Lo spazio nella narrazione cinematografica tra “Sentieri selvaggi “e “Il pozzo e il pendolo”.
Sembra una riduzione eccessiva voler interpretare la fantascienza come un sottogenere del western, ma a livello di produzione bassa l’equazione è nota da sempre. Basta citare “Luna Zero Due” sceneggiato da un produttore che vi ha sempre fatto l’occhiolino come Michael Carreras; o il progetto a lungo accarezzato da Margheriti di mettere in scena una versione SF di “Ombre rosse”; o nella letteratura bassa un gioiello come “Le piantagioni di Venere” di John Bree (Gianfranco Briatore),Cosmo 25 (1959).Del resto, western e fantascienza hanno entrambi lo stesso rapporto nei confronti dello spazio: non lo usano. Un film emblematico di questo non-utilizzo dello spazio è “Sentieri selvaggi”. Non è un caso che alla nascita della rivista “Il falcone maltese”, Enrico Ghezzi avesse proposto come titolo/messaggio proprio “Sentieri Selvaggi” e che il suo discorso sul cinema sia una traiettoria browniana, ellittica, tangenziale. Un rapporto analogo a quello di Ethan con la propria casa. Abbiamo qui (in Ford come nella fantascienza)una visione precisa di un discorso cinematografico, un preciso utilizzo narrativo dello spazio: lo spazio è visto solo come luogo della narrazione, come luogo dove ambientare gli avvenimenti e gli incontri, un luogo, insomma, destrutturato. A questa visione fordiana dello spazio bisogna contrapporre, sempre all’interno del western, l’utilizzo effettuatone da Howard Hawks. L’analisi critica più fine dello spazio hawksiano è sicuramente la sequenza centrale di “Il signore del male”: il ragazzo cinese circondato dalle ragazze del demonio, circondate dagli altri scienziati, circondati dai barboni. E non è un caso che in questo film Carpenter firmi la sceneggiatura con lo pseudonimo Martin Quatermass, in un preciso riferimento (ed il film in un certo senso ne è un voluto remake) de “L’astronave degli esseri perduti”, un film (ed un regista)che condividono con Carpenter ed Hawks la stessa lettura dello spazio. La conclusione di entrambe le versioni (ma soprattutto in quella di Roy Ward Baker) è esplicita: esiste una tensione magnetica/elettrica ed è su questa tensione che si regge la tensione del racconto e il “the end” può essere realizzato solo come corto circuito. Allo stesso modo, la scena citata non è altro che la raffigurazione esplicita di matrioske di scatole di potenziale. E proprio in questa chiave elettromagnetica che Carpenter offre una esplicita lettura critica degli western di Hawks: “Rio Bravo” e “El Dorado” ma soprattutto “Rio Lobo” sono western “di interno” girati all’interno di una prigione intorno alla quale si svolge tutto l’avvenimento e dalla quale sono attratti tutti i personaggi. Esiste, insomma, una precisa complementarità nell’uso dello spazio come elemento narrativo tra Ford ed Hawks, tra Ethan e Cord, tra “Sentieri Selvaggi “e “Rio Lobo”…tra la fantascienza e l’horror.
Teo Mora
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