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Palcoscenico

Urca, che tempi!

monolo-Ghetti Es-teriori

muore dio
le donne vecchie si alzano come ogni giorno
all’alba comprano il pane il vino il pesce

Tadeusz Rozewicz, Racconto sulle donne vecchie

Immagine articolo Fucine Mute

Ma che bella giornata di sole. Che belle nuvole bianche. Che belle nuvole bianche e caste. Che strade pulite. Ho piantato due piante. Ho steso due paia di mutande in balcone. Le mutande sembrano più bianche nelle belle giornate di sole. Non si vede nemmeno il solito filino marrone in controluce, quello che non si lava via col terzo lavaggio a 60 gradi. Il filino marrone che ognuno di noi nasconde gelosamente. Il filino che ci unisce, a noi esseri umani, belli, bianchi, casti, puliti. Io non mi vergogno del mio filino. Lo levigo con pazienza, me l’ha insegnato un frate, uno di quei frati tutti d’un pezzo, quelli che vanno senza saio e senza mutande, e che lavano ancora a mano. «Perché più hai le mani sporche, più hai le mani giuste per pregare» diceva sempre. «Ma io non credo» gli dicevo. «Insozza le tue mani di sterco e sudore, la fede verrà da sé» diceva. Da quella volta presi a lavare a mano, senza sapone. Iniziai con le mie mutande, poi passai alle mutande della mia ragazza, poi a quelle di mia madre (erano tanto belle le mutande di mia madre), poi passai a quelle di mio padre (erano tanto brutte quelle di mio padre) e così avanti, le mutande del mio vicino, quelle dei suoi parenti, e poi le mutande dell’intero condominio, dell’amministratore del condominio, del caseggiato e via via, finoa farmi tutto il rione, e poi due rioni, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, bam! L’intera città nelle mie mani. Mi resi conto giorno dopo giorno che c’erano filini più simili ad altri filini: quelli lunghi e sottili, solitamente con poco spessore e leggermente sbiaditi, eleganti; quelli corti e spessi, a volte incrostati, a chiazze, con una certa, come dire, una certa scontrosa grazia; e i filini ondulati, sguiscianti come pitoni, intriganti come cobra, pronti a morderti da un momento all’altro; i concentrici, onde di stagno, geometricamente perfetti, esasperanti per pignoleria; infine gli irregolari, in cui era impossibile rintracciare alcuna forma ripetuta, filini inclassificabili, anarchici, pericolosi. La mia vita non conosceva soste. Giorno e notte mi venivano recapitati a casa quintali di mutande. Arrivavano in busta o in pacco, in scatole di cartone o in vere e proprie casse di legno. Ecco, questo fu il secondo elemento rivoluzionario nella mia ricerca: a seconda di come si piegavano e spedivano le mutande, potevo allargare i parametri della classificazione: chi arrotolava, chi appallottolava, chi piegava in due, chi in tre, chi in quattro, chi non piegava; chi le riponeva direttamente nella busta e chi invece le imballava nel polistirolo, nella carta da giornale, nel nylon, chi eccetera eccetera. Ognuno aveva il suo metodo. Ed io prendevo nota, confrontavo dati, facevo statistiche e ottenevo percentuali. Lavavo e meditavo, meditavo e lavavo, contemporaneamente. Con la destra toglievo lo sporco, con la sinistra scrivevo. Quella che all’inizio era stata una semplice intuizione divenne nel tempo una teoria, dapprima confusa, poi sempre più ordinata, con corollari che di diramavano in altri corollari, corolla dopo corolla, teorema mangia teorema. Un semplice filino aveva generato una ragnatela di fili intrecciati indissolubilmente. Avevo creato un nuovo sistema filosofico. Ma un bel giorno accadde qualcosa di inaspettato: suonò il campanello. Corsi ad aprire pensando fosse il postino con il solito carico del mattino, invece no, mi sbagliavo. Era il frate. Mi guardò, mi prese le mani e disse: «Figluolo, ora che hai le mani sporche di sterco e sudore, ora puoi smettere». Io rimasi attonito una decina di secondi, poi dissi: «Ma ancora non credo». Fu allora che dopo avermele strette, congiunse le mie mani e disse: «Non importa, ora hai le mani giuste per pregare». E non feci a tempo a rispondere che se n’era già andato via con tutti i miei carichi di mutande sporche. Ero solo, e la casa non era più la stessa. Andai alla finestra. C’era un bel sole in cielo, e nuvole bianche e caste. Le strade erano pulite. Sui balconi delle case intorno migliaia di mutande risplendevano come diamanti. Non ci volle molto per capire che la mia filosofia era lì, appesa a brutti stendibiancheria di plastica, con delle mollette comprate al mercato. Una filosofia popolare, genuina, sospesa a mezz’aria, rivolta al cielo eppure non lontana dagli uomini. Eterna e quotidiana. Fu in quel preciso istante che mi lavai le mani. E dopo averle infilate in tasca, come niente fosse, iniziai a credere.


