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Musica

Duke Ellington: l’orchestra come strumento musicale (I)

Breve premessa con alcuni titoli nobiliari

La storia della musica jazz, nel suo lungo percorso attraverso il secolo finito da poco, conta su molti creatori interessanti, spesso geniali. E proprio su di loro è basata la fama che questa musica si è creata in tutto il mondo.
Alcuni di questi raggiunsero la notorietà e il successo per la loro bravura come strumentisti ma anche come autori di musiche dall’originalità indiscutibile. Tre di questi ebbero uno speciale privilegio: quello di vedere il proprio nome accompagnato da uno speciale titolo amichevole e spiritoso. Fu così che la grande vicenda del jazz poté contare fra i suoi protagonisti un Re, un Conte e un Duca…
Il primo fu Joe “King” Oliver, che negli anni 20 faceva squillare la sua cornetta nei locali più o meno perbene di New Orleans, per di più ospitando, in seguito, un suo giovane allievo di nome Louis Armstrong.
Oliver ebbe il suo titolo regale come un riconoscimento dovuto dai suoi ascoltatori entusiasti, già al termine del primo decennio del Novecento. E rimase per tutta la vita King Oliver:. quel suo primo nome “Joe” non lo ricordò più nessuno.
William Basie era sceso a Kansas City dal Nord (era nato a New Jersey presso New York), e il titolo di “conte” gli era stato creato da un presentatore radiofonico che voleva rendere omaggio alle sue qualità di pianista e direttore d’orchestra. Come per il caso di Oliver, nessuno lo chiamò mai più col suo vero nome: divenne “Count Basie” e tale rimase per tutta la vita.
Avevo sempre pensato che, seguendo la tradizione, Ellington avesse ricevuto il suo titolo di “duca” da qualcuno dei suoi primi entusiastici ammiratori (ed erano in tanti). Errore: il ragazzo che si chiamava Edward Ellington aveva ricevuto la “nomina” da un vicino di casa che lo aveva preso in simpatia per il suo aspetto garbato e per la sua ottima educazione. Da quella volta rimase Duke per sempre, e continuarono a chiamarlo Edward soltanto in famiglia.

“I love you madly”

Ho avuto la fortuna di essere spettatore a ben quattro concerti di Duke Ellington con la sua orchestra nel corso degli anni sessanta. Veniva sempre volentieri a Milano — non che gli mancassero altrove i suoi devotissimi ammiratori — ma avevo, non so bene per quale motivo, l’impressione che qui si sentisse di più a suo agio.
Mi sembra di vederlo. Talvolta, al levarsi del sipario, c’era già la sua orchestra in bell’ordine su due file e lui non c’era ancora: gli piaceva molto fare la sua “entrée” da protagonista, e magari i primi accordi li suonava in piedi, battendo con energia i tasti del pianoforte dal quale aveva saputo estrarre una quantità di capolavori. Dava subito il segnale di partenza, ed erano sempre le note di “Take the A train” che aprivano il concerto: di questo treno speciale parleremo ancora, e non poco. Poi, da seduto, dirigeva l’orchestra con brevi cenni d’una mano e sempre sorridente, come per dimostrarsi felice della sua stessa musica (era un ottimo pianista) e della precisione con cui gli rispondevano i suoi fedeli suonatori.
“Suoi” lo erano nel vero senso della parola. Impossibile pensare oggi a quei dodici o tredici uomini della sua orchestra senza rivedere ancora, al lato destro, il robusto Harry Carney con il suo sassofono baritono e poi, al centro, Johnny Hodges più minuto e sempre serio, un re del sassofono alto, oppure Juan Tizol che suonava il trombone a pistoni. E tutti gli altri, come dimenticarli, erano i componenti di quell’unico strumento indivisibile che si chiamava “The Duke Ellington Orchestra”.

