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Palcoscenico

Adrijan Rustja

Le ultime lune

Immagine articolo Fucine MuteGiorgia Gelsi (GG): Siamo con Adrijan Rustja, attore e regista triestino legato da anni al Teatro Stabile Sloveno. In questi giorni porta in scena, sia in veste di regista che in veste di interprete principale, “Le ultime lune” di Furio Bordon. Anzitutto: com’è nata l’idea di portare in scena nella traduzione slovena, questo testo?

Adrijan Rustja (AR): Ho visto la prima di Mastroianni de “Le ultime lune” e ho detto: “Questo testo è qualcosa di speciale” e così lo volevo riprendere anche io. Quindi sono passati quasi dieci anni, dal ’95, dieci anni in cui anche il teatro sloveno ha onorato l’autore triestino, traducendolo ora nella sua lingua materna.

GG: Lei ha citato Marcello Mastroianni, che, appunto, ne “Le ultime lune” ha recitato per l’ultima volta a teatro… È una domanda un po’ provocatoria, ma lei sente il peso del confronto con Marcello Mastroianni?

AR: Se dovessi avere ogni volta il peso di tutti gli interpreti che hanno fatto qualche testo prima di noi, allora addio alla nostra partecipazione. Ognuno legge il testo in modo proprio. Io l’ho letto in un modo che non era rappresentato né da Mastroianni né da Tedeschi.

GG: Questo testo è stato tradotto in venti lingue, e ora, per l’appunto, c’è stata anche la traduzione in sloveno che ha avuto un grandissimo successo.Lei come lo spiega?La tematica è legata alla vecchiaia, quindi magari si potrebbe pensare che sia un testo solo per anziani, ma non è così, perché il pubblico è sempre eterogeneo nell’allestimento proposto al Teatro Stabile Rossetti dove aveva avuto molto successo anche presso i giovani. Ecco, perché questa fortuna?

AR: Credo che, proprio per il tema che svolge, questo non sia soltanto una reminiscenza del tempo che sta scorrendo verso la vecchiaia, ma una parte della drammaturgia che non si sviluppa nei testi. Parla piuttosto sia ai vecchi sia ai giovani, e forse più ai giovani che ai vecchi come ammonimento a ciò che può essere la vita di un uomo in queste condizioni. Il professore che interpreto non è un vecchio: nel testo dovrebbe avere almeno ottant’anni; io gliene ho dati dieci di meno… Comunque non è un vecchio decrepito: lui sa che andando via di casa, lasciando l’ambiente al figlio e ai nipoti, rinuncia a qualcosa. Però non vi rinuncia proprio spontaneamente perché pensa sempre che all’ultimo momento si ravvederà. Tuttavia obbligherà il figlio a restare con tutto il resto della famiglia; la vita non gli appare facile, almeno per come il testo ce la presenta. La moglie gli era morta abbastanza presto, quand’era ancora giovane, piena di ricordi, piena di speranza, era la sua vita. Gli era rimasto quindi il figlio con il quale, come ogni padre, non aveva quel feeling che invece ha con una madre. Quindi questa famiglia è cresciuta così, nel ricordo della madre scomparsa troppo presto. E lui, così come lo presento io, quando sta allontanandosi dalla propria abitazione e prepara tutte le cose che gli ricorderanno la sua vita passata, parla con la moglie; ma lei tanto potrebbe essere quanto non essere in scena, perché è tutto un insieme, tutto un monologo del vecchio che ricorda la vita passata e la vita che sta vivendo adesso nella casa di riposo. Ecco, io ho un po’ cambiato le carte in tavola all’autore — avendo ovviamente parlato prima con lui — ma l’ho fatto in modo che tutto l’insieme non si svolgesse in due scene differenti (nella casa natìa e poi nella casa di riposo), bensì in un’unica scena nella casa di riposo. Dunque il tempo che io rappresento sul palco al pubblico in sala è effettivamente il tempo reale. In quel tempo si svolge tutto quello che la gente vede. Questo cambiamento di scena, che all’inizio è rappresentato da un sottotetto di questa casa di riposo, si svolge in un modo misterioso in quanto chi lo provoca — la musica, la presenza costante della moglie, le idee del vecchio — riporta il tutto parecchi anni addietro in un flashback che si svolge. E in questa reminiscenza della vita passata lui discute con la moglie come vi discute nel testo di Furio Bordon. Comunque rimane un punto interrogativo su tutto ciò: quello di cui lui parla è veramente quello di cui ha parlato dieci anni prima? È veramente ciò che ricorda sia con la moglie che con il figlio? Ci troviamo già in un tema pirandelliano: che cos’è la verità?