Durano sì certe amorose intese
quanto una vita e più.
Io so un amore che ha durato un mese,
e vero amore fu.

Umberto Saba, L’addio

Immagine articolo Fucine Mute

Ehi tu, tieni ferma quella testaccia, miseriaccia boia! Mannaia minchia che non si può più lavorare, non si può! Una volta, eh sì che una volta c’era rispetto per i lavoratori, altro che oggi. La dignità era una cosa seria una volta. Lei è un ladro? Venga, venga signor ladro, si accomodi, no no no, ma si figuri, dopo di lei, ma no, le ho detto dopo di lei, ci mancherebbe altro, prego. Una sigaretta? Con il filtro o senza? Senza, vero? Me l’immaginavo, d’altronde si vede che lei è un ladro serio, un degustastore di tabacco non può che essere un onesto lavoratore. Cosa? Non si preoccupi, la cesta è bella grande, certo certo signor ladro, no no no, ma per carità, ma quale mancia e mancia, è il mio lavoro, sono a qui a sua disposizione, che diavolo. Oh, mi lusinga, oh, la smetta, oh. Il cliente prima di tutto. Bene, si va? Arrivederci, arrivederla signor ladro. Capite? C’era un galateo da rispettare. Non come oggi, boia di un mondo cane. Oggi tutto è sindacabile. è fissato per domani alle 7? E io ti piazzo un’ora prima uno scioperino, ah. Tanto chi ci va di mezzo non è mica lui, il signorino, no, chi paga sulla sua testa sono io quello, che a me, a me mi pagano a cottimo, boia di una stramaledetta accetta. L’anno scorso mi chiamano da New York, mi dicono: «Ehi, John (chissà perché Salvatore in americano fa John, mah) prendi treno e vieni qui ore 20», e mettono giù il telefono. Ouh, ma col treno ci vengo a New York? No problem. Mi hanno tagliato la luce da un mese, quel money mi serve. Faccio la valigia e parto. Arrivo lì in orario. Sono un professionista io, mi pagano a lavoro fatto, se non lavoro bene non mangio, io, mica quelli lì, in fabbrica, che si incatenano all’auto del padrone per un po’ d’amianto. Non hanno visto il colera, i signorini! «John, come with me e prepara arnesi» sì, sì, arrivo, che bisogno c’è di gridare davanti a tutti, ditemi che bisogno c’è. Vogliono fottermi la dignità? E fottete, fottete miei cari, ma con un minimo di eleganza! Be’, lasciamo stare. Arrivo nella mia stanza. Due metri per due, una scrivania con una lampada di plexiglas, un bicchiere d’acqua, un pacchetto di marlboro dure, un cappuccio marrone sulla sedia. Straboia che non sono altro!!! Ma allora mi state fottendo, e ditelo, ditelo che mi state tutti dietro per fottermi, ditelo che vi ci dò la vasellina almeno, vergaccia boia di una vacca! Ah, una volta, una volta sì che ero qualcuno, io. Una suite mi si dava, con tanto di tinello e di schiava, e gin, gin a fiumi! Oggi tutti salutisti, oggi. Porta via la cellulite, l’acqua, dicono. Chissà dove minchia andrà a finire ‘sta cellulite. Buongiorno signorina cellulite, come sta? Serve un passaggio? Ah, ho capito, va a piedi che le fa bene, vada allora, vada vada che io vado alla festa della birra. Arrivederla, tanto piacere! Ah! Capite? Una scrivania da banchiere impotente, a me, me che sono un bohemien. E la lampada? Cosa ci devo fare con una lampadina rosa in plexigas, me la volete ficcare pure quella nel deretano? Allora ficcate, e poi accendete la luce, finocchioni, vedrete quanti spettacoli lì dentro, è teatro d’avanguardia quello lì! Urca. Che tempi. Ma la cosa più grave, ciò che davvero mi costrinse ad abbandonare l’incarico definitivamente fu, cos’altro fu, secondo voi, se non la disgustosa visione di quel cappuccio color cacca. Un letamoso, diarreico, emorroidico straccio made in Taiwan con due buchi mal ricuciti davanti. Una escremontosa e vergognosissima merda! Ohi! Farsi fottere va bene, ma non fino a questo punto. Sono un boia, io. Il mio cappuccio deve essere in seta nera. Il tabacco deve essere cubano, red high quality, e rollo io la cicca, perché quella cicca lì la fumerà il cliente, e al cliente ci penso io, è mio, il cliente. Sono io che gli strappo dal collo la testolina, ricordatevelo. Io che dirigo l’orchestra. Io che lo confesso, io che lo consolo, io che gli metto una buona parola con l’altro mondo. Sono io, il boia. Amo il mio cliente più di qualsiasi altra creatura. Per questo non mi sono mai sposato. Sono un professionista, anzi no, “il professionista”. Sapete quanto dura un vero amore? Il tempo di far calare la lama. The end. E mentre i signorini si stringono le mani a 24 carati, e i post-hippies figli di paparino manifestano davanti ai cancelli fino all’alba (che tanto domani non vanno mica a lavorare, loro), sono io che raccolgo quel che resta del mio amore. Io che lo lavo. Io che lo ricordo. Lavoro a cottimo, io. I sindacati sono roba vostra. L’amore, quello con la A maiuscola, boia che non sono altro, quell’amore lì, è roba mia.


