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Scrittura

Americani a Parigi negli anni ’20: l’emigrazione letteraria

Un piccolo libro postumo

Il 2 luglio del 1961 era una domenica, perciò la notizia comparve sui giornali solo la mattina del giorno dopo. Ernest Hemingway, uno dei più famosi scrittori d’America, premio Nobel 1954, era morto, all’alba di quella domenica, mentre stava pulendo un fucile da caccia nella sua casa di campagna dell’Idaho.

La prima notizia era stata data dalla moglie che, pietosamente, aveva voluto occultare un suicidio fin troppo palese per quanti erano stati vicini a Ernest negli ultimi tempi, con ripetuti ricoveri alla Clinica Mayo e frequenti recidive di psicosi di persecuzione fino alla tragica fine, probabilmente nel corso d’una crisi più seria, e per di più al rientro da una tranquilla serata trascorsa presso amici.

Un romanzo di Hemingway, “Di là dal fiume tra gli alberi”, era stato per molti critici la conferma d’una involuzione creativa già in atto, parzialmente superata, forse, con il successivo “Il vecchio e il mare”. Invece un libro piuttosto breve, dedicato a ricordi ed esperienze tra il 1921 e il 1926 a Parigi, uscito postumo, aveva una freschezza degna d’una stagione letteraria più felice. Il titolo era “A Moveable Feast”, una festa mobile.

Per il calendario, una festa mobile è quella che ricorre ogni anno in una data diversa, tipico esempio la Pasqua. Il termine era evidentemente piaciuto a Hemingway che l’aveva usato come titolo di questo suo felice racconto.

Tutti, o quasi, a Parigi

Parigi, negli anni che fecero seguito alla Grande Guerra e all’Armistizio, era stata il polo di attrazione di molti esponenti della letteratura e della poesia d’oltre Oceano. Alcuni, come Hemingway ed altri, erano reduci da una diretta esperienza della guerra combattuta fra i volontari americani inviati sul fronte veneto, e proprio lui, con il suo “Addio alle armi” del 1929, ne aveva espressa tutta la sua repulsione. Un altro americano, John Dos Passos, avrebbe a sua volta ricordato nel suo libro “I tre soldati” l’amarezza dei combattenti, subito dopo la loro brutta avventura bellica in Europa.

Non è senza importanza l’esperienza di questi scrittori: sarebbe servita loro per vincere più consapevolmente l’atmosfera superficiale e festosa del dopoguerra, con una sensibilità che altri non avrebbero mai trovata nel loro intimo.

Dunque Parigi negli anni Venti ospitava una vera folla di intellettuali o di pseudo-intellettuali, tutti provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico. Quali le origini di questa migrazione, perché questo ritorno verso l’Europa da parte di gente i cui avi, tre secoli prima, avevano passato il mare nel senso opposto, portando con sé la matrice spirituale della vecchia Inghilterra? E che dire di questi scrittori?

Sappiamo che la letteratura americana era nata come prodotto di emigrati: i coloni inglesi trasferiti in America non fuggivano dalla loro madrepatria, ma avevano lasciato l’Europa per effetto d’una scelta precisa. E pur godendo di una vasta autonomia, avevano mantenuto con essa un legame spirituale: il loro scopo stava nella creazione d’una comunità basata sul protestantesimo che professavano rigidamente, e la “Nuova Inghilterra” doveva essere un incontaminato Regno di Dio.

Non vi era molto spazio, in una simile società, per evadere verso una letteratura che non fosse ispirata alla severa religiosità dei Puritani, e appunto per questo la nascita di una narrativa propriamente “americana” era stata lenta e faticosa, spesso ostacolata, prima di poter arrivare, con la guerra d’indipendenza e la conquista dell’autonomia politica, alla comparsa di figure come Poe, Emerson e Melville fino al secondo Ottocento con Mark Twain, lo scrittore che Hemingway amava definire come il fondatore della letteratura moderna d’America.