Parleremo ancora di loro: avevano suonato in vari teatri di Milano: al Lirico, al Dal Verme, all’Odeon, e una volta anche al Conservatorio, sempre con un folto pubblico in perenne ammirazione. Agli spettatori Ellington rivolgeva, alla fine del concerto e degli applausi, il suo saluto con la frase “I love you madly”, vi amo follemente. L’affermazione era sincera anche se convenzionale (oggi si direbbe un po’ “ruffiana” ), ma lui la scandiva su un tono di voce da insuperabile Maestro, anzi, da Duca…
Racconta il mai abbastanza rimpianto Arrigo Polillo, nel suo delizioso “Stasera Jazz”: “Altro che duca! Ma forse sì, era un duca di altri tempi: dovunque andasse si portava il castello con sé e anche la sua Corte, in cui ammetteva generosamente solo qualche avventizio. La sua prima colazione, ad esempio, che era sempre modesta, era anche una sorta di rito all’amicizia: proponeva all’ospite “Cominciamo la giornata insieme”. E non chiedeva niente a nessuno, non pretendeva neppure di venire servito…
Le sue presentazioni dei concerti con un discorsetto erano dei piccoli capolavori di affascinante istrionismo”.


Gli inizi d’un giovane borghese nero

Era nato a Washington il 29 aprile del 1899. La sua infanzia, diversamente da quella di tanti altri uomini del jazz (pensiamo solo a Armstrong) non era affatto trascorsa nella miseria di qualche ghetto metropolitano: la famiglia apparteneva alla “middle class” di colore della capitale, gente tranquilla e con pochi problemi . Il padre James Edward (“G. E.”) era stato maggiordomo alla Casa Bianca, e poi si era impiegato ad un certo livello negli uffici ministeriali. La madre Daisy, una dolce signora, era adorata da questo suo ragazzino assolutamente “perbene”.
Entrambi i genitori suonavano il piano, e il piccolo Edward cominciò a prendere lezioni ai musica a sette anni anche se, come era naturale, veniva molto attratto dal baseball. Aveva anche una discreta predilezione per la pittura e il disegno, e si dedicò allo studio senza difficoltà.
Crescendo, aveva cominciato girare un po’ per i “Burlesques” , gli spettacoli di varietà musicale che erano tanti nella capitale. Lo interessavano moltissimo i pianisti di “Ragtime” che gli fecero scoprire quel ritmo di suoni “Rag”, cioè spezzati,che era praticamente come una porta d’ingresso al Jazz.
Uno di questi, James P. Johnson, gli fece da guida verso la nuova musica:ascoltandolo imparò tutto quello che mai avrebbe potuto conoscere in un Conservatorio, e glie ne fu sempre riconoscente Riuscì anche a comporre il suo primo semplice motivo: “Soda Fountain Rag”, il Rag del banco delle bibite, un titolo decisamente giovanile e spiritoso.
Fra i sedici e i diciotto anni lavora da fattorino in un ministero, dipinge su ordinazione dei programmi per concerti e continua a dedicarsi al suo pianoforte in tutti i. momenti liberi. Così riesce a raggiungere lo scopo di una modesta autonomia economica, quanto gli basta, a diciannove anni, per sposare una sua ex compagna di scuola, di nome Edna Thompson. E il loro Unico figlio, Mercer, viene al mondo l’11 marzo 1919.
La sua preparazione musicale prosegue, ma ha ancora bisogno di progressi.
Così la sua ferma volontà, insieme alle pressanti esigenze della sua nuova famiglia, lo aiutano a mettere insieme la sua prima “orchestra” , un gruppetto di giovani e fedeli amici alle prime armi come lui, che si autoproclamano “The Washingtonians”.

Alcuni di loro resteranno con lui per molti anni, come per esempio il valido sassofonista Otto Hardwick. Si unisce al nuovo complesso dopo un po’ anche il batterista Sonny Greer, che viene da New York e che racconta agli amici le novità della vita musicale di Harlem: e questo fa maturare una decisione che era già prossima a realizzarsi: i “Washingtonians” nel 1922 partono per la grande metropoli.
Sono un semplice complesso di cinque volonterosi, e li ha chiamati a New York un certo Wilbur Sweatman che ha una sua troupe da “Vaudeville”. Il genere è poco adatto a loro, ma è pur sempre una porta d’ingresso a Harlem.

