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Musica

Musica e immagine (IV)

2.3 Un’analisi del vocabolo

Immagine articolo Fucine MuteIn questo paragrafo la trattazione comincerà scindendo il vocabolo “videoclip” nei due elementi dai quali è composto –video e clip -, e proseguirà analizzando separatamente i significati di ciascuno dei due componenti. Si scoprirà che entrambi gli elementi del vocabolo composto, analizzati accuratamente, in tutte le loro sfumature, al di là del loro significato più ovvio e lampante, possono dare l’avvio a un insieme di spunti e considerazioni che portano a interessanti sviluppi. In seguito gli elementi “video” e “clip” verranno ricongiunti per scoprire che cosa viene alla luce dalla loro unione, quali significati possa assumere il vocabolo da essi composto: “videoclip”. Si dimostrerà perché sia riduttivo imporre a quest’ultimo un solo significato, e quanto invece sia produttivo prendere in considerazione tutte le sfumature semantiche associate ai due elementi che lo compongono. Limitandosi a prendere in considerazione un unico significato, infatti, si andrebbe a escludere tutta una serie di importanti aspetti connessi alla natura del videoclip, aspetti essenziali per la comprensione profonda del fenomeno.

Per quanto riguarda il primo elemento della parola composta “videoclip”, i problemi di attribuzione di significato sono relativamente pochi: “video” deriva dal tema del latino “videre”, di cui è propriamente la prima persona singolare del presente indicativo. Quindi tradotto letteralmente significa “io vedo”.
Inoltre il vocabolo “video”, considerato come primo elemento di parole composte, si riferisce a tutto ciò che è relativo alla ripresa, alla trasmissione e alla ricezione delle immagini televisive, e più in generale, ai sistemi e procedimenti relativi ai processi televisivi [1]. Infine, “video” può designare l’immagine stessa.

Immagine articolo Fucine MutePassando poi a “to clip” (l’altro elemento della parola composta) sorgono diverse complicazioni: primariamente esso significa “ritagliare, tagliare”. Un’ulteriore accezione vuole che “to clip” assuma il significato di “tenere stretto, attaccare”, cioè l’esatto opposto di “ritagliare, tagliare”. Da ultimo (in una sfumatura in realtà poco usata) può voler dire anche “ingannare”.

Un insieme di interrogativi sorge a questo punto: quale significato scegliere tra queste numerose sfumature? Quale è il più indicato? O meglio: ce n’è uno che è in assoluto il più indicato? Per quale motivo preferire un significato rispetto agli altri? E come giustificare la propria scelta?

Si può uscire da un tale stato di cose ammettendo il fatto che, a un primo significato ovvio, si possano aggiungere altre sfumature di significato che mettono ciascuna in rilievo aspetti diversi del fenomeno trattato. Tutte queste sfumature hanno pari grado di importanza e ciascuna di esse è significativa per un motivo diverso. Ma procediamo per gradi, mettendo assieme i due elementi della parola composta (procedendo come se si facesse una semplice addizione) e creando una prima griglia dei significati che nascono dalla loro unione. Si terrà costante il primo significato associato a “video”, e gli si sommeranno i vari significati applicabili a “clip”.

2.3.1 La prima griglia

Video, “io vedo” + to clip, “ritagliare, tagliare” = “vedo ritagliare, tagliare”.

Video, “io vedo” + to clip,”tenere stretto, attaccare” = “vedo attaccare”.

Le osservazioni da fare in proposito sono numerose. Per chiarezza, le considerazioni verranno suddivise e affrontate in due paragrafi distinti: il primo conterrà gli approfondimenti sul primo elemento della somma: “video”, il secondo quelli su “clip”.

2.3.1.1 “Io vedo”

Immagine articolo Fucine MuteInnanzitutto bisogna segnalare il fatto che il primo significato del verbo video, “io vedo”, (così come vedremo poco più avanti, ciascuno dei significati del verbo “to clip”) chiama in causa un particolare elemento dello schema della comunicazione teorizzato da Roman Jakobson [2]. In questo caso si tratta del destinatario del messaggio, ossia quel qualcuno per il quale e in base al quale è stato pensato e realizzato il videoclip. La prima persona singolare presuppone l’esistenza di un soggetto al quale il videoclip è diretto, di un soggetto che collabora alla costruzione del significato del videoclip e che ne decreta il successo. Lo sguardo in macchina, caratteristica comune a tutti i videoclip e chiara rottura contro una delle regole auree del cinema classico, ce lo ricorda costantemente [3].

Si tratta di un soggetto che dà letteralmente un senso e una ragione di esistere al videoclip: senza un destinatario al quale essere indirizzato il videoclip non esisterebbe [4]. Meglio, potrebbe esistere, ma non assolverebbe alla sua funzione primaria che è quella di rendere maggiormente nota di quanto fosse in precedenza (e quindi più facilmente vendibile) la traccia musicale alla quale è associato. Inoltre con “vedo”vengono chiamati in gioco il senso visivo e l’occhio, cioè l’organo percettivo che permette la fruizione di uno dei due elementi — le immagini — che costituiscono il testo finale del videoclip.

Il fatto che l’io di cui si è detto veda delle immagini associate alla musica ci porta a delle ulteriori considerazioni; volendo leggere in termini più ampi il fenomeno si potrebbe dire che l’io veda la musica, cioè qualcosa che originariamente è stato creato per essere fruito da un organo sensorio diverso: l’orecchio. Nel caso del videoclip, invece, si utilizzano entrambi i sensi simultaneamente: la vista si aggiunge all’udito e i due sensi procedono di pari passo nella fruizione del testo come espressione di audiovisione.

Si potrebbe constatare che, a seconda del contesto nel quale si trova lo spettatore, si sfrutti in modo maggiore un senso rispetto all’altro [5], o che il modo in cui il videoclip è fatto porti a focalizzare la nostra attenzione ora sulle immagini ora sulla musica. Ma questo non inficia la precedente osservazione che entrambi i sensi siano attivati contemporaneamente: mette solamente in maggiore rilevanza ora la funzione della vista ora la funzione dell’udito. Anche se si guarda con maggior attenzione (cioè si vede), si continua pur sempre a sentire. E se anche si ascolta con maggior attenzione, si guarda [6] pur sempre un “video”. A meno che non si decida di abbassare del tutto il volume della televisione, o di distogliere lo sguardo dallo schermo: ma in questi casi non si fruirà più di un videoclip, che è costituito per definizione dall’unione di musica e immagini e al fine di essere fruito audiovisivamente nel suo complesso. Nel primo caso, infatti, si avrà la visione di immagini deprivate, delle quali non sempre si capirà il senso; nell’altro si ascolterà semplicemente della musica, con la differenza che la fonte sarà la televisione (o il computer, giacché ultimamente i videoclip hanno cominciato a essere fruiti anche tramite questo mezzo), e non più la radio, talvolta con conseguente peggiore risoluzione.


2.3.1.2 “To clip”

Immagine articolo Fucine MuteLe immagini scelte per entrare a far parte del videoclip saranno “ritagliate” e inserite nel flusso audiovisivo. Per inciso, fino ad adesso ci si è limitati a coinvolgere solamente due degli elementi della comunicazione teorizzati da Roman Jakobson: emittente (chi ritaglia) e messaggio. (A essere ancora più precisi, si è tenuto conto solamente di un elemento del messaggio — le immagini -, non considerando ancora l’altro elemento che compone il testo audiovisivo: la musica).

Se ora volgiamo la nostra attenzione nei confronti di un altro elemento dello schema jakobsoniano, e cioè il destinatario, possiamo sostenere che spetti al destinatario possedere una serie di requisiti che lo portino a “riattaccare” i pezzi omessi per riuscire a attribuire un determinato significato al messaggio, per far sì che la comunicazione sia portata a termine con successo [7].

Inoltre, c’è un altro elemento dello schema jakobsoniano — in aggiunta al destinatario — che “riattacca” le immagini ritagliate: è il secondo elemento che compone il messaggio (nel nostro caso si tratta del testo audiovisivo “videoclip”), cioè la musica. Spetta alla colonna musicale [8] “tenere assieme” ciò che costituisce la colonna visiva, specie nei casi in cui il videoclip, più che voler comunicare un messaggio preciso (o purtroppo, volendo dare un preciso messaggio, ma non riuscendo a farlo), si limita a stabilire un contatto con lo spettatore, oppure a comunicare delle sensazioni, degli stati d’animo, toccandone principalmente il piano emotivo.

Riassumendo: si è partiti dal primo significato di video (io vedo) e lo si è abbinato ai diversi significati attribuibili a “to clip”; si è visto che ogni significato dei due termini che compongono la parola videoclip coinvolge un preciso elemento dello schema comunicazionale di Jakobson [9].

Ora sarà creata un’altra griglia, nella quale verrà tenuto costante l’altro significato di “video”.

2.3.2 La seconda griglia

Immagine articolo Fucine MuteVideo,che designa tutto ciò che è relativo alle immagini televisive + to clip,”ritagliare” = “ritagliare delle immagini televisive”.

Video,che designa tutto ciò che è relativo alle immagini televisive + to clip,tener stretto, attaccare” = “attaccare delle immagini televisive”.

Le osservazioni da fare a proposito dei significati di questa seconda griglia richiamano in parte quelle già proposte nella prima classificazione: resta ben poco da aggiungere. Più di preciso, non verranno ripetute le considerazioni a proposito dei vari significati di “to clip”. Ciò che si può aggiungere riguarda invece il nuovo significato associabile a “video”, che in questo caso può designare tutto ciò che si riferisce alle immagini, in particolare quelle televisive.
In questo caso si mette in gioco un elemento dello schema jakobsoniano sino a ora non considerato: il canale che stabilisce un contatto fra emittente e destinatario. Lo schermo e l’audio del televisore (o il monitor e le casse del computer) riescono a creare il contatto fra chi produce il messaggio e chi lo riceve: assolvono alla funzione fàtica.

I risultati delle due griglie proposte sono quattro significati diversi, ognuno dei quali può dare l’avvio a altrettante considerazioni. Per semplificare un po’ le cose e per dare delle spiegazioni complete, sarà utile procedere con l’unione dei due significati associati a “video”, e tenere questa unione come dato costante, al quale verranno uniti i diversi significati di “to clip”, ottenendo una classificazione di due modi diversi di intendere il vocabolo.
Non si possono considerare separatamente i due significati di “video”: considerandolo solo come “vedere” sorgerebbe la domanda “vedere cosa?”. Considerando, per contro, solo l’accezione che designa “immagini televisive”, dall’altro lato, non verrebbe messo in sufficiente rilievo uno degli organi sensori coinvolti nella percezione del videoclip, né colui che vede.
Dobbiamo quindi associare i due significati principali collegati a “video”. Il risultato finale sarà quindi una classificazione di due significati diversi del vocabolo “videoclip”:

Videoclip = vedo ritagliare / ritagliare delle immagini televisive.

Videoclip = vedo riattaccare / riattaccare delle immagini televisive.

Immagine articolo Fucine MuteUna constatazione che a questo punto è importante sottolineare è che, in tutti questi significati proposti, manca la messa in rilievo dell’altro organo sensorio coinvolto nella percezione del videoclip, l’udito. Da ciò deriva che il termine più esatto dovrebbe essere “videoclip musicale”, poiché in questo modo si riesce a mettere in luce il fatto che il videoclip sia un testo audiovisivo. Non considerando il termine “musicale”, potrebbe sorgere il dubbio di trovarsi di fronte a un testo puramente visivo. Ribadiamo un’ultima volta le considerazioni e gli interrogativi che sono sorti, e che sono i più pregnanti. Considerando il verbo “ritagliare”, viene alla luce uno dei modi in cui viene creato il testo audiovisivo. Che cosa compone il testo “videoclip musicale”, e come vengono messi assieme i componenti del testo? Esso è composto dalla musica e (e qui entra in gioco la seconda accezione di “video”) da immagini televisive.