Del resto, anche su molti scrittori ormai liberi da ogni spirito colonialistico e legati a società, tradizioni e vicende politiche della loro giovane Patria, il fascino della lontana matrice europea non era mai venuto meno. Basti per tutti l’esempio di Henry James, ritenuto da molti uno scrittore inglese, che era emigrato a Londra nel pieno della sua maturità artistica, che in Inghilterra era morto e dove era stato sepolto per suo preciso desiderio. E lo stesso Mark Twain descriveva, con affettuoso umorismo, i suoi viaggi nel Vecchio Mondo nel suo “Gli innocenti all’estero”.

Intanto anche la cultura americana seguiva la cosiddetta “frontiera” spostandosi verso Ovest, lontano dai territori della prima conquista inglese, mentre nasceva il mito del “Self made man”, dell’uomo affermatosi partendo dal nulla, che tanto peso avrebbe avuto poi nella cultura e nella società dell’America moderna.

Prima la guerra di secessione, poi la guerra per Cuba contro la Spagna, poi gli squilibri provocati dall’industrialismo nascente, finirono per scuotere questo “American Dream”. E infine la prima guerra mondiale con gli anni che ne seguirono, rese più intenso il disagio.

Gli intellettuali americani erano stati per lo più interventisti, convinti che la guerra europea fosse giusta e che la vittoria segnasse l’avvento di un’era felice e conciliante per tutti. Ma i programmi ottimisti del presidente Wilson sulla cooperazione universale rimasero purtroppo sulla carta, al punto che gli Stati Uniti non entrarono neppure nella Lega delle Nazioni.

Per gli scrittori americani la guerra segnò un risveglio e una presa di coscienza molto amari: in buona parte l’avevano vissuta combattendo in Europa. Appresero l’assurdità delle stragi, l’orrore della morte e del sangue e le falsità della propaganda. Poi, tornati in patria, dovettero fare i conti con una situazione generale sconfortante, con gli errori dei presidenti Coolidge e Hoover e infine con il “crack” economico del ’29 da cui derivarono enormi sacrifici.

Questi avvenimenti prepararono in qualche modo gli scrittori a rinnovarsi, a rivedere anche i particolari delle loro tecniche espressive, ad aprirsi verso nuove possibilità e nuovi orizzonti.

Fu questo il fondamento al fenomeno dell’espatrio, e il principale richiamo venne da Parigi. Per prosatori e poeti di terz’ordine, e non ne mancavano, poteva anche trattarsi di una moda, all’ombra dei nuovi ricchi del dopoguerra che venivano a spendere i loro denaronegli alberghi favolosi della Costa Azzurra.

Ma per gli altri, i migliori, fu un tempo di ripensamento e ricerca.

La Grande Gertrude e la “Generazione Perduta”.

La cultura degli espatriati trovò a Parigi una strada già chiaramente da un personaggio singolare, la scrittrice Gertrude Stein. Nata nel 1784 in Pennsylvania da una famiglia borghese del vecchio Nord, aveva studiato psicologia e ricevuto una fine educazione. Si era trasferita a Parigi fin dal 1902 e vi era rimasta sempre, per oltre quarant’anni. Non si era sposata e conviveva con la fedele compagna Alice Toklas, anche lei scrittrice.

Il loro salotto in Rue de Fleurus, non lontano dal giardino del Lussemburgo, ospitava molti artisti; narratori, poeti, pittori come Picasso, autore fra l’altro d’un ritratto della Stein che Hemingway avrebbe poi definito simile a quello “d’una contadina friulana”.
La Stein aveva scritto molte cose: il romanzo “Tre esistenze”, una storia di donne infelici, poi “The making of the Americans”, poi la singolare “Autobiografia di Alice Toklas” che era in realtà la sua biografia personale presentata come opera della sua compagna. Il suo stile particolare si accostava a quello di altri scrittori americani d’una certa importanza, primo fra tutti Sherwood Anderson, un realistico analizzatore della piccola vita di provincia “yankee”. E proprio Anderson le presentava, poco tempo dopo, un altro americano molto giovane e molto interessante: si chiamava Ernest Hemingway.