Verso l’orchestra

Le cose a New York non vanno molto bene. Poco lavoro e quindi pochi soldi; dopo qualche altro tentativo, riescono appena a pagarsi il viaggio di ritorno a Washington. L’anno dopo,nella primavera del ’23, arriva nella capitale il famoso pianista e fantasista Fats Waller, che assicura agli sfortunati amici una sistemazione migliore a New York. Anche questa volta, partenza e delusione con il lavoro, ma per breve tempo: vengono assunti al Kentucky Club, all’angolo della 49a Strada con Broadway, appena restaurato dopo un incendio. È un locale accogliente e con una clientela piuttosto varia: si tratta solo di mettersi all’ opera con il massimo impegno.
Come prima cosa è necessario per Ellington che aumenti l’organico di questi Washingtonians finalmente sistemati a New York. E poi bisogna assolutamente creare qualcosa di nuovo per mettersi in evidenza nel campo vastissimo dei jazzisti locali, che suonano e si fanno notare ovunque. Scriverà nella sua autobiografia: “Fu proprio al Kentucky Club che la nostra musica assunse colori nuovi e nuove caratteristiche”.
Il successo arriverà in rapida progressione. L’orchestra, col nuovo (e un po’ lungo) nome di “Duke Ellington and His Kentucky Club Orchestra” rimarrà stabile per oltre quattro anni, accettando talvolta anche delle brevi scritture fuori sede.
L’intento di Duke è creare con i suoi solisti un vero tipo di nuova musica, con un jazz più aspro e scandito, che verrà poi chiamato “Stile Giungla”, pur mantenendo, abilmente trasformato ma presente, anche il delicato linguaggio dei “Blues”. Queste note rumorose e dolci nello stesso tempo piaceranno moltissimo al pubblico esigente di Broadway e dintorni.

Dunque il complesso doveva aumentare notevolmente il numero dei suoi vari componenti. E il primo ingresso fu quello di Charlie Irvis, un buon suonatore di trombone: introdusse il singolare uso della sordina, cioè di qualcosa da applicare alla bocca dello strumento per modificarne il suono, Usando dapprima una specie di tappo di gomma, un “plug” (da cui un suo soprannome).
Un avvenimento per l’orchestra fu poi l’arrivo di Bubber Miley, uno dei migliori trombettisti degli anni ’20, con il suo strumento usato magistralmente alla nuova maniera. E subito dopo entrò anche Joe Nanton detto “Tricky Sam”, un eccezionale suonatore di. trombone al posto di Irvis che aveva cambiato orchestra.
Nanton e Miley (dice Duke nelle sue memorie) “divennero mi grande tandem, adattandosi l’uno all’altro come un guanto alla mano”. Entrambi maestri nell’uso delle sordine perfezionate tecnicamente, crearono l’uno il “growl”, cioè dei suoni ruvidi e gorgoglianti, e l’altro l’effetto “wa-wa” con una serie di suggestivi toni di voce quasi umani.
Nasceva così quello “Stile Giungla” con la sua grande suggestione sugli ascoltatori, perché sembrava introdurre nell’atmosfera brillante dei ritrovi notturni l’eco di terre lontane e selvagge.
E non era tutto. Bubble Miley creava in quei giorni la “Black and Tan Fantasy” (Fantasia in nero e marrone) un brano che divenne famoso in diverse versioni, le prime che comparvero in incisioni su disco. E l’orchestra si manifestava sempre più come “strumento” nelle mani di un Ellington ormai avviato al pieno successo con questi suoi giovani esecutori.
Nella seconda metà degli anni 20 vi furono altri arrivi. Da Boston vennero nel ’27 Harry Carney e l’anno seguente Johnny Hodges. Carney aveva un po’ meno di diciotto anni e ne avrebbe trascorsi altri quarantasei con il Duca, spegnendosi pochi mesi dopo di lui: e la storia della sua esistenza fu anche quella della sua orchestra. Suonava il sassofono baritono, uno strumento dalla voce profonda e armoniosa: impossibile non riconoscere subito i suoi “Attacchi”. Era legato a Ellington da una profonda amicizia, e spesso si consultavano tra loro per qualche decisione importante.

