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Palcoscenico

Paolo Bonacelli

La pulce nell’orecchio

Immagine articolo Fucine MuteRiccardo Visintin (RV): La storia degli incontri teatrali di Fucine Mute è fatta anche di “re-incontri”. È la seconda volta infatti che incontriamo Paolo Bonacelli, uno degli attori italiani più bravi e più versatili della prosa, del cinema e della televisione. È a Trieste per l’ennesima volta con “La pulce nell’orecchio” di Feydeau, insieme con un nuovo gruppo di lavoro: un’impressione “a caldo” su questa nuova avventura teatrale.

Paolo Bonacelli (PB): Io non credevo che Feydeau desse dei risultati così eccezionali, perché non lo conoscevo, non l’avevo mai fatto, l’avevo soltanto letto.
È un autore che, se rappresentato, fornisce come dicevo dei risultati straordinari, perché evidentemente conosceva talmente bene i meccanismi della scrittura teatrale, che, se noi lo leggiamo solamente, non riusciamo a capire.
Soltanto rappresentandolo riusciamo a vedere come egli conoscesse perfettamente questi meccanismi, che hanno ricevuto una risposta eccezionale dal pubblico. Questo perché evidentemente l’attenzione che lui aveva per i giochi in scena era talmente maniacale, e in questo senso non possono che esserci risultati positivi.
Ripeto, io sono molto sorpreso perché non avrei mai creduto che le risate del pubblico sarebbero state tante e così assolutamente imprevedibili. Adesso so perché la gente ride quando un attore entra in scena e dice una battuta, ma nella fase di lettura non si capiva.

RV: Servirebbero cinque o dieci interviste come questa per elencare tutte le tappe della vastissima carriera di Paolo Bonacelli. Un attore di teatro ma anche di cinema, con un carnet invidiabile che comprende film di Pasolini, Parker, Bolognini, Liliana Cavani, Rosi, Tognazzi.
Davvero tantissimi film, e tutti ugualmente importanti. Se non avesse fatto l’attore, cosa avrebbe fatto nella sua vita? A cosa era destinato Paolo Bonacelli, se non ci fosse stata “l’attrazione fatale”?

PB: Non è stata un’attrazione fatale, una serie di circostanze che mi hanno portato a fare l’attore. La mia famiglia è stata sempre occupata nel ramo bancario e circa settanta anni fa mio padre stava in banca qui a Trieste. Ho un fratello che lavora in banca, e due nipoti pure loro impiegati in banca. Fu mia madre a consigliarmi di fare altro, perché reputava quel lavoro molto pesante, e poi è arrivata questa professione.
Quando ho cominciato la carriera, ero anche disposto a lasciarla improvvisamente, perché non sapevo bene a cosa mi avrebbe potuto portare. Forse avrei fatto l’avvocato… C’è scritto nel mio oroscopo che oltre a questa — che certamente è una professione — avrei fatto l’avvocato civilista, cioè quello che si interessa proprio delle cause più difficili, quelle da diventare pazzi o mezzi scemi dietro a tanti piccoli cavilli. Cosa nella quale poi io mi riconosco: c’è in me questa passione per la discussione capziosa, per l’approfondire (proprio come Feydeau) in maniera maniacale certe cose. Spero di non seguire la strada di Feydeau, perché è finito in manicomio e la sua attività preferita era stare a quattro zampe a brucare l’erba del giardino.

Immagine articolo Fucine Mute

RV: Una delle qualità di Paolo Bonacelli è il trasformismo: nel giro di qualche settimana ho visto “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni, poi ho dovuto rivedere una seconda volta “Non ci resta che piangere” con Benigni e Troisi per capire che Paolo Bonacelli era travestito da Leonardo da Vinci; infine ho avuto modo di visionare l’originale televisivo di “Tre ore dopo le nozze”. Qualcuno mi faceva anche notare che Paolo Bonacelli è un attore italiano ma non “regionale”, lei ha recitato anche in parti da inglese: ricordo — e glielo dico con il cuore — una bellissima edizione di “Terra di nessuno” di Harold Pinter a fianco di Massimo De Francovich. Lei si sente in qualche modo un trasformista, così come la definiscono?