Queste immagini sono paragonabili a dei ritagli. Poiché ciò che si vede sono dei ritagli di immagini, da che cosa queste immagini sono tenute assieme? Dalla musica. Da qui un’ulteriore motivazione per l’uso dell’aggettivo “musicale” abbinato a “videoclip”: mancherebbe in caso contrario il tassello che aiuta a comprendere come possano essere tenute assieme delle cose che prese singolarmente risultano incomplete.
E ancora: c’è qualcuno incaricato di mettere assieme quelli che possono essere considerati dei “ritagli”? In questo caso entriamo nell’ambito del destinatario e della sua capacità di cooperazione testuale, ai principi in base ai quali il destinatario riesce a mettere assieme immagini che a volte potrebbero anche sembrare scollegate l’una nei confronti dell’altra.
Infine, può risultare utile aprire una piccola parentesi su un ultimo significato che si potrebbe assegnare a “to clip” e che non è stato inserito nelle griglie in quanto si tratta di una sfumatura di significato poco usata: “ingannare”. Collegata all’ingannare, vi è un’ultima, importantissima considerazione che in questa sede preme mettere in rilievo: in qualsiasi testo audiovisivo qualcuno può ingannare [10], ma c’è anche qualcuno che vede, percepisce l’inganno. Il destinatario del messaggio si può rendere conto per esempio, che sono state apportate delle omissioni al testo videoclip. Si tratta di uno spettatore che è capace di cogliere le omissioni e ricostruire i pezzi mancanti, ciò che è stato omesso [11].

Immagine articolo Fucine MuteL’emittente del videoclip si trova ad avere a che fare con uno spettatore, inoltre, conscio del fatto che non tutto ciò che vede è reale; che è capace di dubitare della reale esistenza delle immagini che compongono il videoclip. Uno spettatore abituato a dubitare, più in generale, della reale esistenza di ciò che vede alla televisione. “La realtà può non bastare come serbatoio di spunti per la creazione di oggetti comunicativi (…) in una società della comunicazione, che vede il primato della trasmissione sui contenuti da trasmettere, la realtà non basta” [12]: questo ormai i giovani delle videogenerazioni (il target al quale i videoclip sono diretti) lo sanno. Sono spettatori che hanno imparato, se non proprio a discernere realtà e non realtà, almeno a dubitare della vera esistenza di ciò che viene loro fatto vedere. Che hanno fatto del videoclip — e più in generale di tutti i testi audiovisivi trasmessi alla televisione — un’”opera loro”, avendo acquisito la capacità di fare in modo che il suo gioco si compia, si effettui [13], ma che sono allo stesso tempo anche pienamente coscienti del potere connesso a questa capacità.

Per concludere, i giovani della generazione MTV sono spettatori consci del fatto che i loro dubbi derivano anche dal modo in cui è fatto il videoclip: non solo dalle omissioni che potrebbero esservi apportate, ma anche dagli effetti, dai trucchi, dalle tecniche usate dall’emittente per stupire colui che fruisce del videoclip.


2.3.3 Le definizioni già date

Le definizioni che di seguito verranno proposte, saranno suddivise, per chiarezza espositiva, in base agli elementi e alle funzioni della comunicazione che chiamano in causa, tenendo costantemente presente come punto di riferimento lo schema della comunicazione di Roman Jakobson.


2.3.3.1 Il Contesto (televisivo)

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Da Gianni Sibilla viene la prima proposta di definizione che sarà presa in considerazione. A suo avviso, i videoclip sono “brevi filmati televisivi basati su una canzone” [14]. Ciò che colpisce da subito di questa definizione è l’importanza data al contesto nel quale il video musicale appare. La strada che l’autore si prefigge di percorrere, infatti, è quella dell’analisi del rapporto che lega video e televisione, definito osmotico: il clip è un oggetto attivo del palinsesto, nel senso che vi apporta e ne riceve determinate caratteristiche. A titolo di esempio, Sibilla elenca una serie di “luoghi” televisivi nei quali è rilevabile il linguaggio dei videoclip: le riprese di performance musicali nei varietà e negli show musicali, nei “media events” musicali, nei promo, negli spot, nelle sigle [15]. (Resta da aggiungere il trailer, che non è citato dall’autore; esso riprende dai videoclip la frammentazione, il montaggio serrato — a volte forse la velocità del montaggio del trailer supera quella del videoclip -, il dover dire molte cose in pochissimo tempo).
O ancora, una parte del libro è dedicata al modo in cui il videoclip riesce a ritagliarsi uno spazio nel palinsesto [16]: “il clip è un testo breve e veloce; proprio per queste sue caratteristiche si deve agganciare in unità più ampie, dai contenitori al flusso dei palinsesti” [17].
Vi sono vari punti di vista a partire dai quali l’oggetto videoclip può essere osservato: la prospettiva di Sibilla si discosta da quella della ricerca affrontata in questa tesi: ove egli dà primaria importanza al rapporto tra clip e contesto, in questo lavoro si predilige un altro tipo di rapporto (ciò nonostante anche in questo lavoro saranno affrontati, e sono già stati vagamente considerati vari aspetti riguardanti il contesto televisivo, dal quale non si può prescindere in un qualsiasi lavoro che tratti di videoclip). E alla sua spiegazione successiva ci si può rifare per spiegare quale esso sia.

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In un’altra parte del testo [18], infatti, l’autore propone un interessante sviluppo: l’oggetto clip è racchiuso in un triangolo (avente musica, video e clip ai vertici) la cui base è data dal rapporto visione/musica; essi sono congiunti al vertice da un’operazione di ritaglio di suoni e immagini per associazioni e contrasti, il clip (to clip = ritagliare). Proprio ciò che avrà grande importanza in questo lavoro: la base del triangolo, e il modo in cui le sue due estremità, cioè musica e immagine, possono essere congiunte al vertice dal clip. Lo si può fare per associazione e per contrasto, che rappresentano i due modi opposti di congiungere musica e immagine.

Da notare infine che in questo triangolo i due elementi costituiscono la base del triangolo: sono quindi disposti sullo stesso piano, hanno la stessa importanza.

Marcello Walter Bruno, autore di un articolo dedicato ai videoclip [19], proponeva una serie di definizioni trovate su vari dizionari e enciclopedie: due di esse possono risultare stimolanti.

2.3.3.2 Il Messaggio: le funzioni Conativa e Emotiva

La prima è data da G. Pittano: “È una storia per immagini raccontata nel tempo di una canzone” [20]. L’obiezione che si potrebbe porre è che non è affatto detto che ogni videoclip racconti una storia: è vero che alcuni narrano, ma è assai maggiore il numero di quelli che non lo fanno, o meglio, per dirlo con le parole di Hebdige, “che narrano un’immagine piuttosto che una vicenda” [21]. Quindi la sua è una definizione alquanto riduttiva, poiché tiene conto solamente di uno, fra svariati, tipi di videoclip.

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Ciò è dovuto forse al diverso contesto e agli anni intercorsi (più di dieci) da quando è stata proposta questa definizione a oggi. I videoclip tendono a seguire delle mode che si sviluppano e muoiono in poco tempo: si potrebbe supporre che nel momento in cui è stata data questa definizione, la “moda” fosse quella di confezionare videoclip narrativi [22]. Proseguendo nella lettura di Pittano, si scopre però la sua acutezza nel descrivere il rapporto che viene a instaurasi tra musica e immagine e, soprattutto, (cosa rara) nel dedicare pari attenzione a entrambi gli elementi costitutivi del videoclip: “Scriveva Oscar Wilde che la musica consente di vivere una vita ulteriore, è sufficiente ascoltarla e lasciarsi emozionare. Video-clip o video musicale è invece una specie di testo che si sovrappone a quello della musica, non per interpretarlo, né per commentarlo (è il contrario, ad esempio, di quello che avviene nel film musicale dove la musica “è” la storia), quanto piuttosto per offrirne un ulteriore piano di lettura, certamente meno magico del “sogno ad occhi aperti” di Wilde, ma sicuramente ricco di trovate suggestive per chi non sa o non può sognare” [23].

Bisogna ammettere che questa definizione è una tra le più intelligenti, ma anche alquanto “utopica”: si potrebbe sostenere che ciò che scrive Pittano può essere applicato solamente a un numero esiguo di videoclip, la maggior parte di essi essendo decisamente da scartare. Sintonizzandosi su una rete come MTV (basta un’ora…), infatti, si trae una triste conclusione: la maggior parte dei videoclip proposti sono davvero banali, realizzati in modo da attirare l’attenzione di uno spettatore supposto attratto solamente da quanto già vede normalmente alla televisione: superficialità. La parte visiva del videoclip, in questi casi, si limita ad accompagnare la musica facendosi percepire come meno importante.

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Le immagini, stando alla definizione di Pittano, devono spesso assolvere al difficile compito di attirare lo spettatore su di una canzone che da sola non riesce a farlo: per esempio perché non appartiene ai generi musicali che il ricevente ascolta abitualmente. In questo caso — come è già stato osservato — il videoclip assolve alla funzione conativa, ha il compito di creare un effetto, e di stabilire un contatto (funzione fàtica) con il target prescelto. Se il videoclip in questo caso riesce nel suo intento, cioè riesce a far aumentare le vendite del brano musicale al quale è associato — si parla di un brano musicale che da solo non sarebbe riuscito a farsi ascoltare molto — allora sarà dimostrato il fatto che nella nostra società ciò che conta di più è l’immagine. Che l’immagine giusta, trasmessa da un videoclip giusto, riesce a far vendere un prodotto musicale non eccelso.

I rari videoclip che invece rispondono alle caratteristiche indicate da Pittano, espongono in modo più marcato ciò che l’emittente (gruppo o cantante) vuole esprimere di sé, le sue emozioni, i suoi sentimenti, la sua identità nel messaggio [24]: in poche parole esprimono la funzione emotiva. A voler essere precisi, bisogna dire che in ogni tipo di comunicazione, possono coesistere più funzioni: non è assolutamente detto che una funzione escluda un’altra, che esse non possano coesistere. Effettivamente, anche nei videoclip che hanno come funzione primaria il contatto con lo spettatore c’è pur sempre anche l’espressione, da parte dell’emittente, di qualcosa di sé (discutibile o meno); quindi questo tipo di videoclip assolve anche alla funzione emotiva.

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Allo stesso modo, anche quando gli artisti (per mezzo del videoclip) hanno come scopo primario quello di esprimere la propria identità nel messaggio, oltre alla funzione emotiva, devono pur sempre attirare lo spettatore, in questo assolvendo contemporaneamente alla funzione fàtica. Inoltre cercano degli effetti sullo spettatore (in particolare fargli piacere la traccia musicale, per poi indurlo a comprarla): funzione conativa.

Quindi questa bella definizione è utopica e rischia di non comprendere i videoclip nella loro totalità, perché rispecchia ciò che essi dovrebbero essere, non ciò che vediamo quotidianamente. Vero è che ciò che è negato nella definizione, e cioè l’interpretazione e il commento da parte delle immagini nei confronti della musica, nella realtà invece si trova (e molte più volte di quanto si spererebbe).

2.3.3.3 Il Destinatario di fronte ai videoclip “multilivello” e a quelli “unilivello”

La messa in evidenza della creazione di più livelli di lettura è la specifica parte della precedente definizione di Pittano che può colpire per la sua acutezza, e che porta a pensare che è ciò che dovrebbero fornire tutti i videoclip — in questo caso si potrebbero denominare “videoclip multilivello” — non fosse altro che per ragioni competitive e economiche: generalmente e a rigor di logica, più piani di lettura l’emittente riesce a creare, più volte lo spettatore sarà costretto a vedere il videoclip. Più volte lo vedrà, più volte ascolterà la traccia musicale: ergo, maggiori possibilità ci saranno per il disco da cui è tratta di essere acquistata. Purtroppo l’intuizione a proposito della offerta di diversi piani di lettura, rischia di non essere applicabile al fenomeno videoclip preso nella sua interezza. Spesso, per esempio, ci si trova davanti a delle immagini ridondanti, o che si limitano a parafrasare, a sottolineare, il testo della canzone. Perciò lo spettatore potrà limitarsi a lasciarsi trasportare da ciò che ascolta, senza soffermarsi troppo lungamente sul piano della visione [25], sapendo che comunque ciò che vedrà non comunicherà nulla di nuovo. Non dovrà far la fatica di approfondire ciò che colpisce l’altro organo sensorio nell’audiovisione: ciò che sarà percepito dall’occhio, infatti, non influenzerà, o modificherà, ma ribadirà ciò che l’orecchio sente. Lo spettatore in questo caso si troverà davanti a dei videoclip unilivello.

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Per concludere quindi, definizione acuta, ma non estendibile alla totalità dei videoclip. Per trovarne una che sia valida per tutti, allora non dobbiamo entrare nel particolare, nello specifico — come è stato fatto — delle caratteristiche, bensì restare su un piano più vago, osservare l’oggetto dalla giusta distanza.