Scrive la Stein: “Sherwood e Gertrude erano divertenti quando parlavano di Hemingway, che per loro rassomigliava a uno di quei barcaioli del Mississippi descritti da Mark Twain, aveva inoltre occhi interessati più che interessanti, da uomo destinato ad una grande carriera”.

Gertrude aveva subito provato simpatia per questo giovanotto squattrinato. E basta vedere qualche fotografia di quegli anni per avere un’immagine eloquente dell’uomo e dell’artista: robusto, malvestito e male sbarbato, con una luce penetrante nello sguardo e un sorriso un po’ triste.

Era il 1921, e pochi anni dopo sarebbe giunto a Parigi un altro americano ricco con moglie e bambina: una coppia di turisti invidiabili. Si chiamavano Scott e Zelda Fitzgerald. Così la “festa mobile” procedeva per il suo corso, e “Miss Stein” le faceva da pilota. Poco dopo avrebbe definito questi americani, in buona parte maturati nel corso della guerra recente, come “La generazione perduta”.

I due scrittori giungevano all’approdo di Parigi avendo in comune l’origine dagli stati del medio-Ovest d’America, ed erano quasi coetanei (1896 Fitzgerald, 1899 Hemingway).

Il racconto della vita di Hemingway ha impegnato una quantità di validi biografi che non occorre citare: ma è d’obbligo fare eccezione per la nostra Fernanda Pivano, conosciuta da tutti come una competente americanista e in particolare come amica dello scrittore da lungo tempo. Ha compiuto da poco gli ottantacinque anni: auguri di cuore a “Nanda”, come la chiamava Lui.

Un americano a Montparnasse

Agnes von KurowskiHemingway arriva a Parigi tre anni dopo la sua disastrosa esperienza sul fronte del Piave, con il ricovero all’ospedale di Milano, la parentesi d’amore con la bella infermiera Agnes von Kurowski (americana malgrado il cognome) e il rimpatrio. Quando torna in Europa è già corrispondente del “Toronto Star Weekly” e porta con sé la giovane moglie Hadley. Fra il ’21 e il ‘23 è in viaggio come reporter, poi fa una sosta ulteriore in America dove gli nasce il primo figlio, e nel ’24 è di nuovo a Parigi.

Da quel momento ha inizio la parte più feconda della sua attività di scrittore, in un piccolo appartamento a Montparnasse, Place de la Contrescarpe, a pochi passi dalla mole del Panthéon, dove termina la Rue du Cardinal Lemoine. Ce lo ricorda una lapide nella quale si segnala al passante che “questo era stato il vero luogo di nascita delle sue opere e del suo stile”. E infatti proprio qui aveva cominciato a scrivere, fra una macelleria equina e uno spaccio di vini dietro l’angolo. La “Contrescarpe” era un piazzetta sudicia, con l’immancabile “bistrot” dal nome invitante di “Café des Amateurs”. E di cosa fossero amatori i suoi clienti era facile dedurlo dai canti e dalle risse di avvinazzati che puntualmente vi esplodevano ogni sera.

C’era anche, lì accanto, il modesto alberghetto dove era morto Paul Verlaine. E siccome il loro appartamento era molto piccolo, Hemingway aveva preso in affitto una stanza all’ultimo piano dove, scrivendo, poteva vedere i tetti e le colline della città. Il giovane americano dell’Illinois aveva trovato qui il suo saldo approdo spirituale, al sicuro dai clamori di tanti suoi ricchi connazionali.

Divorava letteralmente i libri della piccola biblioteca anglo-americana di Sylvia Beach in Rue de l’Odéon, una simpatica libraia che gli prestava di tutto, riscuotendo soltanto quanto la poteva pagare. Il nome era di quelli che si ricordano: “Shakespeare and Company”.

La libreria Shakespeare & Company

La Beach aveva pubblicato a proprie spese l’”Ulysses di Joyce che nessun editore aveva accettato prima, e lo scrittore era diventato un “habitué” della sua libreria piena di scaffali, cataloghi, fotografie alle pareti.

