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Scrittura

Remandi de luse

Immagini d'epoca: San Canzian d'Isonzo, aratura

Uno degli ultimi libretti pubblicati nel 2002 dal Consorzio Culturale del monfalconese si intitola “Remandi de luse”: l’autrice è Marilisa Trevisan. Questa poetessa di San Canzian d’Isonzo è nata nel 1964 e si dedica alla poesia in dialetto bisiac dagli anni Ottanta, ottenendo vari riconoscimenti. 
Delle sue poesie immediatamente colpisce la lingua, dura per alcune sonorità tipiche di questo dialetto, ma allo stesso tempo nobile, quasi magica, perché ricorda un mondo scomparso. Il dialetto bisiac di Trevisan è infatti ricco e preciso, proprio, lo afferma la poetessa, come quello parlato dalla generazione dei suoi nonni qualche decennio fa. Nel corso del tempo e nel passaggio da una generazione all’altra, questo dialetto, come molti altri gettati nel nuovo millennio, è andato appiattendosi ed annacquandosi, verso un italiano regionale sul quale spesso agisce soltanto come sostrato. 
Marilisa Trevisan recupera dunque una lingua famigliare, che non viene quotidianamente parlata dai più giovani, ma è una lingua che la radica alle proprie origini, perché è ricoperta da una leggera patina di “vero”, che la poetessa riscopre attraverso la memoria. Il bisiac diventa spontaneamente la lingua della poesia, la sola che permette di conservare se stessi e il proprio passato, accarezzati da alcuni “remandi de luse”.
Parafrasando il Brevini ricordiamo che nel dialettale l’unico mondo accordato è quello del quotidiano, quello che viene affrontato giorno per giorno, dove la tragedia è tirare avanti. 
Così ancorata al presente, la poetessa si confronta con il proprio quotidiano, in un paesino dove la vita si mescola al ricordo, ai sogni, alla follia che con le sue misteriose danze pure non cancella il dolore. I sentimenti e gli stati d’animo della poetessa modellano un mondo di immagini nitide che disarmano il lettore per la loro potente semplicità, fatta di nuvole e canneti, dall’Isonzo e da un fuoco, dalla pioggia e dal sole, da vecchi oggetti abbandonati.

Ritratto di anziano davanti al fogolar

Chi sa ascoltare la poesia di Trevisan si rende subito conto che le descrizioni naturali non vogliono bucolicamente stilizzare un mondo, né proporne banali stereotipi. Gli elementi paesaggistici, le cose e gli oggetti (un armadio tarlato, una barchetta, un aquilone, le nuvole e la pioggia …) con il loro peso allegorico irrompono nella pagina poetica mettendo in scena una donna che resiste aggrappata ai propri sogni, stretta ai ricordi e colpita dal dolore. 
Così un vecchio secchio ammaccato, quello della nonna, va a rappresentare la poetessa che con le proprie speranze avvizzite, come quell’oggetto sa di “vero”, di stanco e sconfitto (“Piova de Luio”) ma continua a tirare avanti sapendo bene “como che passa ‘l dolor/ par cuntinuar a vivar” “come passa il dolore/ per continuare a vivere” (da “Lagrima”). 
Per esprimere questo dolore e questa speranza Trevisan usa in particolare il simbolo dell’acqua. L’acqua delle gocce di pioggia che, cadendo dalla grondaia sono come perle luccicanti di una collana (in Piova) o ancora quella della pioggia più in generale “ancoi /anca ‘l tenp / slava cun mi” (in “Piova de luio”), e quella del fiume che sporca e infanga ciottoli, tornando pulita solo nel mare (in “Pensieri negri”). È l’acqua del pozzo che come per magia si ricrea a mezzogiorno (in “Incant”), è danzare sotto la pioggia che lava il fango del peccato (in “Note de strighezi”) infine è l’acqua di un rubinetto che perde (in “Como armar carolà”).Gocce di dolore quindi che talvolta riverberano luce e speranza, ma continuano a cadere. 
Serpeggiando tra fantasmi e speranze, tra casalinghi distillati di dolore e amore, Marilisa Trevisan conclude questa sua raccolta con una lirica potente e disperata. Si tratta di una poesia dedicata al padre morto, vittima dell’amianto. Con prepotenza la storia entra in questo mondo di affetti e di speranze che fragili non si arrendono. Prepotente entra la morte: anonima si getta su chi impotente e inconsapevole vi resta invischiato. La poesia in dialetto diventa grido, silenzioso grido, di chi vinto è un calabrone che si fracassa la testa contro i muri. 
Assieme a Marilisa Trevisan, sappiamo che domani mattina continueremo a svegliarci come Rocco Spatu e a tirare avanti, forse cercando ognuno un “remando de luse”.

Isontino: gruppo di famiglia all'interno di una casa contadina — 1900 ca

Da “Remandi de luse” di Marilisa Trevisan

PIOVA

Piove sui copi vèci
covèrti de mus’cio.