2.3.3.4 Il Messaggio e la Promozione

L’altra definizione proposta da Bruno che è degna di nota, è quella tratta dal “Dizionario della musica pop e rock” di Claudio Quarantotto, nel quale, alla voce videoclip troviamo: “Breve filmato che contiene la versione visiva e spettacolare di un brano musicale. Nato come strumento promozionale, è diventato quasi un genere a sé e l’elemento portante di programmi musicali tv” [26].
Un nuovo elemento che viene messo in luce, ma che sinora nessuna delle definizioni proposte aveva menzionato, è quello della promozione. Come era stato anche in questa sede sottolineato, non bisogna dimenticare che il videoclip nasce per promuovere una canzone, per far aumentare le vendite dei dischi. Ciò non sarà preso in considerazione se non con brevi cenni in questa sede, in quanto la materia sotto la cui ottica viene analizzato l’oggetto non è l’economia, bensì la comunicazione audiovisiva. Deve però esser tenuto a mente quasi costantemente questo importante fattore, che è uno dei motivi per i quali spesso i videoclip non sono ciò che molti vorrebbero.


2.3.3.5 Il Messaggio e la sua durata

In più il dizionario evidenzia anche il fattore della durata (breve filmato, come ha fatto anche il Sibilla): esso dura all’incirca 3-4 minuti (salvo poi eccezioni: vedi Thriller di John Landis o Come on my Selector di Chris Cunningham, veri e propri mediometraggi in quanto a durata). Una grossa sfida per chiunque si trovi a doverne creare uno; non è facile riuscire a concepire un flusso audiovisivo che riesca a dirci qualcosa in così breve tempo: è anche questo che spesso ha attirato nomi famosi in ambito cinematografico a cimentarsi con esso (ad esempio Spike Lee per Eros Ramazzotti, oppure Martin Scorsese per Michael Jackson, o ancora Roman Polanski per Vasco Rossi) come del resto accade anche per la pubblicità.

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Infine viene rilevato il fatto che il videoclip sta diventando un oggetto autonomo, un genere a se stante.


2.3.3.6 Il Messaggio: i modi in cui viene proposto

L’unico aspetto sul quale si potrebbe essere in disaccordo, è la messa in evidenza, in questa definizione, del fatto che il videoclip sia una versione spettacolare del brano musicale, e ciò sempre per lo stesso motivo: con questo aggettivo entriamo già nello specifico delle caratteristiche dei videoclip, che però possono non valere per tutti.

Alla voce “videomusica” si trova: «È la ‘musica da vedere’, cioè quella del Videoclip, che usa l’immagine non soltanto come un accompagnamento — arricchimento, ma come un elemento costitutivo e indispensabile, nella nuova era audiovideo.» “Musica da vedere”: espressione che ricorrerà spesso e che è anche il titolo del testo del già citato Sibilla. In questa definizione viene posto l’accento sul contesto sociologico — antropologico dell’epoca nella quale stiamo vivendo: l’era audiovideo. La generazione giovane di quest’era è la cosiddetta videogeneration, o anche la MTV generation, cresciuta con e nell’immagine, della quale non riesce a fare a meno. Come è già stato messo in luce, è proprio per questo che si è sentita l’esigenza di supportare la musica con il visivo, perché il periodo in cui viviamo non permette assenza di immagini. Chi non riesce a farsi vedere, non esiste (non deve esserci nessuno “spazio vuoto”, per citare un’espressione di Fausto Colombo [27], anche a costo di riempirlo con informazioni/visioni inutili e ridondanti). Verrebbe da pensare che sia stata anche l’insufficienza di ciò che la televisione propone a spingere verso la nascita del videoclip…

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In questa definizione è posto inoltre l’accento sull’immagine, sul fatto che essa serva non solo da accompagnamento, ma anche da arricchimento nei confronti della musica. In questo modo ci si può richiamare a quanto è già stato detto [28] a proposito del videoclip come surplus. E ci permette di ribadire che esistono vari modi in cui l’immagine può sommarsi al brano musicale: può limitarsi ad accompagnarlo ribadendo il testo della canzone, può proporre un livello di lettura ulteriore, o può essere “indifferente nei suoi confronti”, limitandosi a mostrare immagini che non hanno legame con ciò che contemporaneamente si sente (si intende in questo caso sia la musica sia il testo della canzone, laddove sia presente).

Interessante anche la definizione proposta da Colombo e Abruzzese nel loro “Dizionario della pubblicità” un videoclip è un «breve filmato che accompagna un brano musicale»; descrizione molto simile a quella proposta da Quarantotto. Inoltre “È un genere ad elevata sperimentazione linguistica, caratterizzato da un uso “estremo” delle tecniche di ripresa e di montaggio, sovente aperto alle tecniche più innovative” [29]: il videoclip assurge definitivamente al rango di genere, sovente aperto a tecniche innovativa di ripresa e montaggio. Con l’avverbio utilizzato, una volta in più si dà ragione alla nostra considerazione sull’impossibilità di generalizzare. Si può concordare anche sulla caratteristica della sperimentazione linguistica, anche se “elevata” è forse un aggettivo troppo forte: si sperimenta, nel videoclip, ma non sempre, e non sempre in modo elevato.

Invece ci si può trovare in disaccordo, sull’aggettivo “estremo” applicato alle tecniche di ripresa e di montaggio; diverso, non comune, non abituale, (rispetto a ciò che accade nel cinema) sarebbero aggettivi più appropriati.

Segue poi un interessante paragone con gli spot televisivi, dal quale risulta che a volte essi sono realizzati con «la stessa tecnica utilizzata per i videoclip, ossia con un montaggio “ritmato”, il cui ritmo è scandito su quello della musica di accompagnamento; gli spot così realizzati sono costituiti da immagini “tenute insieme” dalla musica e risultano particolarmente adatti a target giovanili, dinamici e moderni»: come è già stato detto [30], dal punto di vista pubblicitario la videogenerazione è un bersaglio, che si può appunto conquistare attraverso strategie di comunicazione audiovisiva basate sul ritmo (serrato) e su sperimentazioni che riescano ad attrarre la sua attenzione e a mantenerla viva.

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Da marcare l’acutezza dell’intuizione sulle immagini tenute assieme dalla musica, che accade anche nei videoclip, e che è ciò che li accomuna agli spot.

Dalla Francia provengono altre definizioni. Michel Chion sostiene che i videoclip siano “qualunque cosa di visivo messo su una canzone” [31]. Definizione semplice, ma calzante e, per il fatto che non scenda nello specifico, estendibile a tutta la categoria. In comune col Sibilla, c’è la messa in luce del primato del sonoro — primato temporale, nel senso che la musica generalmente esiste ben prima delle immagini — rispetto al visivo (i videoclip sono basati o messi su una canzone) e l’uso del sostantivo specifico canzone in luogo del più generale musica.

Basandosi su ciò che sostiene Chion, come su ciò che ha proposto chi scrive, inoltre, si può sostenere la tesi dell’esistenza di videoclip all’interno dei film. Se li si definiscono come “tracce musicali visualizzate”, se all’interno di un film esistono segmenti retti da un intero brano musicale; e se questi segmenti riescono a avere una relativa autonomia, a essere compresi anche se estrapolati dal contesto filmico, allora può derivare l’ammissione dell’esistenza di videoclip non solo nel flusso televisivo, ma anche in quello cinematografico.

Per François Jost i videoclip sono “piccoli film musicali” [32]. Si potrebbe obiettare alla sua definizione che il genere cinematografico dei film musicali si discosta per alcune sue caratteristiche linguistiche dall’oggetto clip.

Innanzitutto in tutti i film musicali c’è una trama ben delineata, si sviluppa una storia, una vicenda con dei personaggi, intervallata dall’esecuzione di alcuni brani musicali, spesso accompagnati da balli coreografici. Nei videoclip, abbiamo visto, non sempre invece si racconta una storia; e anche qualora la si sviluppi, essa ha dei connotati visivi ben diversi dal film musicale. È confezionata in modo diverso. E qui veniamo all’altra differenza: le tecniche registiche e di montaggio. Il videoclip si caratterizza il più delle volte grazie a un montaggio serrato (che nei film musicali non è previsto), e comunque per la “fretta”, la velocità (cosa che nei film musicali non accade). Infine nei film musicali, come è stato sottolineato anche da Pittano, la musica “è” la storia, che generalmente commenta e interpreta ciò che si vede. Nei videoclip, invece, sono le immagini a commentare, interpretare ciò che si sente.

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Inoltre ciò che rende preferibile la definizione di Chion è il fatto che in essa viene messo in rilievo il primato della musica sulle immagini. In quella data da Jost, invece, ciò che colpisce è il fatto che esse siano messe sullo stesso piano dell’ordine temporale/cronologico.

È lo stesso motivo per il quale ciò che sostiene Jean Pierre Berkmans non risulta del tutto convincente; a suo avviso i videoclip sono “cortometraggi con banda sonora” [33]: in questo caso addirittura sembra che sia il visivo a venire prima del sonoro (cortometraggi “ai quali si aggiunge la” banda sonora). Poiché il fattore peculiare di un videoclip è il fatto che esso venga costruito a partire da, e su, una traccia musicale, ciò dovrebbe essere sottolineato e fatto evincere in una qualsiasi definizione che di questo “oggetto” si voglia dare. Inoltre, chiunque legga questa definizione si può trovare in grossa difficoltà nel percepire precisamente a cosa si riferisca in particolare. Chi scrive si è posta lo stesso problema, arguendone che non ha nulla per il quale possa esser riferita al videoclip in particolare; più quello ulteriore del che cosa possa distinguere questa definizione da una che si riferisca a un cortometraggio accompagnato da colonna sonora: pur sforzandosi, non si riesce a trovare alcuna differenza.


2.3.3.7 Il Messaggio: tre generi di videoclip

Per la suddivisione dei videoclip in generi ci si è rifatti alla classificazione di possibili generi di videoclip proposta da Sibilla, quella che egli definisce “Una mappa dei generi di rappresentazione” [34], che è una tipologia formale (e non, ad esempio, contenutistica) e che sarà utile nelle analisi testuali che si intraprenderanno in seguito.
Secondo Sibilla, dal punto di vista dell’organizzazione formale delle componenti di un videoclip, si possono trovare tre tipologie di testi, a seconda dei codici di rappresentazione usati: la performance, il narrativo e il concettuale. Di seguito verrà data la definizione proposta dall’autore per ognuno dei tre generi, alla quale seguirà la descrizione di un videoclip che può essere considerato un esempio del genere di volta in volta preso in esame.

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La performance. Per performance l’autore intende la rappresentazione di un gruppo o un cantante che esegue il brano musicale; si tratta di perseguire una funzione pragmatica: rendere visibile e identificabile il musicista. Sibilla ci ricorda che nella performance si scontrano due tendenze: vi è l’influenza più propriamente musicale, che si esprime con l’esibizione dell’esecuzione della canzone; dall’altro lato c’è la necessità di trovare nuove soluzioni stilistiche che rendano la performance più adatta alla televisione. Il videoclip, secondo Sibilla, è qualcosa di più della semplice ripresa di un concerto dal vivo; e questo “‘di più’ va sfruttato” [35]. Resta da aggiungere una considerazione dal punto di vista delle tecniche registiche usate per sviluppare la parte visiva. Essendo la performance «un’eterna variazione sul tema” [36], per rendere accattivante l’esibizione del gruppo, la si dovrà presentare in modo originale, sfruttando trucchi visivi, effetti speciali, scenografie particolari e quant’altro. Inoltre, spesso si troverà la performance inserita in altri generi, quali per esempio il narrativo.

Si pensi a What’s The Frequency, Kenneth?, dei R.E.M. (1994, regia di Peter Care), giocato sul rovesciamento dei canoni tipici della performance: i componenti del gruppo sono ripresi per la maggior parte del tempo dalle gambe in giù, mentre il cantante lo è dalle spalle, e la macchina da presa spesso si sofferma su dettagli degli strumenti fuori sincrono. Si tratta quindi di una chiara rottura con l’idea secondo la quale lo scopo principale della performance è far riconoscere allo spettatore l’artista che ha creato il brano musicale, e agganciare la sua visione agli strumenti che in quel momento sta sentendo.
Dai R.E.M. viene anche The Great Beyond (2000, regia di Liz Friedlander), nel quale il gruppo è ripreso sia mentre si esibisce sapendo di essere in onda, sia quando non è “on air”: dalle due situazioni diverse derivano anche diversi comportamenti dei musicisti.

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Ma si pensi anche a No surprises dei Radiohead (1995, regia di Grant Gee), basato interamente sul primo piano del cantante Thom Yorke, sul quale viene sovraimpresso e fatto scorrere dal basso verso l’alto il testo della canzone con le parole scritte da sinistra verso destra.
I Weezer in Buddy Holly (1994), si esibiscono sul palcoscenico del locale Arnold di Happy Days, comunicando con i protagonisti del telefilm.
Un ultimo esempio che si vuole citare è All is Full Of Love, di Björk (1999, regia di Chris Cunningham). La cantante, in questo videoclip, ha le sembianze di un robot smaltato di bianco, ed è inserita in una sorta di laboratorio nel quale, con movimenti lentissimi, interagisce affettivamente con un robot maschio [38].