Johnny Hodges, detto “Rabbit” perché aveva una certa rassomiglianza con un coniglio, si accostò al record di durata di Carney, restando con l’orchestra per quarant’anni. Aveva una purezza di suono e una sicurezza di esecuzione incomparabili: il suo sassofono alto era definito “la voce elegante” del complesso. Era molto serio e riservato, un vero signore.


“Cotton Club”

Il pubblico cominciò a rendersi conto che l’orchestra di Ellington si stava orientando su un tipo di musica quasi “da concerto”: gli impeccabili solisti non avevano messo da parte lo stile giungla , ma lo alternavano con altre esecuzioni di un particolare “mood” , uno stato d’animo più rivolto alla melodia e al sentimento. Gli splendidi risultati si chiamavano “Creole Love Call” e “The Mooche” (il vagabondo), e soprattutto “Mood Indigo” (sentimento color indaco):quest’ultimo pezzo con una sorprendente combinazione di tromba, trombone e clarinetto.
Tutto questo avveniva in coincidenza con un importante cambiamento: nel dicembre del 1927 l’orchestra lasciava il “Kentucky” e si trasferiva al “Cotton Club”, il più ricco “Night” di Harlem dove aveva suonato King Oliver, il “re” di New Orleans dei tempi d’oro.

Era d’obbligo che per un locale di questo genere vi fosse pure qualche intermezzo di varietà. con splendide ballerine di colore, ma soprattutto vi erano ospiti di riguardo: compositori come Gershwin e Strawinsky, o direttori d’orchestra come Stokowsky, e anche colleghi del Duca,come Paul Whiteman e Tommy Dorsey, conduttori d’un altro genere di complessi: erano quelli dello Swing, della musica ritmata, “dondolante”. Erano comunque tutti d’accordo nel dichiararsi grandi ammiratori di Ellington e di questa “Cotton Club Famous Orchestra” , il cui nome figurava ormai su centinaia di dischi.
Nel 1929 Bubber Miley, per motivi di salute, aveva lasciato l’orchestra ed era entrato un nuovo trombettista, Cootie Williams, portatore di uno stile più moderno. Era anche un vero maestro della tromba “libera”, senza sordina: qualche anno dopo, Duke gli avrebbe dedicato una sua splendida composizione, il “Concerto for Cootie”. Rimase nell’orchestra per undici anni, poi si assentò per parecchio tempo, e infine fece un ritorno definitivo nel ’62, rimanendo con Duke fino alla sua scomparsa nel ’74.
Un altro prezioso contributo all’orchestra venne da Barney Bigard, un solista di clarinetto un po’ più anziano, anche lui già impegnato in precedenza a New Orleans e Chicago. Era stato il co-autore, con Duke, di “Mood Indigo”, e aveva suonato con King Oliver e Armstrong. Tuttavia il periodo di parecchi anni trascorso con Ellington sarebbe stato ricordato da tutti come il suo migliore.
Per completare l’elenco dei solisti che furono impegnati con la “Famous Orchestra” del Cotton Club va ancora ricordato qualche nome. Intanto c’era Juan Tizol, nato a Portorico, che era già presente da un paio d’anni.