L’anno seguente Hemingway era redattore nella rivista ufficiale degli americani a Parigi, la “Transatlantic Review”, e intanto terminava il suo primo romanzo dal titolo “Il sole sorge ancora” (o anche Fiesta”), nel quale era in evidenza un altro aspetto del suo mondo di scrittore: la Spagna delle corride, del sole, della “Feria de Pamplona” coi tori per le strade. Era un settore che non gli avrebbe evitato delle critiche, in parte legittime: ma anche questa “Fiesta” lascia affiorare di continuo dei ricordi di Parigi, vera fonte della sua ispirazione, nella ricerca continua d’una definizione di se stesso che, sotto la vernice del “duro” non potrà mai nascondere una natura sentimentale piena di ansie e di dubbi, sia fanciullo col padre lungo i fiumi del Kentucky, o soldato nel caos di Caporetto, o cacciatore in Africa e pescatore a Cuba: una specie di copia del ragazzo Huck Finn, fantasioso ribelle creato dal suo idolo Mark Twain.

L’altro americano

Nel 1924 giungeva a Parigi Francis Scott Fitzgerald. Anche lui aveva con sé la moglie Zelda e la loro bambina Scottie, ma erano ricchi, come ho accennato prima. Lui veniva dal Minnesota e aveva studiato a Princeton, una delle università più esclusive degli Stati Uniti. Aveva subito cercato di emergere collaborando al giornale degli studenti e pubblicando, ancora giovanissimo, “Di qua dal Paradiso”, un romanzo che gli creava subito una fama di scrittore originale e un po’ decadente, descrivendo appunto le esperienze d’uno studente di Princeton.

E se il Middlewest era il suo luogo di origine, la sua destinazione doveva essere, nelle sue aspirazioni, qualcosa di splendido, di aristocratico, un posto dove tutti sarebbero stati, come lui e Zelda, belli, liberi e sofisticati. La sua narrativa e la sua vita avrebbero finito per presentare un parallelo molto evidente, corrispondendo la problematica di una gioventù alla ricerca d’una perfezione irraggiungibile. Da ciò il desideri di primeggiare fra gli studenti di Princeton: e quando si era arruolato nell’esercito, la sua invidia per quelli che erano andati al fronte, sfidando il pericolo, si era fatta pungente, visto che a lui era toccata solo una squallida esperienza di caserma, rievocata con sarcasmo nel suo romanzo “Belli e dannati”.

Nel 1925, il suo capolavoro: “Il grande Gatsby”, nel quale si delinea la dorata tragedia d’un amore impossibile del protagonista per una donna fatua, legata ad un matrimonio di convenienza, nel mondo ovattato ed egoista delle ricche ville di Long Island, che lo porta verso una morte senza significato, solo per il banale errore d’uno sprovveduto meccanico che l’ha confuso con l’amante della moglie…

Questo Gatsby ha accumulato una fortuna con l’unico scopo di riconquistare la bella Daisy, suo grande amore di gioventù: delle proprie ricchezze e della loro discutibile origine gliene importa ben poco. E Fitzgerald, raccontandoci le delusioni e poi la morte “sbagliata” del suo personaggio, ci introduce nell’epoca degli anni ’20 — ’30 che qualcuno avrebbe definito “The Jazz Era”, l’epoca del jazz, inteso solamente come un simbolo di superficiale svago per ricchi.

La Parigi del dopoguerra cominciava a rivelarsi una sede ideale per questa gente, in buona parte giovani e occupati a spendere denaro, a consumare alcool, a non avere alcun ideale. C’è un racconto di Fitzgerald, “Babilonia revisited”, uno dei suoi più severi e realistici, dedicato a uno dei tanti protagonisti di questo periodo: “Rammentò banconote da mille franchi regalate ad orchestre per aver suonato un singolo pezzo, banconote da cento franchi messe nelle mani d’un portiere per aver chiamato un tassì. Ma quel denaro non era stato dato via per nulla. Era stato dato, anche nel caso d’una somma sperperata nel modo più folle, affinché gli fosse concesso di non ricordare”.