Il Narrativo. Col genere narrativo, invece, si rappresenta una storia; la funzione pragmatica del narrativo è rendere piacevole e fruibile il testo musicale.
Coffee & Tv
dei Blur (1999, regia di Hammer & Tongs) può essere considerato un bellissimo esempio di videoclip narrativo. La parte musicale del video consta di una canzone del genere brit-pop [38]: molto orecchiabile e allegra. La parte visiva, invece, è la storia di una confezione di cartone per il latte, alternata nella parte finale alla performance del gruppo.

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Il cartone del latte ha richiesto un lavoro di animazione come vari altri oggetti con i quali entrerà in contatto nel corso delle sue vicende. Il videoclip inizia con l’inquadratura della fotografia stampata di un ragazzo: la macchina da presa allarga il campo fino a far vedere al fruitore che si tratta di una delle tipiche fotografie dei ragazzi scomparsi (missing)che vengono impresse sulle confezioni di latte. Nell’inquadratura ampliata, inoltre, vediamo la foto incorniciata dello stesso ragazzo accanto a un tavolo nel quale un uomo è seduto per fare colazione: in questo modo l’emittente fa capire al suo destinatario che l’uomo è il padre. Poco dopo entrano a far parte della sequenza anche la madre e la sorella: tutti i componenti della famiglia sono tristi e disperati e aspettano inutilmente una telefonata del ragazzo.

La macchina da presa ritorna sulla mezza figura dell’uomo seduto a tavola che riflette con lo sguardo assente. In coincidenza dell’inizio della parte cantata, la macchina da presa si sposta sul cartone del latte che improvvisamente si anima: sbucano da esso delle gambette, delle braccia e compaiono gli occhi e la bocca disegnati. Il “cartoncino” comincia a ballare per tentare di divertire il padre e distrarlo dal pensiero del figlio, ma non c’è niente da fare: l’uomo è troppo assorto per accorgersi della sua esistenza. L’uomo guarda la fotografia del figlio, il cartoncino se ne accorge e capisce che l’unico modo per rendere di nuovo felice la famiglia è ritrovare il ragazzo e portarlo a casa: esce quindi di casa per ritrovarlo. Il cartoncino però è l’innocenza fatta a persona, e non conosce i pericoli che la città può riservare. Appena esce di casa sta per essere investito da un motociclista il quale, però, si ferma e gli dà un passaggio fino in città. Quest’ultima si rivela in tutti i suoi aspetti negativi agli occhi di un essere ingenuo come un bambino, che non conosce ancora la vita. Il cartoncino del latte animato comincia a chiedere informazioni; vede che un suo simile viene impietosamente appallottolato e gettato via, dopo aver assolto al suo compito di contenitore per il latte; quella che era una lattina di birra viene presa malvagiamente a calci da bambini che giocano. Trova a terra un biglietto che reclamizza una tale Big Suzy, la quale: “makes all your dreams come true”. Si reca speranzoso dalla donna, la quale si rivela essere una prostituta, molto arrabbiata per giunta, perché si aspettava un cliente vero, e non un piccolo essere di cartone. Scappa impaurito e sull’altro lato della strada vede una cartoncina rosa che riposa seduta sul marciapiede: si innamora istantaneamente. Attraversa la strada per andarle vicino e conoscerla, ma nel momento in cui sta per raggiungerla, un uomo la calpesta e schiacciandola la uccide. Sempre più impaurito comincia a vagabondare per la città finché si fa sera; arriva in un vicolo buio pieno di immondizia. Il vicolo si rivela un incubo: lattine usate dalle quali cola un liquido rossastro, una bottiglia di plastica si rivela essere un mostro con grossissimi denti aguzzi.

Il cartoncino scappa, e arriva davanti alla finestra di un palazzo: lì vede (e con lui lo spettatore) un gruppo che suona. Un primo piano del chitarrista rivela a chi guarda che egli è il ragazzo che il cartoncino cercava. La finestra sulla quale quest’ultimo è appoggiato cede improvvisamente, facendolo cadere all’interno della stanza. Il chitarrista si accorge della presenza del cartoncino steso a terra, lo raccoglie e vede la propria fotografia impressa sul cartone. Comincia a riflettere, mentre l’emittente mostra la famiglia a casa che lo aspetta impaziente: è un intervento del regista che vuole far vedere al destinatario la visualizzazione del pensiero del ragazzo, oppure ciò che contemporaneamente accade a casa? Il ragazzo lascia il gruppo per tornare dalla sua famiglia. Arrivato a casa, prima di entrare, finisce di bere quanto il latte che è rimasto nel cartoncino e lo getta via. La sequenza finale del videoclip è composta dalle immagini del cartoncino che sbuca dal bidone della spazzatura, guarda in macchina, (interpellazione) [39], e pur essendo tutto accartocciato sorride, saluta e muore, ricadendo all’interno del bidone. Immediatamente dopo, da quest’ultimo esce l’anima dell’esserino, che vola felice verso il cielo, dove si ricongiungerà all’anima della “cartoncina”.

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La bravura degli animatori del pupazzo consiste nell’essere riusciti, solo mediante il disegno di un paio di occhi e di una bocca, a creare tutta una serie di espressioni che riescono a comunicare in modo diretto ed efficace le emozioni provate dal protagonista della storia. La paura, la felicità, l’innamoramento, la tristezza, sono tutte percepite dal destinatario in modo immediato, contribuendo a creare nei confronti del cartoncino del latte simpatia e tenerezza.
Questo videoclip è l’esempio di una narrazione convenzionale: abbiamo l’eroe (il cartoncino) che parte alla ricerca dell’oggetto di valore con il quale deve congiungersi (il chitarrista del gruppo), incontra sulla sua strada vari aiutanti (il motociclista, le persone che gli danno informazioni), ma anche oppositori (i bambini cattivi, la bottiglia di plastica). In realtà la ricerca dell’oggetto valore-chitarrista può essere vista come una prova (in particolare una prova principale che consiste nell’acquisizione di valori oggettivi) che permetterà indirettamente il congiungimento dell’eroe con l’oggetto di valore-cartoncina [40].
Come si sarà potuto notare, in questo videoclip sono presenti sia una narrazione sia una performance: ciò dimostra quanto sostenuto da Sibilla, cioè che i tre generi da lui individuati non sono quasi mai distinti. Essi sono piuttosto macro codici di rappresentazione rielaborati in modo diverso nei vari video musicali.

Il Concettuale. Infine, “con il genere concettuale si sviluppa un tema, un’immagine attraverso una struttura associativa più che causale” [41]. Secondo Sibilla è il genere che ha permesso al videoclip di svilupparsi in modo autonomo dagli altri testi audiovisivi [42]. Anche con il concettuale l’emittente cerca di perseguire il fine di rendere piacevole e fruibile visivamente il brano musicale [43]. Le immagini dovranno quindi essere suggestive, immediate, ma non didascaliche: in questo modo il videoclip potrà essere visto svariate volte senza però annoiare il destinatario. Anche per questo motivo spesso le immagini vengono montate con una struttura di libere associazioni, che privilegia la frammentazione piuttosto che la continuità. L’emittente costruisce un insieme di immagini che sembrano essere messe vicine le une alle altre in modo casuale: spetta al destinatario ricostruire questo che Sibilla chiama “caleidoscopio”.

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Do the Evolution è un videoclip dei Pearl Jam datato 1999, realizzato dal fumettista Todd Mc Farlane [44]. La canzone appartiene al genere rock, e si sviluppa in modo aggressivo, accompagnata dalla voce rabbiosa di Eddie Vedder. Le immagini seguono l’atmosfera aggressiva e violenta suscitata dalla canzone rock: esse illustrano l’ “evoluzione” della specie umana dalla nascita del mondo, segnalandone tutti gli aspetti negativi. In realtà quindi giocano sul titolo della canzone per sviluppare visivamente una denuncia degli errori dell’umanità, ironizzando sul “creiamo l’evoluzione” e sviluppando visivamente un concetto contrario rispetto a quanto, appunto, il titolo suggerisce.

Si parte con la nascita del mondo. Già con l’apparizione delle prime creature vige la spietata legge del più forte: il debole è destinato a soccombere. Il pesce grande mangia il pesciolino, ma è a sua volta divorato da un dinosauro. La scimmietta è calpestata dallo scimmione, che però è colpito (e questo è il primo ingresso dell’uomo…) dal bastone dell’uomo primitivo: egli è attaccato a sua volta dai suoi simili. Si passa poi al medioevo col fuoco dei roghi della Santa Inquisizione, per fare un salto temporale e arrivare agli innumerevoli suicidi in seguito alla crisi dovuta al crollo delle Borse del 1929 (i suicidi sono resi in modo provocatoriamente esagerato: dall’interno di un grattacielo il fruitore assiste, letteralmente, a una “pioggia di uomini”). Vi sono poi carri armati, sfilate di nazisti, campi di sterminio, falò di libri proibiti. L’assolo di chitarra sembra segnare una pausa in mezzo a tutte queste immagini violente, poiché è accompagnato dal ballo di una bella ragazza; si è scritto “sembra”, perché alla fine dell’assolo il viso della ragazza diventa quello di uno scheletro.

Con la ripresa della parte cantata ricominciano le immagini di violenza: una ghigliottina è seguita da un mare rosso sangue nel quale annaspa una balena; si torna poi indietro fino ai tempi della civiltà romana resa con l’immagine di un campo sterminato di uomini crocifissi (carrello orizzontale, e nella scena successiva vediamo ricomparire i crocifissi nella scatola di un venditore ambulante dei giorni nostri). Successivamente le immagini illustrano costruzioni di missili, fabbriche dalle quali fuoriescono enormi nuvole tossiche, grattacieli che spuntano e invadono quello che era un prato verde, un uomo sulla sedia elettrica, bombe e sparatorie nelle trincee. Una mano rovescia da una scatola tante piccolissime sagome umane. La loro destinazione è una ciotola per cani, dalla quale un enorme cane divora parte dei minuscoli uomini. Seguono la scena di un’ombra nera che assale una giovane donna (un richiamo a tante scene che si rifanno all’ombra nera già viste al cinema) [45], e una scena di vivisezione (seguita da quella dell’uomo sulla sedia elettrica). Poi vediamo aerei che bombardano paesini, un bianco che fustiga uno schiavo nero, il Ku Kux Klan che danza attorno a un fuoco. Infine si ha il futuro: c’è la sequenza di un uomo (che sembra lobotomizzato) seduto davanti ad un computer dal quale partono numerosi cavi che vanno ad inserirsi nell’uomo.

Dal successivo campo totale capiremo che egli è solo uno degli innumerevoli uomini rinchiusi in minuscole stanze nelle quali tanti altri lavorano come lui. Seguono una sequenza sulla produzione di bambini fatti in serie da parte di una macchina, e una sequenza in cui da una città del futuro fuoriescono enormi tubi dentati che divorano la poca natura che ancora è rimasta. Il videoclip si conclude con le immagini dell’esplosione di una bomba nucleare che distrugge tutto.

Immagine articolo Fucine MuteQuesto testo audiovisivo può rientrare agilmente nella categoria del concettuale: il concetto sviluppato dalle immagini è quello della “violenza umana”, che ha portato a una “non evoluzione”. Anche la resa formale rispecchia quanto sostenuto da Sibilla: si sviluppa un tema attraverso una struttura associativa (apparentemente) casuale: spetta allo spettatore ricostruire il significato di quanto sta vedendo.

2.3.4 Il videoclip: uno schema riassuntivo [46]

Lo schema che si propone in seguito è stato ideato dal teorico tedesco Be’ne e si propone di sintetizzare le caratteristiche del videoclip nei suoi tre aspetti basilari: gli intenti della produzione, i mezzi tramite i quali perseguire gli intenti e gli effetti che essi hanno sul pubblico.

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Come chi legge avrà potuto notare, tutte le definizioni proposte sono riuscite a essere stimolanti sotto qualche prospettiva, contenendo ciascuna qualche aspetto particolare, uno spunto, un’osservazione, una caratteristica peculiare sulla quale riflettere e dalla quale trarre interessanti punti di partenza sui quali basarsi per analisi più approfondite. È ciò che ora verrà fatto in questo lavoro.