Suonava il trombone a pistoni, meno usato nel jazz rispetto al consueto strumento “slide” a struttura scorrevole, e il suo stile si distingueva alquanto dai suoni aspri di molti suoi colleghi. Rimase col Duca per quindici anni, e nessuno ha mai dimenticato questa sua “voce” nel lungo inizio di “Caravan” , un brano che non potrà mai avere un tramonto, d’un esotismo languido e struggente.
Nel 1932 il settore degli “ottoni” aveva accolto un altro solista di trombone, del tipo “slide” , che si chiamava Lawrence Brown detto “The Deacon” il diacono, perché era serio e riservato. Sapeva suonare il jazz melodico ma anche il più incisivo, vero padrone d’una tecnica che gli permetteva qualunque effetto.
Dopo gli arrivi del 1932 il prestigio dell’orchestra non offriva più dubbi: le caratteristiche musicali degli strumenti (sei ottoni, quattro sassofoni e una batteria, con il preciso appoggio pianistico del “leader”) permettevano a Ellington la realizzazione delle sue idee più mature. In più, una voce (umana, questa lta), quella di Ivie Anderson. Era una ragazza di bell’aspetto, con una seria preparazione: nata in Oklahoma,era cresciuta in California, e fu la cantante più sofisticata che il jazz avesse ospita-to da lungo tempo. Aveva fatto molte esperienze in locali notturni e riviste, ma fu con Ellington che diede il meglio della sua raffinata eleganza vocale e del suo modo vivace e signorile di presentarsi in pubblico.
Anche Ivie rimase a lungo con l’orchestra, dai 1931 al ’42 quando, colpita da un attacco acuto di asma fu costretta a interrompere il suo lavoro. Morì nel 1946, e fu a mio avviso la migliore cantante che ebbe Ellington,all’altezza dei suoi eccezionali suonatori. Ne ebbe ancora altri, magari qualche ospite famoso di passaggio, ma è opinione comune che non pochi avessero un ruolo fuori posto. C’era stata una sola Ivie Anderson.


La “Swing Era”

Nel 1933 Ellington prende congedo dal Cotton Club. È nel pieno del suo successo, e la vendita dei suoi dischi nel mondo ha raggiunto livelli straordinari. Accetta una proposta per la sua prima tournée europea, e intanto ha rafforzato la sezione ritmica del suo complesso aggiungendo alla batteria un contrabbasso e una chitarra o un “banjo”. È con loro anche Ivie Anderson, portando così la formazione a quattordici componenti.
L’inizio della trasferta è al Palladium di Londra, tappa obbligata per tutti gli ospiti più importanti dello spettacolo mondiale, e ai concerti non manca qualche membro della famiglia reale,appassionato di questa musica.
L’orchestra rimane per oltre un mese in Inghilterra e poi prosegue in Francia e Olanda. All’inizio Ellington orienta il programma su un repertorio di motivi popolari in Europa, troppo commerciali, e questo non piace:non si tratta d’una orchestra di semplici esecutori. Immediato l’aggiornamento del programma sui grandi temi del Duca, con pieno consenso del pubblico che si era sentito sottostimato.
Dopo Londra, Parigi. E qui le scene di entusiasmo si ripetono: il locale è la “Salle Pleyel”, un altro luogo consacrato a questi concerti. Poi una breve sosta in Olanda e il rientro in America. Scriverà Ellington: “Tornammo in patria pieni di euforia, soltanto in piccola parte attribuibile allo champagne…”.