C’è una claustrofilia profonda alla radice
di ogni volontà di conservare il cadavere.

Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario

Immagine articolo Fucine Mute

Aprire i cancelli laterali! Ora via con la carrucola, andiamo, sganciare le sbarre, via col cancello d’entrata! Si apre, ripeto, si apre! Oh, issa, bisognerà oliare questi cardini o mi verrà l’ernia a furia di spingere ogni santa mattina. Avanti, avanti, signora, che aspetta, suo marito è di lì, non si è mosso di un metro, si muova, su, non mi intasi l’ingresso! Che fa, provoca? Ma si sbrighi, vecchia ciabatta, e stia attenta a non cadere in qualche fossa come la sua amica, che poi mi vien la voglia di lasciarla lì. Andiamo gente, circolare, muovete i vostri sederoni, non stazionate, circolare, e ricordatevi di timbrare il cartellino, dai, andiamo, avete un’ora esatta da adesso! Uff, che fatica. Da quando ho adottato il sistema a fasce orarie, c’ho sior infarto che mi sta alle costole, il vigliacco, ma non gli darò la soddisfazione, ih, piuttosto un ictus fulminante e buonanotte al secchio. Ehi, signore, che fa, mi sosta nel piazzale? Non vede che ho 3 carri in arrivo dall’entrata est? Faccia presto, o il corteo la schiaccierà senza troppi convenevoli. No, ma che scherzi e scherzi. Sono vivi, quelli, non si fermano davanti a niente. Non li vede? Alzano un polverone che nemmeno una mandria di buoi. Si calmi, signore, se vuole protestare vada a farlo in bus. Bla bla bla, come no, bene, ora vada, ci penserò io a sua moglie, vedrà che bel crisantemo le porto. Arrivederla, a presto! Vai vai rancido prostataro, tanto mi sa che arrivi qua orizzontale la prossima volta, ah! Che fatica, che fatica.Il fatto è che la gente vorrebbe occuparmi lo spazio per ore. Vengono qui a bivaccare. Avidi, tutti avidi. Arrivano la mattina presto con la scusa del morto, ma glielo leggi sul volto che è una scusa, da come ti chiedono: «Mi scusi, signor guardiano, sto cercando mio padre, sa dove lo posso trovare?». Ma dico io, mi ha scambiato per un timbracedole dell’anagrafe? Come se ci fosse solo suo padre qua dentro. Così li devi accompagnare a cercare il papino, e intanto i perfidi usufruiscono dei miei vialetti e delle fontanelle, trafugano fiori e candele non appena ti giri un attimo, ma non li puoi denunciare, non che non si può, che tanto alla fine dicono che la roba ce l’avevano già prima di entrare, i farabutti. è una battaglia quotidiana. Ma la guerra, la guerra totale comincia inprimavera. Lo vedi subito all’alba che sarà una giornata dura. Il primo tepore fa uscire dal letargo i vecchi più putridi, le muffe ambulanti, quelli che hanno la bocca impastata e gli occhi iniettati di odio. Sono loro i nemici. Partono da casa alle 4 per essere prima delle 6 di fronte al mio cancello. Hanno il cappotto grigio in tinta coi denti e medaglie della prima guerra appuntate ovunque. Quelli più riservati ne tengono una, all’occhiello, e attendono nella penombra, dietro la baracca che vende fiori. Nel piazzale, lenti ma inesorabili, marciano i reduci pluripremiati, gli indistruttibili, insigniti da decine di presidenti della repubblica, i presenzialisti. Saranno loro a occupare il prato interno fino all’orario di chiusura, infestando l’aria con racconti di guerra. Infine, gli invisibili. Quelli dei reparti speciali, lentissimi ma capaci di sopravvivere a tutto. Loro non aspettano nemmeno che apra il cancello, scavalcano il muro sul retro per accaparrarsi le panchine migliori, accanto alle tombe dei generali più gloriosi, solitamente d’armata o di divisione, mai di brigata. Non parlano, ma le loro ciglia aggrottate incombono su tutto e su tutti, come avvoltoi, ombre di malaugurio, di malaffare. A loro non ho mai detto niente. Il sistema delle fasce orarie funziona per tutti gli altri, perlomeno. In questa maniera si garantisce il ricambio della clientela. Con la media di venti funerali al giorno non posso permettere che un gatto guercio o una vedova gobba mi intralcino il lavoro. La cosa migliore sarebbe che ognuno si tenesse il proprio morto a casa sua. La cosa avrebbe anche una notevole utilità sociale. Si rinsalderebbe il concetto di famiglia allargata, si riscoprirebbero il senso del tempo, la consistenza del corpo umano, la sua inevitabile decomposizione, il ritorno alla terra, e di lì la terra-madre, la tribù, il totem, il mito, e bla e bla e bla bla bla, ah. L’ho proposto alla giunta comunale. Ma non rispondono. Eppure sarebbe un toccasana per tutti. La Società Antropologica Internazionale mi ha dato ufficialmente il suo appoggio via fax proprio ieri mattina. Ora aspetto il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, per quello della Sanità non mi faccio troppe illusioni. I tempi saranno lunghi, si sa, così intanto procedo alla ottimizzazione del campo. Devo fare posto nell’ala sud, quella in battuta di vento. Dovrebbe arrivare un carico di giovanotti freschi freschi verso le 11, una squadra di calcio, mi pare. E voglio proprio vedere se non saranno contenti, c’è gente che si ammazzerebbe per avere quei loculi lì. è che oggi mi sento buono, avranno il tempo di mostrarmi riconoscenza, i ragazzi. Sono un guardiano generoso. Ma che fatica, gente, che fatica.

La mia dimore è breve, lunga un palpito soltanto.
Può esser che sia qui dove son ora,
forse né qui né dove sto andando.