2.4 Le funzioni della musica e delle immagini nel videoclip

Essendo poco numerosi gli studi dedicati al videoclip, e ancora più rari quelli che affrontano nello specifico lo studio del rapporto fra musica e immagine all’interno di questo testo audiovisivo, si vedrà se qualche aspetto della storia delle teorie del cinema potrà fornire utili indicazioni per analizzare le funzioni che assumono all’interno del video musicale i due elementi che lo compongono. Verrà dedicata maggior attenzione alle funzioni delle immagini nei confronti della musica, piuttosto che a quelle della musica nei confronti delle immagini: proprio perché le immagini sono un’aggiunta nei confronti di qualcosa che già esiste, esse dovranno dare un “qualcosa in più” all’elemento musicale per vedere giustificata la propria presenza.

Le immagini svolgono distinte funzioni nei confronti dei due diversi elementi che entrano in gioco in un videoclip: il gruppo/cantante e la traccia musicale. Nel primo caso, le funzioni riguardano l’aspetto della promozione d’immagine e della pubblicità, nel secondo esse si riferiscono al livello comunicativo ed estetico.
Le funzioni che le immagini possono svolgere nei confronti del gruppo musicale (funzioni promozionali) sono:

1. favorire la riconoscibilità di immagine di una band o di un cantante o rinnovare a livello visivo la presenza di un gruppo già esistente;

2. suscitare dei desideri da parte dello spettatore nei confronti dei componenti del gruppo o del cantante.

Le funzioni che invece le immagini svolgono nei confronti della traccia musicale (funzioni comunicativo/estetiche), tenendo presente che anche in questo caso è sempre in gioco l’aspetto promozionale, sono:

1. parafrasare il testo verbale (in questo caso ci si rifà alla nozione di parafrasi di Pauli e di parallelismo di Kracauer);

2. creare un ulteriore livello di lettura rispetto a quello suggerito dalla traccia musicale;

3. creare associazioni con determinate parti del brano musicale (ciò che si potrebbe definire il leitmotiv visivo. Si fa in questo caso riferimento a quanto esposto da Adorno e Eisler);

4. orientare espressivamente un brano musicale (si fa in questo caso riferimento alla funzione rilevata da Colpi e Pauli), o facilitare la comprensione del testo verbale.

Si vedranno ora nello specifico le varie funzioni sopra elencate, fornendo degli esempi che servano a chiarirle.

2.4.1 Le funzioni promozionali e pubblicitarie

Immagine articolo Fucine MuteNon ci si soffermerà troppo a lungo su queste funzioni, in quanto non riguardano l’ottica sotto la quale si sviluppa questa tesi; si è deciso di affrontarle lo stesso, anche se in modo poco approfondito, per rendere chiaro il potere che un videoclip può avere a livello economico.

2.4.1.1 Favorire la riconoscibilità o confermare la presenza visiva degli artisti

Molti gruppi sono “nati” con MTV (si cita MTV in quanto “contenitore” di videoclip); altri, dopo essere spariti per un periodo dalla scena musicale, vi sono tornati grazie a una serie di videoclip ben pensati: tutto ciò accade proprio per l’importanza dovuta al fattore visivo nell’epoca in cui viviamo, nella quale se non si riesce a farsi vedere, non si esiste. Sibilla ci conferma questa considerazione, allorché ci ricorda: «che il rock sia diventato un linguaggio visivo oltre che musicale è evidente: il “fare immagine” è ormai un’attività strettamente collegata con il “fare musica”, spesso in modo inscindibile». Il contributo del videoclip a questo slittamento verso il visibile è stato quello di «avere espresso pienamente le potenzialità iconografiche del rock. [47]

Per fare degli esempi, si pensi all’immagine data da Madonna: senza il fondamentale veicolo visivo dei videoclip, la star non avrebbe potuto far conoscere ai suoi fan altro che le sue canzoni [48]. Solamente grazie al videoclip il suo pubblico ha potuto seguire tutti i suoi mutamenti d’immagine, che sono stati veramente numerosi (la material girl, la donna provocante ed eroticamente aggressiva, la mistica, la new age, solo per elencarne alcune). Il rapporto che la cantante ha instaurato col videoclip è di primaria importanza: «Madonna nasce con il video e per il video. È un’icona nel senso etimologico del termine; è un’immagine. Un’immagine sacra che ha il suo altare domestico nel televisore” [49].

Immagine articolo Fucine MutePer fare un esempio, invece, di una cantante conosciuta negli anni Ottanta per la sua immagine di “ragazza acqua e sapone”, ritornata al successo dopo anni di silenzio [50], si può citare il caso di Kylie Minogue. Grazie a un videoclip dotato di una coreografia originale rispetto a quanto si è soliti vedere e confezionato ad hoc per rilanciare la sua nuova immagine di un glamour sofisticato (complice anche una succintissima tutina tagliata a regola d’arte), la cantante ha scalato recentemente le classifiche di vendita arrivando al primo posto e restandovi per mesi.
Infine, per quanto riguarda la conferma visiva di un gruppo, esemplari in questo senso sono i R.E.M., i quali creano quasi sempre video originali e degni di essere considerati piccoli capolavori [51].


2.4.1.2 Suscitare dei desideri nello spettatore

All’interno delle funzioni promozionali, infine, vi è la creazione, nello spettatore, di determinati desideri da appagare: questo aspetto viene analizzato approfonditamente dalla studiosa E. A. Kaplan. L’autrice, riferendosi a MTV, sostiene che al suo interno vi è un flusso globale di segmenti pubblicitari, che essi siano videoclip, o pubblicità, o promos per MTV stessa. Questo flusso, secondo l’autrice, evoca una specie di trance ipnotica nella quale lo spettatore è sospeso in uno stato di desiderio insoddisfatto, ma sempre sotto l’illusione di una soddisfazione imminente da raggiungere attraverso qualche tipo di valore. Questo desiderio è rimpiazzato dal disco che incarnerà il magnetismo e il fascino della star [52]. I videoclip riescono a suscitare determinati desideri (per esempio per stili di vita diversi dai propri) incarnati dalle star: non potendo appropriarsene direttamente, lo si farà indirettamente tramite l’acquisto del prodotto materiale (il disco).

2.4.2 Le funzioni comunicative e estetiche

In generale, all’interno di tutte le funzioni di seguito elencate, si vedrà come le immagini siano capaci di adattarsi allo specifico brano musicale che accompagneranno.

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2.4.2.1 Parafrasare il testo verbale del brano musicale

In questo caso ci si rifà alle nozioni di parafrasi coniata da Pauli e di parallelismo di Kracauer. Le immagini avranno il compito di riaffermare i significati del testo verbale che accompagnano: il loro carattere deriverà direttamente dal contenuto del testo della canzone.
Bisogna precisare che si è preferito legare questa funzione al testo del brano musicale, e non alla musica, poiché il primo è oggettivo e incontestabile, laddove, entrando nella sfera musicale si sarebbe incorsi nell’ambito emozionale, che è soggettivo e discutibile.
È necessario sottolineare inoltre che questo è il caso in cui si rischia maggiormente di cadere nel descrittivismo e nella pura ripetizione di ciò che si ascolta. Si pensi a Fotoromanza (1984) di Gianna Nannini, diretto da Michelangelo Antonioni. Ciò che accomuna i testi che affrontano in modo specifico e approfondito questo video musicale, è il fatto che tutti sono concordi nel citarlo per far comprendere al lettore ciò che non deve essere fatto tramite un videoclip [53]. Le immagini infatti si limitano a seguire pari pari ciò che viene detto nel testo della canzone, non aggiungendovi nulla di più, e dando vita a un testo audiovisivo che verrà percepito dal fruitore come noioso e ripetitivo.

Invece, un buon esempio di immagini che ribadiscono ciò che viene suggerito dal testo della canzone, senza risultare una pura ripetizione si ha nel videoclip All I want is you degli U2. Il brano musicale appartiene al genere rock: in particolare si tratta di una canzone “ballabile” dalla melodia dolce; è una tipica canzone d’amore. Il testo parla delle promesse fatte fra la voce narrante (in questo caso il cantante ricopre questa figura anche all’interno del videoclip) e la donna amata, “from the cradle to the grave”.

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Il corrispettivo visivo è una storia (di un bianco e nero nitidissimo)ambientata in un circo, all’interno del quale un nanetto è innamorato della trapezista. Senza che inizialmente lei ne sia conscia, l’uomo la guarda (e lo spettatore con lui) mentre si esercita, seguendola di nascosto in tutto ciò che fa; la donna però sta con un altro uomo. Tramite gli sguardi del nano, lo spettatore percepisce la tristezza dell’uomo, soprattutto nella sequenza in cui tutti i circensi cenano attorno a un tavolo e lei è seduta accanto al suo uomo, ritirandosi con lui prima che la cena finisca nella roulotte che condividono. Il nano, però, decide lo stesso di tentare il tutto per tutto e si reca in paese a comprare un anello da donarle (“you said you want diamonds on a ring of gold”); tornato al circo egli va incontro alla donna sorridendole. Lei per la prima volta ricambia il sorriso, ma, proprio mentre sta per donarle l’anello, dalla roulotte esce il compagno di lei. Il nano allora, entra nel tendone e si arrampica fino al trapezio, sul quale comincia a dondolarsi. Da questo momento, con una soggettiva sulle persone del circo che lo guardano preoccupate, seguita da un’intera sequenza vista con gli occhi del protagonista che fornisce la sensazione di un volo, e che continua uscendo dal circo fino a una spiaggia, lo spettatore è tratto in inganno, poiché pensa si tratti di un suicidio. In realtà, dopo lo stacco di montaggio, inizia la sequenza finale di un funerale (appunto, “all the promises we made from the cradle to the grave”): lo spettatore ha poco tempo per convincersi del fatto che si tratti del funerale del nano [54]: immediatamente la macchina da presa si avvicina a una persona, che riprende nella parte inferiore, fornendo al fruitore il particolare dei piedi di un uomo. Quando il campo si ingrandisce, si scopre che i piedi sono quelli del nano il quale, con tutti i personaggi del circo, assiste al funerale della donna. L’emittente fa capire quest’ultima circostanza inquadrando l’uomo che getta sulla bara l’anello precedentemente acquistato. Ma la confusione narrativa resta, poiché le note finali della canzone sono accompagnate dalle immagini (non situabili temporalmente in modo preciso) della donna a letto che sta dormendo in modo agitato. Quindi nello spettatore nascono dei dubbi: è lei a essere morta e le immagini descrivono la sua ultima notte, oppure è morto il nano e noi abbiamo solamente assistito a un incubo della donna? Sono quesiti ai quali l’emittente strategicamente non dà risposta certa, lasciando il finale aperto alle diverse possibili interpretazioni del fruitore.

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Nell’esempio appena fornito abbiamo quindi un videoclip narrativo le cui immagini visualizzano una storia d’amore, ciò appunto che il testo della canzone narra [55]: si tratta di una parafrasi, quindi, del testo verbale. Ma le immagini lo fanno in un modo per nulla ripetitivo: il fruitore non percepisce il videoclip come una ripetizione banale, e nemmeno noiosa: egli segue gli sviluppi della storia come se la vivesse in prima persona, grazie alle varie soggettive (quando la donna sorride al nano guarda in macchina, come se sorridesse a chi sta guardando il video, chiamandolo in causa direttamente [56]). Lo spettatore, inoltre, continua nella visione per “vedere come finisce”; nemmeno la fine del clip è banale o scontata: non solo non c’è lo stereotipato lieto fine, ma il finale resta aperto.


2.4.2.2 Creare un ulteriore livello di lettura rispetto a quello suggerito dalla traccia musicale

Un espediente molto usato per ottenere la creazione di un livello di lettura altro rispetto a quello suggerito dal brano musicale sono i sottotitoli (assieme ai dialoghi).
Un esempio di uso sapiente dei sottotitoli si ha con Just dei Radiohead (1995, regia di Jamie Thraves). La musica della band appartiene al rock alternativo.

Nel videoclip la parte visiva alterna, intervallata alla performance del gruppo, l’immagine di un uomo disteso a terra, che si rifiuta di alzarsi da dove sta. Pian piano, dalla prima persona che gli si era avvicinata, attorno all’uomo si forma un gruppo di persone, tutte incuriosite dal motivo per cui stia disteso per terra e si rifiuti di alzarsi. A questo punto entrano in gioco i sottotitoli che traducono i discorsi scambiati fra i personaggi. Alla fine, l’uomo si decide a spiegare il perché del suo comportamento; ma, nel momento in cui parla, l’emittente toglie al fruitore il prezioso aiuto dei sottotitoli: non si capisce dunque cosa dica. Si vede solamente che, quando l’uomo finisce di parlare, tutto il gruppo di persone che gli stava attorno è disteso anch’esso per terra.