In America lo attendono moltissime incisioni e poi una tournée negli stati del Sud. Subito dopo si farà avanti anche il cinema: l’orchestra prende parte nel 1934 a due pellicole: “Murder at the Vanities” (delitto al varietà) di Mitchell Leisen, e “Belle of the Nineties” di Leo Mc Carey con Mae West, la diva provocante che l’anno prima aveva interpretato “I’m no angel”.
Sui rapporti fra Ellington e il cinema negli anni successivi avremo ancora qualcosa da dire.
Nel 1937 e, dopo un breve intervallo, nel ’38, l’orchestra ritorna al Cotton Club che si è spostato nei pressi di Broadway. Ma proprio in quel periodo la vita del “Duca” è segnata da due tristi eventi: in un paio d’anni muoiono prima suo padre e poi la madre , ed è particolarmente traumatico per lui questo secondo lutto.
È anche confermata in modo definitivo la separazione dalla moglie Edna: la vita privata di Ellington è sempre piuttosto scarsa di informazioni, ma si sa d’una compagna di nome Beatrice Ellis che gli resterà accanto per un lungo tempo. È nota comunque la rispettosa galanteria che ha sempre dimostrato alle signore: un fatto molto apprezzato dalle interessate.
La produzione discografica dell’orchestra si fa sempre più intensa, e non è possibile elencare la quantità di motivi che riscuotono un continuo successo.
Limitiamoci a qualche titolo come Solitude, Sophisticated Lady, Daybreak Express (un tema “ferroviario” al quale ne seguirà un altro famosissimo, come vedremo). E c’è anche “Reminiscin’ in Tempo”, una composizione in quattro parti della durata insolita di ben dodici minuti, che provoca reazioni contrastanti (anche se oggi è considerato uno dei massimi capolavori del Duca).
Si è ormai, diffusa l’abitudine di chiamare “Swing Era” questo periodo, e le discussioni sono in pieno fermento. Questo nuovo stile, con l’orchestra di Benny Goodman come massimo esponente, sembra minacciare non certo in campo artistico, quanto piuttosto in tema di popolarità, la supremazia indiscussa di Ellington, “Reminiscin’ in Tempo” provoca da varie parti l’accusa di “mancanza di vero spirito del jazz”. E per tutta risposta El1ington si dedica con insistenza ad alcune interessanti composizioni, come la serie dei “concerti” per alcuni dei suoi solisti: “Clarinet Lament” per Barney Bigard, “Echoes of Harlem” per Cootie Williams, “Yearning for Love” per Lawrence Brown, e altri ancora. Sono tutti dei brani di grande chiarezza formale e di valida tecnica strurnentale, ed è ovvio che Ellington non è affatto fuori dal jazz e vi è più che mai “dentro”, secondo il suo preciso punto di vista nel quale lo “swing” è di grande importanza, ma non è sufficiente.
E intanto è in arrivo la grande novità del 1939: sulle note di “Take the A Train” entra in scena Billy Strayhorn.


Prendendo il treno “A”