Questa vita richiedeva un dispendio di energie morali e materiali. Scott ne era al centro, e ciò gli piaceva, gli piaceva la popolarità. Ma la mancanza di sicurezza lo obbligava a procurarsi modi sempre nuovi di affascinare la gente, e questo sforzo lo esauriva. Scott e Zelda si stavano lentamente bruciando al fuoco della loro vita disordinata, ed erano come lo specchio reale di quel decennio incosciente.

Fu nel famoso salotto di Gertrude Stein in Rue de Fleurus che Fitzgerald e Hemingway ebbero l’occasione di conoscersi e stimarsi, pur tanto diversi come uomini e come artisti. La decadente raffinatezza di Scott e la sua incerta salute davano un certo fastidio al sanguigno Ernest, ma il loro rapporto sarebbe sempre stato di stima e amicizia anche se, dopo Parigi, non si sarebbero più incontrati.

Alice Toklas e Gertrude Stein nel salotto di rue de Fleurus

La loro reciproca simpatia si sarebbe resa molto salda durante un viaggio fatto insieme da Lione a Parigi su un’automobile di dubbia resistenza che Scott doveva riportare a casa dopo un guasto. Non potevano esistere due caratteri più diversi: “Lo conoscevo da due anni quando riuscì a pronunciare correttamente il mio nome”, ricorda Hemingway, ed entrambi bevevano parecchio.

Poi per Scott sarebbe arrivato il crollo: la crisi del ’29, la progressiva pazzia di Zelda, il mediocre approccio col mondo del cinema, la malattia e la morte a Hollywood, regno di tutte le false illusioni. Aveva poco più di quarant’anni.

Parigi senza fine

Tanti altri personaggi della cultura americana o anglo-americana partecipavano in quegli anni alla “festa mobile” parigina. Il centro di richiamo era sempre l’ospitale appartamento di Rue de Fleurus 27, dove le due illustri zitelle Stein e Toklas vivevano la loro tranquilla vita coniugale. Erano state “molto amabili e cordiali”, racconta Ernest, “e ci piacquero, anche se l’amica era spaventosa”.

Le rispettive abitazioni non erano tanto lontane, e le due coppie ebbero modo di scambiarsi molte altre visite, soprattutto nella confortevole casa Stein. Le conversazioni fra Ernest e Gertrude erano sempre vivaci e lei, più anziana, gli faceva da maestra di vita.

Qualche volta, con un po’ più di denaro in tasca, andavano alle corse dei cavalli, e se vincevano c’era in programma il ristorante dove potevano incontrare Joyce con la moglie e i figli. Lo scrittore aveva già dei problemi alla sua vista, ma proprio in quel periodo Sylvia Beach era riuscita a fargli pubblicare “Ulisse” per la sua “Shakespeare & Company”. Un’impresa notevole.

La Beach era sempre molto affettuosa con Hemingway, ma lo trovava troppo magro, e quando poteva gli faceva qualche prestito (non solo di libri, ma di soldi) che giovava non poco allo scarso bilancio degli Hemingway, visto che il bambino cresceva a vista d’occhio.

Frequentava il salotto della Stein un altro singolare emigrato americano, di nome Ezra Pound: un temperamento acuto e talvolta imprevedibile. Era giunto a Parigi abbastanza giovane, ed era essenzialmente un poeta, capace di contaminare degli spunti orientali ed ellenistici con altri caoticamente moderni. Stava già elaborando la sua opera più celebre, i “Cantos”, che avrebbe portato avanti per buona parte della sua tormentata esistenza spaziando tra la poesia e la cultura, creando una “summa” anche disomogenea, ma di singolare grandezza lirica, un vero poema.