Immagine articolo Fucine Mute

GG: Ancora una domanda riguardo allo spettacolo: Furio Bordon, l’autore, che nella conferenza stampa di apertura, quest’anno, aveva detto che c’è un paradosso legato alla vecchiaia. Ossia che, quando si diventa anziani e si ha acquisito tanta esperienza, le forze fisiche paradossalmente non sostengono più la persona. Per lei, in una frase o con un aggettivo, che cos’è che la vecchiaia?

AR: Credo che sia un malanno della persona. Forse una persona dovrebbe nascere già vecchia e trasformarsi in bambino. È una cosa irreale, ma molto più bella. Vedere il proprio corpo che deperisce, vedere che tutte le forze vengono meno, credo che per una persona non sia proprio una grande gioia. Comunque nella vecchiaia abbiamo maturato tutte le nostre idee, abbiamo ormai raccolto tutto ciò che abbiamo seminato durante tutta la vita. È sempre una rinuncia.

GG: Cambiamo discorso. Questa sua messa in scena, questa sua interpretazione è anche un’occasione per festeggiare gli oltre quarant’anni di carriera. Quali sono state le sue tappe fondamentali?

AR: Nella vita scolastica ho intrapreso tutt’altro genere rispetto a quello del teatrante. Ho preso il diploma in ragioneria, dunque in un campo tutt’altro che legato alla cultura teatrale; poi ho cominciato con la ribalta radiofonica di Radio Trieste e dopo due anni sono andato all’Accademia d’Arte Drammatica di Lubiana per imparare la regia; nel ’59 sono tornato a Trieste, ho cominciato come assistente del nostro regista principale, allestendo molti spettacoli insieme a lui, mentre poi io nel ’60 ho iniziato la mia strada autonomamente. Ho firmato diversi spettacoli come regista nelle stagioni successive, poi per esigenze del Teatro Sloveno e per mancanza di attori, dovevo fare qualche particina o se mancava qualche attore dovevo sostituirlo. Così, piano piano, in quarantaquattro anni ho fatto anche la gavetta di attore. Non avrei mai pensato di intraprenderla, più che altro perché il mio obiettivo era di rimanere dall’altra parte del palcoscenico.

GG: Il più bel ricordo?

AR: Tutti. Tutti gli allestimenti sono dei ricordi bellissimi; ne ho fatti molti, credo siano più di centotrenta, quindi non saprei sceglierne uno in particolare. Per me è memorabile l’interpretazione e la regia che ho fatto con Wilder “La cittadella”. Comunque sono le tappe della vita che portano poi a dei ricordi specifici su una cosa piuttosto che su un’altra.

Immagine articolo Fucine Mute

GG: Un’ultima domanda: questo spettacolo è un esempio di collaborazione tra un regista-attore come lei, che fa parte del teatro sloveno, e un autore triestino come Furio Bordon. Le occasioni di collaborazione con questa cittò, in cui lei ha vissuto per tanti anni, è sempre possibile o ci sono ancora delle barriere da abbattere?

AR: Le collaborazioni con i teatri, sia con lo Stabile (Il Rossetti, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, ndr) che con il Cristallo (La Contrada, teatro stabile di Trieste, ndr), ci sono; abbiamo sviluppato diverse volte delle idee, abbiamo ragionato spesso su come realizzare delle cose insieme, specialmente su un testo di Mirko Machnic che parla di aldilà, dunque di persone morte. Abbiamo pensato di allestire uno spettacolo in varie lingue: un’idea che abbiamo cullato per molto tempo, ma che non si è realizzata. Abbiamo fatto anche degli spettacoli firmati oltretutto da autori italiani, triestini, ma una collaborazione veramente assidua non l’abbiamo mai avuta. Si vede che la differenza della lingua è tale che risulta difficile trovare un testo adatto. Oddio, si potrebbe fare una pantomima o qualcosa del genere, ma questo ormai non fa più parte del teatro vero e proprio. Per me sarebbe bellissimo presentare il teatro di minoranza slovena in Italia con un testo nostro, con un testo della nostra letteratura. Vorrei portare sulle scene dei teatri italiani, come comunque è stato fatto anche da me, “Il dramma di Lubiana”, quando eravamo a Roma, ma sempre come teatro di lingua nazionale slovena e non come qualcosa che di teatro ha ben poco.

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