PB: Sì, mi sento più che altro un interprete. Questo comporta anche una certa dose di trasformismo, nel senso che nel momento in cui si fanno dei personaggi bisogna cercare di capire quali sono le loro manifestazioni, i gesti, i comportamenti, gli atteggiamenti.
Io credo dipenda dal fatto che ho avuto dei genitori — per esempio — che in casa parlavano in italiano, non c’era il dialetto. Io sono nato a Roma, ho vissuto a Roma, ma mia mamma era romagnola e mio padre proveniva dall’Alto Lazio. Nessuno di noi parlava in vernacolo: credo che questo mi abbia dato una certa libertà per poter poi fare certi personaggi. Non appartengo quindi a certe culture che gesticolano molto, a certe regioni italiane profondamente segnate da alcune caratteristiche verbali. Sono un attore italiano e poi ho anche un certo tipo di fisicità, che non è esattamente meridionale.
Infatti, il primo film importante che feci, il primo che mi segnalò anche all’ambiente cinematografico fu “Fatti di gente perbene” di Mauro Bolognini; nessuno mi conosceva, addirittura dicevano: “chi è questo attore inglese?”. Erano convinti di dover cercare un interprete inglese, invece ero io, italiano. Certe volte mi scambiavano per tedesco, in altri casi mi prendevano per napoletano, o per toscano. Diciamo che mi scambiano un po’ per il personaggio che in quel momento stavo facendo.

Bonacelli in Fuga di Mezzanotte

RV: È successo anche con “Fuga di Mezzanotte” di Alan Parker…

PB: Lì interpretavo un turco, o meglio un greco infiltrato nelle carceri turche, che poi parlava in inglese e quindi recitavo in inglese, imparando però anche delle terminologie turche.
Ciò mi appassiona molto, il non essere “legati” è uno dei sensi di questo mestiere. Certo, mi allontana da una certa forma di divismo: il divo è quello che bene o male è sempre riconoscibile, che fa sempre lo stesso personaggio anche interpretandone diversi.
Io credo invece di essere un attore, cioè un interprete di cui forse si sta perdendo un po’ traccia, perché tutti cercano di essere facilmente individuabili e facilmente riconoscibili. Io invece penso che una cosa è vivere, parlare, come noi in questo momento, ed un’altra è recitare: sono due attività diverse. Cerco anche di non portare nella vita il linguaggio che uso nel teatro, così come certi cantanti lirici che parlano come nei libretti d’opera.

RV: Sperando di non intristirci, credo che lei sia uno degli interlocutori più idonei per rispondere non ad una domanda, ma ad un nome ed un cognome: Vittorio Gassman, con cui lei ha lavorato.

Immagine articolo Fucine MutePB: Vittorio Gassman è stato in qualche modo uno dei miei due o tre maestri di teatro ed anche di vita. Appena uscito dall’Accademia venni scritturato da lui, feci un provino e di tutti gli attori presenti fui l’unico ad essere preso, su circa centocinquanta persone. Poi l’ho re-incontrato ripetutamente, anche se non ho più lavorato con lui, certe volte addirittura è venuto a vedermi a teatro. L’ultima volta che ho avuto modo di incontrarlo fu in una pizzeria famosa di Roma dove lui stava mangiando, mi abbracciò e fu molto commovente, questo circa un anno prima della sua scomparsa. È stato, ripeto, un maestro di teatro ed anche di vita, perché era una persona generosissima e colta, leggeva i giornali, sempre.

RV: C’è un film che vi ha riunito, “Tutti gli anni una volta l’anno” (1994) di Gianfrancesco Lazotti.

PB: Sì è vero, abbiamo fatto quel film in cui c’erano anche Giorgio Albertazzi, Paolo Ferrari e molti altri. Ma soprattutto mi ricordo questo incontro in questa pizzeria di Roma, famosa perché molto antica: lì mi abbracciò e fu molto commovente.

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