Thomas Eliot, un altro americano trasferito in Inghilterra e diventato poi cittadino inglese, dedicava a Pound tutta la sua opera definendolo “Il miglior fabbro”. E tale era lui: un costruttore di poesia, inesauribile e talvolta bizzarro, un vegliardo pittoresco in esilio nel Veneto dopo le amare esperienze vissute nella seconda guerra mondiale e una prolungata detenzione politico-psichiatrica in una casa di salute in America.

Citando Thomas Eliot, bisogna almeno ricordare che la sua notevole opera poetica era stata premiata con il Nobel nel 1948. Ma Pound aveva avuto tanti altri ammiratori e analoghi detrattori, come spetta agli artisti.

L’elenco potrebbe continuare, ma la nostra “festa mobile” diventerebbe un contenitore superfluo di ricordi legati a Parigi.

E allora concludiamo con un piccolo itinerario da ripercorrere sul filo della memoria: partendo dal Panthéon e dalla piazzetta vociante di Hemingway, attraversiamo il grande giardino di Luxembourg, prendiamo la vicina Rue De Fleurus, alzando un momento gli occhi al numero 27, verso le finestre di Mademoiselle Gertrude Stein, “severa e matronale” come appariva ai suoi giovani ospiti. Poi scendiamo fino alla Place de l’Odéon per salutare la cara Sylvia Beach, cogliendola magari in discussione con un bizzarro signore occhialuto che si chiama James Joyce, in visita alla libreria di tutti gli americani. Poi, lungo Boulevard S. Michel, sfioriamo i tavolini affollati dei caffè e delle birrerie fino alla Senna, oltre la quale si apre la Parigi di lusso, dove magari un altro giovane americano un po’ sperduto sta inseguendo un suo irraggiungibile sogno di perfezione, e si chiama Scott Fitzgerald…

Congedo da Parigi

Non siamo stati a caccia di fantasmi. è solo il ricordo affettuoso di un tempo già tanto lontano, e a questo punto diamo la parola, inevitabilmente, all’autore di “Festa Mobile”: “Per Parigi non ci sarà mai fine. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, e ne valeva sempre la pena. Qualunque dono tu le portassi ne ricevevi sempre qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”.

La lapide sulla casa parigina di Hemingway

“If you are lucky enough to have lived in Paris as a young man, then, wherever you go for the rest of your life, it stays withyou, for Paris is a moveable feast”


(Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna, perché Parigi è una festa mobile)


Ernest Hemingway a un amico, 1950


Bibliografia e iconografia (il segno indica la presenza di fonti iconografiche)


Marcus Cunliffe, Storia della letteratura americana, Einaudi, Torino 1970


Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962


Carlo Izzo, La letteratura nordamericana, Sansoni, Firenze 1967


Claudio Gorlier, Storia della letteratura nord – americana, F.lli Fabbri Editori, Milano 1970


Ernest Hemingway, Festa Mobile, trad. V. Mantovani, Medusa Mondadori, Milano 1957 


Ernest Hemingway, A Moveable Feast, Arrow Books, Random House, London 1996


Ernest Hemingway, Il sole sorge ancora (Fiesta), Mondadori, Milano 1957


Ernest Hemingway, Le nevi del Chilimangiaro, sta in 49 racconti, I Millenni, Einaudi, Torino 1956


Franco Furoncoli, Parigi senza tempo: viaggio fotografico da “Festa Mobile”, Idea Libri, Rimini 1988 


Fernanda Pivano, “Mostri” degli anni ’20, Il Formichiere, Milano 1976


Fernanda Pivano, Amici scrittori, Mondadori, Milano 1997


Fernanda Pivano, Hemingway, Rusconi Editore, Milano 1985 


Arthur Mizener, Fitzgerald, Leonardo Editore, Milano 1990 


Piero Pignata, Francis Scott Fitzgerald, Borla Editore, Torino 1967 


Carla Marengo Veglio, Invito alla lettura di Joyce, Mursia, Milano 1977


Anthony Burgess, Hemingway, Editoriale Nuova, Milano 1983 


Gertrude Stein, C’era una volta gli americani, Einaudi, Torino 1979

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