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Un esempio, invece, di videoclip “multilivello”, nel quale le immagini riescono a creare da sole, senza l’aiuto dei sottotitoli, un altro livello di lettura, si ha con Revolution 909 dei Daft Punk (1997, regia di Roman Coppola). Una considerazione da fare in premessa al commento del videoclip, è che in generale è possibile sperimentare nuovi tipi di narrazione, di tecniche registiche soprattutto con dei generi musicali in cui non vi siano né testo [57], né il musicista inteso nel senso comune del termine, ma quello che Di Marino definisce “assemblatore di suoni” [58]. Come esempi di questa nuova figura egli cita i Chemical Brothers, Fatboy Slim, Laurent Garnier, ma possiamo aggiungervi il già citato Aphex Twin, Moby, i Daft Punk e gli Air. Tutti esponenti di un nuovo tipo di musica, riconducibile alla techno e a tutti i sottogeneri da essa derivati; in questi casi, il regista non deve essere condizionato né dalla voce del cantante, né, soprattutto dal testo della canzone: è libero di creare ciò che vuole, perché mai come in questo caso, «è la musica ad adattarsi e a funzionare su qualsiasi immagine e non viceversa” [59].

Le immagini di Revolution 909 raccontano la storia di un pomodoro.
Lo sviluppo della storia parte da un rave pa rty; mentre i ragazzi stanno ballando, scatta l’allarme: sta arrivando la polizia. Nel fuggi- fuggi generale una ragazza si trova davanti un poliziotto. Il primo piano di lei ci fa vedere il suo sguardo attratto da qualcosa sul poliziotto e la successiva soggettiva ci fa vedere che è una macchia di sugo di pomodoro sulla camicia bianca dell’uomo. Da questo momento parte la musica, che accompagna la ricostruzione del percorso per mezzo del quale si è arrivati a quella macchia. Si ha lo sviluppo di un lungo flashback che inizia con la nascita della pianta del pomodoro, la sua crescita, la raccolta da parte dell’uomo e il trasporto dei vari pomodori nelle loro cassette. La destinazione è un supermercato. Nel supermercato una vecchina acquista un po’ di pomodori, arriva a casa e prepara la pastasciutta con il sugo: questa parte del videoclip è interessante perché in essa vi è l’inserimento dello stereotipo delle trasmissioni televisive che si occupano di ricette; mentre la signora cucina, troviamo sovraimpresse in basso all’inquadratura le didascalie di ogni operazione che essa compie: ad esempio, “sbucciare il pomodoro”, “tagliarlo in piccoli cubetti”, “bollirlo” etc.

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A ricetta completata, la pastasciutta viene messa in un contenitore di plastica che in seguito arriverà al poliziotto che si era visto all’inizio del video. La sequenza “preparazione del piatto” si conclude sul particolare del sacchettino con il cibo; vi è poi un taglio di montaggio cui segue un’inquadratura quasi identica sullo stesso oggetto. La macchina da presa, per mezzo di uno zoom all’indietro, allarga il campo: l’emittente permette al destinatario di vedere che il sacchettino giace sul sedile posteriore di un’auto della polizia; vi è stata quindi un’ellissi [60] temporale [61]. Il sacchettino viene preso da un braccio che si scopre appartenere al poliziotto; si sente provenire dalla radio della vettura la richiesta di aiuto sul luogo del rave; il poliziotto, che sta mangiando, sobbalza e si macchia la camicia. Corre col suo compagno sul luogo dell’inizio del videoclip, si dividono per inseguire i ragazzi (adesso vediamo l’inseguimento con gli occhi delle forze dell’ordine) e l’uomo con la macchia si trova faccia a faccia con la ragazza. Abbiamo quindi un racconto circolare, poiché in questo momento ci troviamo a vedere la stessa immagine dell’inizio: la storia riprende, dopo il lungo flashback, dal punto in cui era cominciata. La ragazza guarda la camicia, il poliziotto segue il suo sguardo e distoglie l’attenzione da lei per guardarsi la macchia. Basta questo attimo di disattenzione e la ragazza riesce a scappare.

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Non essendovi testo, le immagini sono state libere di seguire la propria strada, senza essere obbligate a un legame con alcunché, e sono state libere di sviluppare una storia autonoma (in questo caso si tratta di un videoclip narrativo, ma avrebbe anche potuto non esserlo). Ciò sarebbe stato possibile anche in un brano musicale più complesso, ovvero in un brano musicale all’interno del quale abbiamo non solo la parte musicale, ma anche un testo verbale, ma si sarebbe corso il rischio di creare una non positiva confusione percettiva nei confronti dello spettatore: quest’ultimo probabilmente non avrebbe potuto cogliere il senso del messaggio.
A questo punto, però, rientra in gioco la natura ambivalente dei videoclip: questi, oltre che testi audiovisivi, sono anche e soprattutto prodotti economici. Gli esempi appena affrontati sono stati illustrati dal punto di vista della comunicazione audiovisiva. È necessario evidenziare, però, che in realtà a livello di comunicazione pubblicitaria, i videoclip multilivello sono forse quelli che sono maggiormente validi per il raggiungimento dello scopo promozionale: anche se vi è confusione e lo spettatore non recepisce il senso delle immagini alla prima visione, per chi produce il video vale la pena di correre il rischio della non chiarezza comunicativa. Anzi, questo “difetto” può trasformarsi in un pregio: proprio a causa della confusione il fruitore (il target, secondo l’ottica promozionale) sarà tentato di rivedere il videoclip. Ma vedendo il video, riascolterà anche il brano musicale: sarà quindi creata un’occasione ulteriore di ascolto del pezzo che si intende promuovere.


2.4.2.3 Creare associazioni con determinate parti del brano musicale

In questo caso le immagini possono ancorarsi a determinate frasi o sviluppi musicali, o a determinati strumenti: possono fungere da leitmotiv visivo. Il leitmotiv musicale all’interno dei film permette di dotare di un tema specifico personaggi chiave o idee-forza del racconto [62]. Allo stesso modo, si può parlare di leitmotiv visivo nel videoclip allorché le immagini riescano a stabilire un aggancio con la musica, dotando di un tema visivo specifico determinate ricorrenze musicali: frasi o sviluppi musicali (ad esempio una melodia) o ritornelli nel caso di canzoni [63]. Nello stesso modo in cui in un film il leitmotiv musicale svolge la funzione di punteggiatura simbolizzante [64], nel videoclip saranno le immagini a rivestire questa funzione, perché, conviene ripeterlo, nel film nascono prima le immagini, nel videoclip nasce per prima la musica. Quasi tutti i videoclip sono costellati di punti di sincronizzazione, cioè di “momenti salienti di incontro sincrono tra un momento sonoro e un momento visivo: un punto in cui l’effetto di sincresi (…) risulta più accentuato, come in una musica un accordo più marcato degli altri” [65]. I punti di sincronizzazione servono a punteggiare un videoclip, a dargli un suo fraseggio, “come potrebbero darlo, in una sequenza musicale, gli accordi marcati o le cadenze — in breve, gli incontri verticali tra gli elementi” [66].

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In Come To Daddy di Aphex Twin (1997, regia di Chris Cunningham), vi è un particolare effetto visivo, quello della distorsione [67], che avviene in corrispondenza della distorsione che contemporaneamente il fruitore ascolta. Questo è un esempio di punto di sincronizzazione. Se nel brano musicale il suono distorto fosse stato ripetuto più volte, e ogni volta assieme a esso fosse comparsa la stessa immagine della faccia azzurra distorta anch’essa, allora si sarebbe potuto parlare di leitmotiv visivo.

La sincresi, invece, è «la molla della sincronizzazione (..) la saldatura inevitabile e spontanea che si produce tra un fenomeno uditivo e un fenomeno visivo puntuale quando questi accadono contemporaneamente, e ciò indipendentemente da ogni logica razionale” [68].

Si forniranno degli esempi riguardanti questi concetti nel capitolo sul regista Michel Gondry, poiché una caratteristica della sua estetica è proprio quella di riuscire a stabilire un rapporto in cui le immagini corrispondono formalmente agli elementi musicali (strumenti, o particolari sviluppi musicali), creando videoclip costruiti interamente sulla base di questa corrispondenza. Mentre tutti i videoclip sono costruiti su momenti di sincronizzazione in mezzo a un flusso audiovisivo, solo in rarissimi clip (e due sono proprio di Gondry) questa corrispondenza ricorre in modo puntuale, costante e soprattutto continuo.

2.4.2.4 Orientare l’espressività del brano musicale e facilitare la comprensione del testo verbale

L’ultima delle funzioni che le immagini svolgono nei confronti della musica è appunto quella di orientarne l’espressività, spingendola nella direzione voluta e di aumentare la comprensione del testo verbale (laddove sia presente).
I sottotitoli già nominati possono rivelarsi uno strumento utile in quest’ultimo caso: essi possono, qualora non abbiano il compito di creare un ulteriore livello di lettura, aiutare il fruitore nella comprensione del messaggio aiutando nella comprensione del testo verbale. In Everydody Hurts (1993, regia di Jake Scott) i sottotitoli aumentano la comprensione del testo della canzone laddove ne visualizzano le parole [69].

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Il discorso appena fatto si può applicare anche ai dialoghi, e al lettering [70], grazie al quale spesso si può ottenere una visualizzazione del testo della canzone che diventa l’oggetto visivo attorno al quale il videoclip si sviluppa. Un esempio di lettering è Sign’o’The Times, di Prince, nel quale il testo della canzone è l’oggetto unico del clip: le parole del testo visualizzate in caratteri coloratissimi che occupano lo spazio di tutta l’inquadratura, vengono fatte scorrere davanti agli occhi dello spettatore con l’effetto visivo di un ripetuto zoom all’indietro, ritmato sulla base della musica.

Sino a ora si è parlato di testo della canzone. Per quanto riguarda invece il brano musicale, un esempio di come le immagini possano orientare espressivamente la musica si ha con Rabbit in Your Headlights (1998, regia di Jonathan Glazer), un brano degli U.N.K.L.E., gruppo temporaneo formato da membri di altre bands riunitisi per la creazione di un cd.
Il videoclip illustra visivamente un uomo che cammina al centro della strada in una galleria, parlando ad alta voce (anche lo spettatore lo sente) una lingua incomprensibile. A un tratto arriva una macchina e lo investe, ma lui, dopo un attimo in cui si ritrova per terra (e lo spettatore teme sia morto), si rialza e continua a camminare. Questo al quale si è appena assistito è solo il primo di una serie di investimenti, che si susseguono per tutta la durata del videoclip: l’uomo, però, ogni volta si rialza e riprende a camminare.

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In questo caso, dal punto di vista della comunicazione, le immagini accompagnano una musica difficilmente fraintendibile. Lo sviluppo musicale consta di solo due strumenti (pianoforte e batteria) ai quali si aggiunge la voce di Thom Yorke: la voce del cantante ci fa percepire sofferenza, è come se ascoltassimo un lungo lamento. La parte musicale, quindi, è il contrario di melodia e orecchiabilità: alcuni potrebbero percepirla come noiosa e, a tratti, irritante. Le immagini cupe, tetre, dell’uomo che parla e urla come fosse uno schizofrenico, l’atmosfera claustrofobica della galleria nella quale egli cammina, i continui investimenti da parte di persone che nemmeno si fermano a vedere come sta, considerandolo quasi, appunto, «un topo davanti ai fari” [71] come suggerisce il titolo, tutti questi elementi contribuiscono a creare nello spettatore una sensazione di fastidio, di irritazione, verso quello che sta audio-vedendo. D’altra parte, comunque, egli continua a seguire il video, per vedere come si concluderà: l’uomo, in corrispondenza delle note finali, comincia a sorridere, si ferma, allarga le braccia e aspetta una macchina che lo colpisca nuovamente. Questa volta, però, è la macchina a ridursi in mille pezzi nell’impatto con l’uomo, accartocciandosi attorno ad esso.

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Le immagini accompagnano un brano musicale non facile in modo coerente: come questo, anche le immagini non sono facili da gestire per uno spettatore abituato ad altri canoni di videoclip. Esse però orientano l’espressività della parte musicale creando varie interpretazioni attorno all’identità dell’uomo; soprattutto il finale contribuisce nell’aumentare l’espressività perché, attraverso l’uomo diventato imbattibile anche dopo esser stato investito numerose volte, ci comunica che anche i deboli alla fine possono vincere sui più forti che «la disperata follia si tramuta in lucida potenza». [72].

