al museo per scopi contemplativi – dell’appena concluso “Shock & Show”, riflessione estrema sulla violenza quotidiana attraverso la sfida della violenza esibita con cognizione di causa. Vi lasciamo ottimo materiale su cui spremervi le meningi durante le ferie, per quanto il nostro augurio sia di passarle in assoluta pace e serenità.

E attendendovi in settembre con i primi cortometraggi che pubblicheremo on line, assieme a fucine.fm in dirittura d’arrivo, con fucine.tv pronta subito dopo la mano di bianco alla rivista istituzionale. Dimenticavo: per chi non se ne fosse accorto, il forum è di nuovo attivo, a riprova, tra l’altro, che SQL ce l’abbiamo e funziona. Alimentate il dibattito, per favore.

A proposito di estate: la mia maledizione indissolubile ed imperitura a chi lascia animali per strada. A tutti gli altri, buone vacanze e tante scuse per lo sfogo.

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