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Scrittura

La tela di Penelope

Immagine articolo Fucine MuteIn questo contesto pieno di libri, di gente, di percorsi, voglio riportare l’attenzione sul rapporto tra un autore e la sua opera e soprattutto su ciò che accade all’opera nelle mani di un editore. Per me è un percorso non scontato, che implica una ricerca — si devono affidare ad una persona anni delle propria ricerca interiore. Questo è un luogo importante per ricordare il ruolo del libro, che ha un significato di coralità: non è soltanto un autore o una autrice ma anche il grande lavoro di un editore, il coraggio di una pubblicazione e nel mio caso anche l’innesto di un pittore. Diventa allora questa pubblicazione un atto di corale responsabilità e di esposizione per le molte persone che fanno il libro. Questo non è il mio libro, ma è un’opera a più mani. Non importa sapere chi è Anna Maria Farabbi, importa sapere invece che nasce dalla poesia. Per me la poesia è corrente elettrica e necessita di me come io necessito di lei: per sopravviverla ho bisogno di una grande forza muscolare e dentro questa sono attraversata, assorbita. Questa corrente elettrica entro cui io vivo giorno e notte, implica una forza interiore e muscolare, implica un attraversamento, un alfabeto, e nel mio caso l’alfabeto della lingua italiana. Questo basta per presentare chi sono almeno per l’aspetto dell’intenzionalità.

Questo libro nasce per la pazienza del mio editore, Lietocolle, che mi ha incastrata in questa cosa qui. Tutto nacque tre anni fa quando Michelangelo Camilliti mi chiese di dare vita alla rubrica “Tela di Penelope” dentro la sua rivista Ulisse. Affrontai di petto questa rubrica, senza pensare alla metafora dettatami dal titolo, e così l’immagine della tela poté tatuarmi. Iniziò il mio viaggio all’interno del poema omerico, che già conoscevo, ma mi appassionò ripercorrerlo dal punto di vista femminile tentando di orientarmi da un tessuto pre-omerico, da uno studio sulla civiltà minoica attraverso le letture di Marija Gimbutas e Joanna Papdopoulou-Belmehdi.
Ho cercato di oltrepassare la lente del mito greco, rovesciando l’immagine di una passiva e languente Penelope (come per anni e anni una certa critica ce l’ha imposta) e cercando di togliere anche l’innamoramento per Ulisse, per un viaggio che è sì quello del personaggio omerico, un andare orizzontale per il mare, ma anche un viaggio dentro la propria interiorità e che non è catalogabile come “immobilità” di Penelope. Entrare in un mito è un’operazione pericolosa e può diventare retorica. Se l’ho fatto è perché come donna e scrittrice mi interessava per la presenza di archetipi occidentali fortissimi, che ancora oggi resistono e che hanno immobilizzato e immobilizzano molta cultura. Questo libro agisce grazie ad una tessitura narrativa apparentemente autobiografica e saggistica, grazie ad un impasto scrittorio apparentemente confuso e onirico. La poesia che vado a leggere si riferisce ad una grande metafora del poema omerico che ha delle ripercussioni incredibili in tutto l’occidente, “La tela”. Ad esempio siamo qui a Torino e troviamo uno dei grandi rimpasti di questo concetto nella sindone.

La tela

Lavoro il filo
per la necessità di abitare il mio corpo
in un punto interiore
da cui tessere un ordine preciso:

espressione organica
poema camminabile
trappola per chi non sa leggere

l’origine e l’orizzonte del segno.

Immagine articolo Fucine Mute

L’odissea è un poema sonoro poiché in ogni punto c’è la sonorità del mare e il mare è un andare orizzontale, la perlustrazione del mediterraneo che viene compiuta da Ulisse. all’interno della casa dove resta Penelope per anni c’è un’altra sonorità: il chiacchericcio dei Proci, ma anche il suono che possiamo trovare nella scuola. Io ho avuto fortuna di visitare un laboratorio di tessitura a Perugia in una vecchia e medioevale chiesa sconsacrata: c’erano questi grandi telai del ‘400. Praticare la tessitura — che è una soluzione letteraria molto sublimata — necessita di muscoli veramente eroici. La signora che tesseva mi ha fatto sentire il suo braccio, ed era un braccio di ferro. C’è inoltre un andare e un tornare della spola, una scansione ritmica che ricongiunge l’atto del braccio con quello del piede. Questo movimento che è esterno io lo sento all’interno del corpo di Penelope: questo fare e disfare di Penelope ha la stessa sonorità di una progettualità che la conduce in venti anni a mantenere in nome di Ulisse la casa e il patrimonio, la sua maternità, la terra. Tutto questo comporta uno sforzo interiore, un linguaggio di grande identità che si regge nel riconoscimento di una propria umanità, non donna isolata dunque, ma donna che rimane. Da qui la fedeltà nella responsabilità di un rapporto.
Ci sono dei momenti suggestivi molto emozionanti come l’incontro con Tiresia, un uomo cieco. Questo fatto sta a significare l’incontro con la sapienza assoluta e con le sue orbite. La cecità è un altro punto fondamentale del poema, poiché il poeta è cieco e grazie alla propria oralità sostiene non solo la corrente culturale, ma pure il vivere quotidiano. Il pensare che in questo vuoto esista una pienezza interiore mi ha fatto scrivere questo:

Studiando le orbite di Tiresia. Nella piazzetta di Montelovesco, accanto al pozzo.
Una notte d’agosto.
Mia madre mi presenta lo stellatore. Guardo il vecchio mentre lentamente tasta la pietra circolare del pozzo. Non parla. Si china verso la profondità ascoltando. Guardando dentro. Fin da bambino lavorava le stelle, dice la mamma, non per amore del cielo ma per incorporarle alla terra: a se stesso. Per succhiarne la lucentezza comunicativa. Si accecò solo quando si servì del pozzo utilizzandolo come specchio d’ingrandimento. La luce nel buio acqueo rimbalzando gli bruciò la faccia, l’attimo dopo in cui vide.

In questo testo mi riallaccio al perché Tiresia divenne cieco.

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