Miroslav Košuta, In qualche posto, ma dove

Immagine articolo Fucine Mute

Documenti, prego. ‘Mbé? Che fa, temporeggia? Esibisca il passaporto, si sbrighi, guardi che fila di macchine che ha fatto fare. Ah, non ha il passaporto. Bene, bene, bene. E dalla faccia direi che è pure extra-comunitario. Mo’ ci divertiamo. Accosti, sia così gentile. Ehi! Cosa sta facendo, dove va, ehi lei, si fermi, ostregheta, fermate quella macchina! Ouh, che state lì impalati come sardoni, mammolette che non siete altro, non vedete che il negro se la batte? Che? Non fa niente di male? Ma porca zozza, vi devo mettere a rapporto per insubordinazione? Presto! Che disfatta, che disfatta, se non mi degradano stavolta, mi strappo le stellette a morsi da solo, clandestiniddio. Barbari, tutti barbari. La fanno facile loro. Se ne stanno a Bruxelles a pontificare pace e fratellanza, i signorotti. Avessero mai passato una notte in gabbiotto, i lords, a vidimare permessi di soggiorno e fumare nazionali senza filtro. «Abbattiamo le frontiere!» sbottano, mentre si fanno abbattere da un bel mignottone arrivato sull’ultimo tir turco della mattinata. La fanno facile loro. Mica hanno mai messo la testa sotto il sedile posteriore di un’autocisterna ucraina. C’è più roba là sotto che in una discarica di rifiuti tossici. Ma che ci volete fare, alla fine li facciamo passare. Perché son poveracci come a noi, quelli. Per due bottiglie di vodka sono capaci di farsi duemila chilometri tra le montagne. E quando arrivano da noi c’hanno un odore che sterminerebbero un porcile. Ma noi mica lo facciamo notare, ché siamo brava gente, noi. Noi ci viviamo sul confine. Il confine puzza di morti di fame. Poi ogni tanto passa il fighetto platinato in cabriolet che va a imboscarsi con la bambina, va dall’altra parte, che dall’altra parte il bosco è ancora rigoglioso e non ti vengono a spaccare i marroni per una sveltina. E noi sorridiamo. Mentre il fighetto gelatinoso c’ha un sorriso di sprezzo che gli spaccherei i denti, bastardo, vieni vieni a lavorare con noi, bamboccio, e vedrai se t’avanzerà il tempo per le scopatine di straforo. Puah! Che cazzo ne sapete voi del confine, eh? Sapeste quanto ne ho il cazzo pieno delle vostre manifestazioni di pace. Facile per voi venire qui il sabato pomeriggio con la faccia pitturata e il cannoncino in bocca. Tutti li portate su, ma che bravi che siete, dal negretto deforme al cinesino nano, tutti, la famiglia addams fate, da farvi un ritratto, cazzo. Ma dite un po’, quei relitti che fan vomitare solo a guardarli, quando arrivano, chi è che li raccatta? Eh? La vogliamo buttare lì un’ipotesina del cazzo? Perché mentre voi, grandi rivoluzionari dei mie