Road To Nowhere dei Talking Heads (1985, con la regia di S. R. Johnson e dello stesso David Byrne, cantante del gruppo), è anche un esempio di un videoclip che è talmente pregno di informazioni dirette al fruitore, e talmente finalizzato in direzione espressiva, da rischiare di non essere capito dal proprio audiovisionatore. Solo un’analisi approfondita come quella di Hebdige [73] permette di capire il significato che sta dietro a delle immagini apparentemente semplici come quelle del videoclip in questione. Le immagini del video sono percepite per quello che esse sono, senza cercarvi altri significati; si ha la formazione di una serie di “singolarità a-significanti” [74], cioè di un insieme di singolarità che attirano l’attenzione dello spettatore, senza però prestarsi all’interpretazione. Moltissimi videoclip sono costruiti sull’accostamento di singolarità asignificanti: la situazione che si crea è aiutata dallo spettatore, il quale, si potrebbe dire, è caratterizzato da un’attenzione puntiforme. Sommando l’attenzione puntiforme alle singolarità asignificanti, diremo allora che davanti a certi tipi di videoclip, lo spettatore percepisce un “insieme asignificante” [75]. Infine, bisogna sottolineare che molto spesso l’insieme asignificante è concepito strategicamente, mentre nel caso di Road to Nowhere non vi è programmaticità né volontà di dare vita a un’audiovisione nella quale non vi sia interpretazione. Succede il contrario: si vuole sovraccaricare di informatività le immagini, sconfinando però nell’intellettualismo. Il problema di questo videoclip, appunto, è che, mentre in molti altri videoclip si ricerca strategicamente di costituire delle singolarità asignificanti per suscitare nello spettatore non un’interpretazione, ma un’emozione, una serie di impressioni, in questo caso le singolarità asignificanti nascono quando non sono assolutamente volute.

Immagine articolo Fucine MuteIl gruppo stesso dei Talking Heads [76] negli anni Settanta aveva uno stile musicale “ibrido”, usato deliberatamente per forzare le definizioni di ciò che fosse pop o rock, reinventando il concetto di quest’ultimo componendo musica imparentata coi party, ma solo per smascherare le angosce che dietro a questi si celavano [77].

La parte visiva del videoclip è costituita da un insieme di immagini che Hebdige ci descrive accuratamente: un gruppo di persone in piedi davanti ad un palcoscenico, una strada in mezzo ad un deserto, David Byrne che corre sul posto, un uomo e una donna che si rincorrono su una scale, due uomini in versione sadomaso che si percuotono l’un l’altro con borsette, una ragazza in una sala da ballo con le braccia rigide come le bambole dei carillon, un plinto classico cui manca la statua. L’autore aggiunge che vi sono anche sequenze intermittenti di una vita condensata in poche inquadrature: dall’uomo e la donna che si conoscono, si amano, hanno una figlia, invecchiano, alla loro figlia che li abbandona andando via di casa con aria sprezzante. Poi un vecchio nudo che entra in una scatola (la scatola poi verrà aperta e ne uscirà un bambino col pannolino); una corona scende sulla testa di un uomo (quando la scena verrà ripetuta, la corona lo colpirà a lato e cadrà). Vi sono anche inquadrature nell’inquadratura: in esse, poste ai quattro lati dell’inquadratura principale sulla “strada verso il Nessun Dove”, appaiono fra l’altro Byrne che canta con la testa in un cubo trasparente e la ripetizione dell’inquadratura principale. Quattro inquadrature («una rapida successione di cerchi vorticosi») [78] mostrano una torta di compleanno, una sfera, un mappamondo che sanguina, un vortice d’acqua che si incanala verso un buco. Il finale riprende l’immagine del gruppo di persone visto all’inizio del video, che però ora sembrano guardare lo spettatore dal centro della strada assieme a Byrne.

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L’autore dell’analisi si rende conto che dalla descrizione appena data il videoclip potrebbe sembrare “banale ed ampolloso: una collezione di faticosi cliché del genere che si incontra quotidianamente nelle esercitazioni delle scuole d’arte o nelle scuole di regia” [79], e procede quindi con la spiegazione di come questo videoclip sia una possibile via d’accesso nello spazio del postmoderno. Egli ci ricorda che questo videoclip fonda uno spazio non-narrativo, cioè uno spazio di suggestioni narrative subliminali che non incoraggia l’identificazione né la riflessione critica. Inoltre propone di usare questo videoclip per esemplificare l’affermazione di Jameson sulla diffusione dei codici moderni nella “cultura di massa”. Il videoclip è disseminato di citazioni di arte moderna e Hebdige lo dimostra elencandocele. Si arriva infine a quello che secondo lui è la versione video del sublime (cioè ciò che accade ogni qualvolta si tenti di rappresentare l’irrappresentabile): i Talking Heads ci portano in questo spazio del sublime, in cui «cadiamo nelle fenditure fra ciò che vediamo, ciò che diciamo e ciò che crediamo di dire” [80]. Nelle quattro inquadrature con la torta, il mappamondo, etc., siamo legati a una contorta catena di significanti: il cerchio può significare tutto e nulla. Il significato del video è che non c’è nessun altro luogo per noi se non il qui, e nessun altro tempo se non l’oggi. A conclusione del suo discorso, Hebdige ci dimostra che ciò che situa il videoclip nel “post” è l’ironia, il tocco leggero tramite cui è stato costruito, ed il divertimento che se ne può trarre. Ma nessuno spettatore medio, si suppone, potrebbe essere arrivato a tante considerazioni (l’esposizione appena fatta era molto riassuntiva) e a tali conclusioni con la semplice visione del video. Appunto perché, sottoposto a troppi stimoli informativi ed espressivi, si è limitato a guardare senza interpretare il pur interessantissimo video di Byrne.

2.4.3 Le funzioni della musica nei confronti dell’immagine

Immagine articolo Fucine MutePer quanto riguarda le funzioni svolte dalla musica, il discorso diventa semplice, in quanto essa ha due compiti principali.
Il primo è quello di “tenere assieme”, in virtù del suo carattere continuo, le immagini, siano esse frammentate o meno. “La musica è quel “collante” del testo che permette la frammentazione di superficie del testo e la non verosimiglianza della rappresentazione” [81]. Un altro teorico, francese, conferma l’ultimo concetto sulla verosimiglianza; Jost ci ricorda che il suono è regolato dal “postulato di sincerità” [82]: in base a questo postulato, mentre ammettiamo che l’immagine sia truccata, siamo molto più restii nell’ammettere che un suono sia oggetto di trucchi. Quindi, la musica (anche se fa eccezione il genere prima citato dell’assemblatore di suoni) permette allo spettatore di agganciarsi alla realtà e alla verità: la musica che si sente è vera, mentre non possiamo esser certi della realtà e della verità delle immagini che vediamo quotidianamente.

Anche il teorico Pierre Sorlin ci conferma che la materia orale costituisce la verità all’interno della televisione: non perché sia veritiera, ma perché è stabile, perché il “televisivo standard” domina i microfoni. Invece l’immagine è molto più malleabile, viene “tirata, deformata, macchiata e allora diventa irritante” [83].
La funzione più diffusa del suono, secondo Chion, (che conferma dunque quanto appena scritto) consiste nell’unificare il flusso delle immagini a livello temporale, oltrepassando i tagli visivi (effetto di scavalcamento o overlapping) e a livello spaziale, facendo sentire ambienti globali che creano un quadro generale in cui l’immagine sembra contenuta, un sentito in cui il visto viene immerso come in un fluido omogeneizzante. La musica ha quindi la funzione di “inglobamento unificante”, in virtù della quale oltrepassa temporalmente e spazialmente i limiti dei piani visivi [84]. Più avanti Chion fa riferimento specifico al “clip, che, a beneficio di una base musicale che regna sull’insieme — e avendo come obbligo soltanto quello di seminare qua e là dei punti di sincronizzazione miranti a sposare l’immagine e la musica in maniera morbida —, permette all’immagine di muoversi a volontà nel tempo e nello spazio. In questo caso limite non c’è più , per così dire, scena audiovisiva ancorata a un tempo e uno spazio reali e coerenti” [85]. Di qui la sua idea di “musica come piattaforma girevole spazio-temporale” [86].
Jost ci ricorda infine che alcune tecniche registiche che al cinema verrebbero accolte con fastidio (ad esempio il montaggio “che si vede”, dove non servirebbe, ma si può aggiungere anche lo sguardo in macchina), nei confronti del videoclip sono accettate: ciò avviene anche a causa della struttura della canzone stessa, che è formata da ripetizioni, riprese e variazioni [87].
Il secondo compito della musica nel videoclip è quello di determinare la scelta e la configurazione ritmica degli elementi visivi [88]; per l’approfondimento di questa funzione si rimanda alle analisi dei due videoclip di Michel Gondry del prossimo capitolo, in quanto si tratta di due testi audiovisivi che rendono palese lo sfruttamento di questa funzione.[89]

Note


[1] Si sono consultati vocabolari della lingua italiana; per la precisione: Il vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, XII edizione, 1998, e Il vocabolario della lingua italiana Treccani, 1994.
[2] Ricordiamo che gli elementi che costituiscono la comunicazione, secondo lo schema di Jakobson, sono: Emittente, Contatto, Messaggio, Codice, Contesto, Destinatario. A ogni elemento, è poi associata una determinata funzione: Emotiva, Fàtica, Poetica, Metalinguistica, Referenziale, Conativa. (Per maggiori approfondimenti, si veda Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, cit.).
[3] L’interpellazione è vista al cinema come punto di interdetto: si strappa il tessuto della finzione, perché emerge una coscienza metalinguistica che svelando il gioco lo distrugge; è un attentato al buon funzionamento di una rappresentazione filmica. Però questo divieto non è costante: varia a livello di luoghi, di generi (per esempio. guardare negli occhi lo spettatore di un film di avventura è proibito, ma lo si può fare in un musical), e a livello di mezzi impiegati: non è quasi mai proibito rivolgersi alla telecamera, mentre lo è quasi sempre farlo con la cinepresa. Anzi, in certe situazioni il divieto si trasforma in obbligo: quando bisogna assicurare lo spettatore che è proprio lui il destinatario di ciò che sta vedendo e udendo, quando l’utilità di un contatto è più forte dei rischi che il suo stabilirsi comporta (è quanto sostiene F. Casetti in Dentro lo sguardo, cit., p. 26). Una situazione in cui il divieto si trasforma in obbligo (magari per questioni puramente economiche) è proprio il videoclip, che deve agganciare lo spettatore assicurandolo che si indirizza proprio a lui. E nel videoclip la funzione fàtica è di un’importanza fondamentale: il rischio che si corre è meno forte rispetto all’utilità dello stabilire il contatto.
[4] Il concetto della necessità della presenza del destinatario è stato sottolineato da Nattiez, nell’ambito degli studi musicologici. Egli, basandosi sul modello delle forme simboliche di Molino, mette in rilievo il fatto che «(…) l’oggetto materiale, la traccia sulla carta dell’opera letteraria o musicale (…) non è pienamente realizzato come opera d’arte se non quando è letta, eseguita o percepita». (Per approfondimenti, si rimanda a J.J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia, EDT, Torino, 1987 e a J. Molino, Fait musical et sémiologie de la musique, in «Musique en Jeu», n. 17. Per una spiegazione chiara e sintetica, si può consultare l’utilissimo Ugo Volli, Il libro della comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 1994, in particolare il paragrafo 1.7: “Quinto concetto: comunicazione come scambio”, pp. 35-39).
[5] Per esempio, in un contesto nel quale la televisione accesa “tiene compagnia”, mentre si sta facendo qualcos’altro. In questo caso non si presta un’attenzione costante alle immagini, tenendo la musica come sottofondo, come accompagnamento. Si sarà attratti dalle immagini in particolari momenti, a intervalli irregolari: si potrà, per fare un esempio, essere incuriositi da un particolare momento della canzone, che porterà a volgere istintivamente gli occhi verso lo schermo. Oppure si potrà “guardare” la musica nei momenti in cui ci si vorrà concedere una pausa da ciò che si sta facendo; e così via. Importante è mettere in luce la funzione che la televisione svolge in questi casi: è un elettrodomestico (per dirla con lo studioso francese Pierre Sorlin, una “scatola da rumore”) che ci accompagna, ci tiene compagnia. Sul concetto di “boite à bruit” (contrapposizione rispetto a “boite à images”, modo in cui viene familiarmente chiamata la televisione, da cui l’intraducibile gioco di parole), cfr. Pierre Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, La Nuova Italia, Scandicci (FI), in particolare il capitolo V: “Televisione: una scatola da rumore?”, pp. 201-242.
[6] Si deve comunque precisare la differenza tra guardare e vedere: si può guardare senza vedere. Effettivamente è possibile guardare un videoclip senza vederlo: in questo caso si percepirà un flusso disordinato di immagini, senza prestare particolare attenzione a niente di preciso (accade qualcosa di simile quando si fissa qualcosa). È come se, al vedere, fosse associata una maggior attenzione rispetto a quanto avviene col guardare.
[7] In questo caso ci si è rifatti al concetto di sutura. Si veda J.P. Oudart, “La suture”, in Cahiers du cinéma, n. 211-212, 1969. Per una spiegazione, si veda anche F. Casetti, Teorie del cinema, cit., pp. 176-177.
[8] È interessante rilevare l’uso del termine “colonna audio”; questo termine è la principale differenza fra il film e il videoclip. Mentre al cinema la colonna audio non esiste, si può sostenere che invece nel video musicale sia presente. Ci si riferisce in questo caso a quanto sostenuto da Chion: secondo l’autore infatti i suoni del film non formano, considerati separatamente dall’immagine, un complesso dotato in sé di un’unità interna che dovrebbe confrontarsi globalmente con la colonna immagine. I suoni del film non formano una totalità unitaria. (Cfr. M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 40). Nel videoclip, invece, la parte musicale costituisce un’unità interna di per sé, una totalità unitaria: preso separatamente dall’immagine, il brano musicale (contrariamente a quanto avviene nel film) ha una sua autonomia e indipendenza, da contrapporre alla colonna immagine.
[9] In particolare: “io vedo” chiama in causa il Destinatario e il canale: l’occhio. “Ritagliare” corrisponde all’Emittente, ma chiama in causa anche uno dei due elementi che costituiscono il Messaggio: le immagini. Infine “riattaccare” corrisponde all’altro elemento del Messaggio: la musica e di nuovo al Destinatario.
[10] Questo qualcuno nello schema della comunicazione di Jakobson si situa sul versante del destinatario.
[11] Si pensi per esempio all’ellissi.
[12] F. Colombo, Ombre sintetiche, cit. , p. 31.
[13] Cfr. C. Metz, Cinema e psicanalisi, cit. , p. 85.
[14] G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 11.
[15] Cfr. G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 59. (Per approfondimenti, si veda il capitolo “Il linguaggio del clip oltre la videomusica”, pp. 131-162).
[16] Cfr.G. Sibilla, Musica da vedere, cit., capitolo “Ritagliarsi uno spazio: il videoclip nel palinsesto”, pp. 59-130.
[17] G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 59.
[18] Cfr. G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 11.
[19] Cfr. M. W. Bruno, “Clip”, in Segnocinema, n. 93, settembre 1999.
[20] Passaparola. Parole nuove e neonuove in economia, politica e costume, Il Sole 24 Ore, Milano, 1987.
[21] Dick Hebdige, La lambretta e il videoclip – cose e consumi dell’immaginario contemporaneo, E.D.T., Torino, 1991, p. 252. (Tit. or. Hiding in the light. On images and things, Comedia/Routledge, London, 1988).
[22] Una conferma a questa supposizione è data da B. Di Marino, Clip., cit., p. 68.
[23] Passaparola. Parole nuove e neonuove in economia, politica e costume, Il Sole 24 Ore, Milano, 1987.