Sora recordi smaridi,
le speranze semenade.

Ta la dolza friscura
se resenta l’ànema negra
che no olsa parlar.

Su l’oro de la gorna, picade,
le dioze de piova
perle bone
de ‘na longa colana
che luse.

PIOGGIA

Piove sulle vecchie tegole/ ricoperte dal muschio.// Sopra ricordi sbiaditi,/ le speranze seminate.// Nella dolce frescura/ si purifica l’anima nera/ che non osa parlare.// Lungo il bordo della grondaia, appese,/ le gocce di pioggia:/ perle buone/ di una lunga collana/ che riluce.

NOTE DE STIGHEZI

Vistirò par ti
stanote
satin e tui
e molarò
le streze
al to’ reciamo.

Solo par ti
zimigarà
la me danza
liziéra,
che sbrazise
la to voia
che me ‘ncadena 
‘ncora.

Note de strighezi
senza diman,
‘ncora
te me cate
a balar
soto la piova
che resenta
‘l pacioc’
del me pecà. 

NOTTE MAGICA

Sfoggerò per te/ questa notte/ sete e veli/ e scioglierò/ le trecce/ al tuo richiamo.// Solo per te/ ammiccherà/ la mia danza leggera,/ che accende/ la tua voglia/ che m’incatena ancora.// Notte magica/ senza domani,/ ancora/ mi sorprendi/ a danzare/ sotto la pioggia/che lava/ il fango/ del mio peccato.

Immagine articolo Fucine Mute

NOVI ZIEI

No parlo,

a volte
strènzo dolori
ta le man
serade
in garufi
de piera. 

Xe ‘l cor che parla

e me regala 
lagrème calde
che le desfa piere
ta’l me ‘ndar.

No me fiapirò

ta’l zito de noti amare
ciuciarò ‘ncora amiel
dai grani de ua
dei miei zorni

par zercar novi ziei.

NUOVI CIELI

Non parlo,// a volte/ stringo dolori/ nelle mie mani/ chiuse/ in pugni/ di pietra.// È il cuore che parla// e mi dona/ lacrime calde/ che sciolgono pietre/ lungo il mio cammino.// Non mi avvizzirò// nel silenzio di notti amare,/ succhierò ancora miele/ dagli acini d’uva/ dei miei giorni// per cercare nuovi cieli.

San Canzian d'Isonzo: rovine

POLVAR

Al ziel stanote 
me parla de Voi.

Me conta
quante rughe
de dolor

‘ncora

sulzinarà ‘l muso
de chi pianse
morti che mai dovarìa
esser stade cussì.

E novi sburlazi
a scotadè
sparnizarà

polvar de morte
e altre vite
le pagarà ‘l cont
de un velen
che no ga fine.

Como un scalabron 
matunì
smaco la testa
ta’l vero
del no poder far gnente

e ingrumo s’cese
che sanguàna dedi.

POLVERE

Il cielo questa notte/ mi parla di Voi.// Mi racconta/ quante rughe/ di dolore// ancora// aerano i volti/ di chi piange/ i morti che mai/ avrebbero dovuto/essere state così.// E nuovi venti/ all’improvviso spargeranno// polvere di morte// e altre vite/ pagheranno il prezzo/ di un veleno senza fine. // Come un calabrone stordito/ scaravento la testa/ contro il vetro/della mia impotenza// e raccolgo cocci/ che 
feriscono dita.

Silvio DominiQueste scelte linguistiche segnano così un preciso e cosciente distacco della lingua di Trevisan dalla tradizione poetica contemporanea in bisiac. Anche rispetto Silvio Domini, la cui lingua è molto colta e difficile, perché molto articolata dal punto di vista sintattico con continui ritorni ed incisi che costruiscono e rinviano ad una complessa visone filosofica, anche rispetto questo poeta nato nel 1922 quindi anche appartenente almeno a due generazioni prima della poetessa riesce a segnare una propria specificità e preziosità linguistica (ricordiamo ad esempio l’uso di dioze al posto del più comune gioze, …. Dove le prime parole corrispondono a quelle usate da Trevisan in “Remandi de luse” e le seconde da Domini in “Discolz pa i trozi de l’anema”, pubblicato negli anni Novanta). 

Già nel 1992 Trevisan comparendo in un’antologia poetica, “Maja Desnuda”, si distingueva da alcuni poeti dialettali per la sua ricchezza linguistica, mentre, nei testi di alcuni altri poeti, i termini usati erano così simili all’italiano che anche un lettore che non conoscesse minimamente questo dialetto non avrebbe incontrato alcun problema di traduzione.
Enrico Testa, in uno dei saggi raccolti in “Per interposta persona” (2000), riassumendo alcune delle caratteristiche della poesia italiana di fine secolo, parla di un uso di un repertorio di immagini e simboli che sempre meno fanno riferimento al mondo della natura, con il quale l’uomo, definitivamente inurbato, non ha più un legame diretto e spontaneo.

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