zebedei, state in ufficio a smanettare su Internet, il signor fascio sottoscritto, che prende meno dell’ultimo metalmeccanico fiat, questo qui, che sarei io, il mercenario nazista asservito al capitalismo americano, proprio io, mentre voi vi fate le vostre seghe cattocomuniste sulla vostra scrivania in pelle anti-global, io nel frattempo mi infilo nel doppiofondo unto del rimorchio, controllo se ne è rimasto qualcuno vivo, a quello che ancora respira gli ficco quasi la lingua in gola per non farlo asfissiare, e poi lo trascino fuori. Oplà! Eccolo il monco che tra un mese mi porterete quassù nella vostra bella fiaccolata solidale! E fate non bene, ma più che bene, ad insegnare al monchetto che mi deve odiare. Perché sicuramente se domani lo vedo che salta la sbarra gli sparo come si spara a un leprotto. No? Vieni negretto, impara a memoria il mio nome, che un bel dì, se Signor Iddio ti conserva bello e sciancato come sei, avrai il tempo di vendicarti. Ah! Complimenti signori, unitevi, affratellatevi, baciatevi, fottetevi a vicenda, moltiplicatevi. Abbattete i confini, venite coi picconi a buttare giù ‘sti cazzo di muri, che non so se l’avete capito, ma se non li buttate giù voi, nel giro di due tre mesi vengon giù da soli. Il confine non è un’idea. Non è una vostra democratica sega mentale. Non è un film per cinefili pippaioli, né un incunabolo per pederasti con la cattedra di letteratura. Il confine è il muretto di pietre ammassate in giorni di pioggia, è l’orto tagliato in due del contadino qua a fianco, quello che ci porta il prosciutto la domenica e noi in cambio mettiamo il vinello comprato in licenza. Il confine, signori di Bruxelles, è il gabbiotto dove passo le notti mentre voi vi fate mettere a novanta da qualche simpatico primo ministro, è il letto dove me la faccio sotto quando sparano al cervo, è la sbarra di ferro su cui appoggio le cicche, mentre controllo la macchina con la famigliola che torna dal pic-nic, è il cesso dove quotidianamente mi siedo prima di montare il turno. Il confine è mio. Ho imparato a camminarci sul confine, come un funambolo sulla sua fune. Volete togliermi la mia fune? Siete sicuri? Fatelo, signori, non sarà di certo un pusillanime doganiere come me a impedirvelo. Ma quando l’avrete fatto, cari signori miei, pregherò il dio del confine, che saltella su una gamba sola e governa la terra di mezzo, lo pregherò giorno e notte affinché vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri cari torcano il viso da voi come una rana d’inverno.

Quattro monologhetti di Luigi Nacci per Fucine Mute, che ringrazia l’autore dei testi che vi apprestate a leggere.

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