[24] Cfr. Ugo Volli, Il libro della comunicazione, cit., p. 23.
[25] Per dirlo con le parole di Sorlin: «Con il videoclip lo schermo sollecita l’occhio senza forzarlo». (P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, cit., p. 237).
[26] Claudio Quarantotto, Dizionario della musica pop e rock, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994.
[27]  F. Colombo, Ombre sintetiche, cit., p. 30.
[28] Cfr. il paragrafo 2.2.: «cos’è il “videoclip musicale”».
[29] A. Abruzzese, F. Colombo, Dizionario della pubblicità, Zanichelli, Bologna, 1994.
[30] Cfr. il paragrafo 2.2: «cos’è il “videoclip musicale”».
[31] M. Chion, L’audiovisione, cit., p.137.
[32] François Jost, “Approche narratologique des combinaisons audio-visuelles”, in Les Musiques des Films, Vibrations- Musiques, Medias, Societe, n.4 gennaio 1987, ed. Privat, Paris, p. 53.
[33] Benoit Peeters, entretien a Jean-Pierre Berkmans (in B. Peeters, Autour du scénario – Cinéma, b.d., roman-photo, vidéoclip, publicité, littérature, Univ. De Bruxelles, Bruxelles, 1986, p. 215).
[34] G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 30.
[35] Cfr. G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 31.
[36] Ibidem.
[37] La stessa idea sarà poi ripresa dalla pubblicità del Cornetto Algida.
[38] Il pop britannico, del quale i Blur sono stati i maggiori esponenti. Si tratta di un genere musicale orecchiabile, con ritornelli facilmente memorizzabili: “con tutti quei lalalala, nananana, che hanno fatto dei Blur (il nome significa macchia sfocata, ma anche suono indistinto) una sorta di Smiths anni ‘90”. (Cfr. L. Nicoli, Music Box , cit., p. 186). I Blur hanno avuto un enorme successo tra il 1995 e il 1997.
[39] Cfr., nel paragrafo 2.3.1.1: “Io vedo”, nota 190.
[40] In questo caso, si è fatta un’analisi della storia riferendosi a ciò che è stato teorizzato da A.J.Greimas: per una spiegazione si veda U. Volli, Il libro della comunicazione, pp. 175-179. Per affrontare l’argomento così come è stato teorizzato dallo studioso, cfr. A.J. Greimas, Del Senso, Bompiani, Milano, 1974 e Del Senso II, Bompiani, Milano, 1984.
[41] G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 30 (corsivo nell’originale).
[42] Cfr. G. Sibilla, Musica da vedere, cit , p. 36.
[43] Si noterà che questa funzione, quindi, vale per tutti e tre i generi che Sibilla ha proposto.
[44] Noto per il restyling de L’uomo ragno.
[45] Solo per citare due esempi, si pensi alla sequenza del rapimento della piccola Elsie in M, il mostro di Dusseldorf (Fritz Lang, 1931), ma anche alla sequenza dell’apparizione del “predicatore cattivo” ne La morte corre sul fiume (Charles Laughton, 1955). Per approfondimenti, cfr. Rondolino, Tomasi, Manuale del film, cit., pp. 99-108 e 70-73.
[46] Cfr. Klaus-Ernst Behne, Zur Rezeptionspsychologiekommerzieller Video-Klips, in K.-E. Behne (cura di), Film.-Musik-Video oder Die Konkurrenz von Auge und Ohr, Gustav Bosse Verlag, Regensburg, 1987, p. 123. (La figura proposta è stata ripresa da E. Simeon, Manuale di storia della musica nel cinema, cit., p.86).
[47] G. Sibilla, Musica da vedere, .cit., p. 38.
[48] O meglio, avrebbe sfruttato altre strategie, quali ad esempio, apparizioni televisive, interviste sui vari media, merchandising. E la sua immagine sarebbe stata il risultato di molteplici canali di diffusione. Col videoclip invece la strada si rivela senz’altro meno faticosa.
[49] D. Cassandro, “Il video sono io”, in Vedere la musica. Dieci anni di videoclip, a cura di B. Di Marino, D. Cassandro, R. Grassi, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1995, p. 11. Citato da B. Di Marino, Clip., cit., p. 49.
[50] In realtà non era scomparsa del tutto dalla scena musicale, ma riappariva sporadicamente grazie a collaborazioni con altri artisti: importante resta quella con Nick Cave (Where the Wild Roses Grow), accompagnata da un video “narrativo” molto significativo, all’interno del quale la cantante impersonava la donna amata (e uccisa) da Cave, quasi una nuova Ofelia di J.E. Millais, accompagnata dal testo della canzone che narrava del rapporto fra i due.
[51] Si pensi a Everybody Hurts, Lotus, Daysleeper, solo per citarne alcuni, oltre ai già menzionati What’s The Frequency, Kenneth? e The great Beyond. (Si veda il paragrafo 2.3.3.7 “Il Messaggio: tre generi di videoclip”).
[52] Cfr. E. A. Kaplan, Rocking around the clock., cit., p. 12. In questo testo l’autrice sostiene che il videoclip è un tipico oggetto del postmoderno.
[53] G. Sibilla si mantiene su toni cauti: «Il videoclip si trova quindi a dover rielaborare un testo già “debole” nelle sue strutture narrative, ma comunque con un senso già costituito. La strada scelta è raramente una pura interpretazione letterale/visualizzazione delle parole della canzone; quando accade non mancano gli effetti tragicomici», fornendo poi in nota l’esempio, appunto, di Fotoromanza. (G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p.21 e nota 13 del cap. I). Di Marino, invece non risparmia giudizi pesanti: «Fotoromanza è il caso più eclatante di come non si deve fare un clip. Antonioni in pratica traduce alla lettera tutto il testo, risparmiandoci solo la Nannini che lecca un bel cono gigante sotto la frase “un gelato al veleno” (…) l’autore ridicolizza se stesso e la canzone». (B. Di Marino, Clip, cit., p. 21).
[54] In realtà, uno sguardo attento si accorge che la bara portata a spalle è troppo lunga per essere quella di un nano. Ma a una prima visione non vi si fa caso, convinti come si è di quello che sta accadendo.
[55] Anche se non si capisce il testo, basta il titolo della canzone a dircelo.
[56] È un esempio di interpellazione di cui si è fatto cenno alla nota n. 190. 
[57] O, se c’è testo, esso è composto da una o due frasi ripetute infinite volte nel corso del brano musicale.
[58] B. Di Marino, Clip., cit., p. 23.
[59] Ibidem.
[60] L’ellissi è quel procedimento per cui in un film, a una durata determinata del tempo della storia non corrisponde nessuna durata del tempo del racconto. Una famosissima ellissi è quella che segna la fine dell’episodio iniziale di 2001: Odissea nello spazio (2001, A space Odissey, di S. Kubrick, 1968). “Guarda la luna” getta il suo osso in aria. Dopo lo stacco di montaggio, segue l’inquadratura di un’astronave.
[61] Tra il momento in cui la pastasciutta è stata impacchettata e quello in cui è arrivata a destinazione.
[62]Cfr. M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 49.
[63]Ove le frasi musicali corrispondono, continuando il paragone con la definizione di leitmotiv musicale, al personaggio chiave e i ritornelli alle idee forza.
[64] Cfr. M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 48.
[65] M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 55.
[66] Ivi, p. 56.
[67] Lo spettatore vede un televisore che trasmette l’immagine distorta di un essere di colore azzurro fluorescente nel momento in cui sente nel brano musicale la frase “come to daddy”.
[68]La parola è formata dalla combinazione di “sincronismo” e “sintesi”. (M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 58).
[69] Non tutto il videoclip infatti, facilita lo spettatore con sottotitoli che visualizzano il testo. Vi sono molti punti nei quali queste tracce grafiche visualizzano frasi che differiscono da quelle della canzone.
[70] Tramite il lettering si visualizzano sullo schermo delle parole o delle frasi, spesso prese dal testo della canzone.
[71] L. Nicoli la pensa allo stesso modo, anche se suggerisce che potrebbe essere un alieno o un extraterrestre. (Cfr. L. Nicoli, Music Box, in B. Di Marino, Clip., cit, p. 182).
[72] B. Di Marino, Clip, cit., p. 134.
[73] Si veda D. Ebdige, La lambretta e il videoclip. Cose & consumi dell’immaginario contemporaneo, E.D.T., Torino, 1991, in particolare il capitolo 12: Postscriptum 4: imparare a vivere sulla strada verso il nessun dove, pp. 247-262.
[74] Si è trovato questo concetto in P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo,La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 227, laddove l’autore cita S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche, Parma, 1990, p. 58 .
[75] P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, cit., p. 229.
[76] Di “teste parlanti” parla anche Sorlin…Un caso? (Cfr. P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, cit., p. 207).
[77] Cfr. L. Nicoli, Music box, cit., p. 157.
[78] D. Hebdige, La Lambretta e il Videoclip, cit., p. 250.
[79] Ibidem.
[80] D. Hebdige, La lambretta e il videoclip, cit., p. 254
[81] G. Sibilla, Musica da vedere, cit., p. 41.
[82] Cfr. F. Jost, Approche narratologique des combinaisons audio-visuelles, cit., p. 46.
[83] P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, cit., p. 232.
[84] Cfr. M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 46.
[85] M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 74
[86] Ibidem.
[87] Cfr. F. Jost, Approche narratologique des combinaisons audio-visuelles, cit., p. 53.
[88] Cfr. il paragrafo 1.7: “Il cinema sonoro: le funzioni della musica nei confronti dell’immagine”.
[89] Cfr. il paragrafo 3.4: “L’analisi di Around The World”.

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