Si erano conosciuti a Pittsburgh nel dicembre del 1938. Mercer Ellington aveva saputo di questo giovane promettente musicista, e l’aveva invitato a suonare qualcosa in presenza di suo padre, in tournée con l’orchestra.
Billy Strayhorn aveva ventitre anni e faceva il barista in un “drugstore”. Aveva già una seria preparazione classica, ed era anche un buon compositore . Per di più aveva visto e udito l’orchestra di Ellington qualche tempo prima , con un’ammirazione senza limite.
Eseguì davanti a Duke una sua versione di “Caravan” e qualche altro pezzo, lasciandolo sorpreso per la sua facilità di espressione e la notevole personalità. In una successiva audizione gli presentò altre eccellenti composizioni, Come “Lush Life” (una vita eccellente), “Something to live for” (qualcosa per vivere) e “Chelsea Bridge”, un motivo che faceva pensare a Ravel.
Così ebbe inizio una lunga vicenda di collaborazione e amicizia, certamente eccezionale nella lunga storia del jazz. Hardwick e Green, due solisti dell’ orchestra, gli inventarono un soprannome buffo e affettuoso: “Swee’ Pea”, qualcosa come “Pisellino” perché era basso di statura e aveva un viso sorridente un po’ infantile, con due grossi occhiali. Si chiamava così il marmocchietto figlio di Popeye nella serie di “striscie” in voga in quegli anni come “paroliere” delle sue canzoni, ma poco dopo cominciò a farlo lavorare come arrangiatore delle musiche, con esiti felicis3imi. Divenne un collaboratore insostituibile per il Duca, ma anche un amico fraterno, un consigliere, un co-autore di parecchi suoi motivi. Nella sua autobiografia si può leggere: “quando si fa della musica, Ci sono molti punti nei quali va decisa la direzione da prendere, e ogni volta che io mi ponevo qualche problema mi rivolgevo a Strayhorn. Ne parlavamo insieme, e tutto diventava chiaro”. E Billy, a sua volta: “Immancabilmente ciò che Duke mi suggerisce concorda con la mia opinione. A volte componiamo in aereo fra New York e Los Angeles, e poche ore dopo l’arrivo la partitura è pronta e l’orchestra la può eseguire davanti al pubblico. Se poi qualcosa non va, apportiamo le modifiche, e la sera dopo il pezzo sarà. perfetto, almeno per noi”.
È sorprendente il fatto che i due scrivevano la musica con tecniche differenti, ma il risultato era sempre qualcosa di unitario, “con lo stesso feeling”, dicevano loro.
Strayhorn scriveva anche della musica in proprio, con la piena approvazione di Ellington, e in seguito avrebbe anche registrato diversi album di valore:alcuni suoi motivi sarebbero diventati celebri, come “Satin Doll” (bambola di raso), o “Passion Flower” e “Day Dream” , affidate all’esecuzione del grande sassofonista Johnny Hodges.
Nella produzione di Billy resterà un motivo memorabile fra i tanti: “Take the ‘A’ Train”, che sarebbe diventato la sigla dell’orchestra per sempre. Perché questo titolo? Lo spiega lo stesso Strayhorn: “Quando arrivai a New York stavano costruendo una nuova linea del Metrò: io abitavo proprio sul passaggio dove ce n’era anche un’altra che andava nel Bronx anziché a Harlem, e i passeggeri sbagliavano la direzione, specialmente nei primi. tempi. Poi venne finalmente applicato un cartello che diceva ‘Per Harlem prendere il treno A'”. E questa indicazione rimase per sempre: non sui muri della città, ma nel pentagramma del bravo Strayhorn. Ogni concerto aveva l’apertura su queste note che tutti conoscevano: un motivo semplice e piacevole, con poche battute iniziali e le sapienti variazioni dei solisti davanti a un Duca sorridente che batteva forte sui tasti del piano.
In quel momento speciale, sul treno “A” c’eravamo proprio tutti.

Per cinquant’anni l’orchestra di Duke Ellington fu unica nel suo genere. Nella loro maggior parte i suoi uomini costituirono per lungo tempo una specie di aristocrazia del jazz, quasi un mondo a sé.


Teniamo presente che un’orchestra di jazz non è una formazione musicale del tutto simile alla altre: non basta allineare degli strumentisti competenti o dei tecnici irreprensibili.


Bisogna che costoro siano dotati di personalità, possibilmente una personalità senza uguali.


Da questo punto di vista non vi furono, nelle migliori formazioni della storia del jazz, delle individualità così singolari come quelle che formarono il complesso di Ellington. Inoltre, il fatto che questi grandi solisti gli fossero rimasti fedeli per lunghissimo tempo, premise a Duke, vero alchimista del jazz, di mettere insieme ogni tipo di esperienza, incluse soprattutto quelle controindicate dagli accademici…


(Da Alain Pailler, in “Duke’s Place”, Paris, 2002)


Bibliografia e iconografia


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Idem, L’era dello Swing, i grandi maestri, EDT, Torino 1999


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Walter Mauro, Jazz e universo negro, Rizzoli Ed., Milano 1972


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Vittorio Franchini, E’ morto il jazzista Duke Ellington, “Corriere della Sera”, 25–5-1974


Giulio Confalonieri, Articolo su “Illustrazione Italiana” del 14–5-1950


Leonard Feather, Mercer continua, intervista a Mercer Ellington, “Musica Jazz”, Agosto-Settembre 1974

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