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Arte

Mario Cipollini

Semplice bellezza

GALLERIA IMMAGINI

Immagine articolo Fucine MuteMassimo Palme (MP): Siamo con Mario Cipollini, classe 1961, romano, fotografo di talento che nonostante l’ancor giovane età ha già raggiunto un discreto successo. Come prima cosa ti chiedo di parlarci un po’ della tua formazione; quindi gli studi, gli incontri, le persone significative, gli artisti del passato, fotografi e non, che hanno influito sul tuo percorso artistico.

Mario Cipollini (MC): La mia formazione e i miei studi non sono stati relativi alla comunicazione visiva; io sono laureato in ingegneria, come qualcuno sa, anche se fotografo fin da quando ero bambino. Questa passione ce l’ho sempre avuta dentro, così come ho sempre avuto la passione dell’arte e del disegno, ma fino a trenta anni di età l’ho coltivata da autodidatta, guardando i pittori del passato, dall’arte antica all’arte primitiva o al rinascimento. Sono sempre state cose che mi hanno appassionato così come mi ha sempre appassionato il disegno, e anche la pittura. Ad un certo punto mi sono reso conto che era un qualche cosa che mi interessava talmente tanto da farmi decidere di abbandonare la professione di ingegnere, quella di progettista, e di passare quindi ad un campo più creativo.
Dei nomi di riferimento? Ho lavorato anche un poco sul disegno, nel senso che prima di fotografare il nudo, l’ho anche disegnato. Ho seguito per un po’ di tempo la scuola di disegno che c’era al Revoltella, dove insegnava Porro, uno scultore: questo è stato un approccio anche interessante. Per quanto riguarda sia i fotografi che gli artisti di riferimento, io spesso tengo a precisare che la mia ispirazione è forse più pittorica, se devo pensare alle mie fotografie di nudo certe volte ci ritrovo dentro, che so, delle pose che possono essere di Michelangelo, di Caravaggio, che non sono poi volute, capitano perché fin da piccolo, sfogliando i libri di storia dell’arte, evidentemente certe cose le ho assorbite in maniera un po’ inconscia e si vede che vengono fuori.

MP: Ci hai parlato di fotografia di nudo. Questo è un progetto a cui stai lavorando in questi anni, si chiama “Semplice bellezza”, ne sono state fatte alcune mostre qui a Trieste e recentemente è uscito anche un book fotografico dallo stesso titolo. Vuoi parlarci un po’ di più di questo progetto?

MC: Sì, attualmente c’è una mostra ancora in corso allo spazio Juliet di via Madonna del mare 6, andrà avanti un paio di settimane. Questo progetto è un progetto che, come si capisce dal titolo “Semplice bellezza. Cinquanta donne reali nude”, riguarda la bellezza, ma una bellezza alternativa, nel senso che ho voluto fare un qualche cosa in contrapposizione rispetto ai canoni di bellezza che ci vengono spacciati dai mezzi di comunicazione; sembra che vogliano ribadire in ogni momento che non si può esser belle (stiamo sempre sulla bellezza femminile) se non si ha una determinata taglia, un determinato peso, determinate fattezze. Secondo me il fascino e la bellezza femminile stanno invece nella diversità, nella diversità e anche poi nell’accettazione di se stessi con quello che viene chiamato difetto ma che secondo me difetto non è: mi riferisco magari alla smagliatura, alla cellulite, alle cose che fanno parte della realtà e che quindi fanno parte anch’esse della bellezza, mentre quel che si vede al cinema, sulle riviste è sempre una donna così perfetta da sembrare finta, da sembrare irreale. Questo mi sembra sia un discorso estremamente negativo, un discorso che ci distacca da ciò che ci circonda e ci porta verso un ideale di bellezza manichino.

Immagine articolo Fucine MuteIl lavoro è partito da questi presupposti e così ho fotografato persone non professioniste, che svolgono altri mestieri e che non fanno parte del mondo dello spettacolo e della comunicazione: studentesse, impiegate o qualsiasi altra cosa; in linea di massima erano alla loro prima esperienza non solo di nudo, ma anche di fotografia in generale. Questo porta anche ad una realtà di espressione molto diversa da quella della modella, perché la modella è portata a recitare, a seguire un copione più che a essere se stessa, mentre io volevo ritrarre le persone per loro stesse; ed anche la nudità diventa un mezzo per ottenere la verità, perché se si è nudi si è senza costrizioni, ma si è anche senza maschera, senza corazza; quindi una nudità fisica che diventa anche nudità psicologica. Devo dire che questa esperienza, che mi ha portato a fare tantissimi scatti, senz’altro più di diecimila nel corso di tre anni, dai quali ho scelto poi cinquanta donne diverse,  è stata molto importante non solo da un punto di vista fotografico, creativo, artistico, ma anche psicologico: primo perché mi ha portato ad avere la consapevolezza della mia passione per il modo femminile, ad esprimerla senza vergogna, ad esprimere il mio amore per il femminile in generale; secondo perché le persone che ho fotografato durante questo progetto hanno accettato se stesse e scoperto la propria bellezza. È stata un po’ una fototerapia, anche reciproca, perché mi ha permesso di conoscere me stesso ma anche di scoprire dei lati diversi delle persone che ho fotografato, direi che per tutte loro è stata un’esperienza importante, un momento di crescita, che in qualche modo le ha segnate.

MP: Ti inserisci quindi un po’ in una contro tendenza che forse sta prendendo piede, penso per esempio agli ultimi Oscar che hanno premiato per i personaggi femminili, se non donne brutte, quelle che recitavano in ruoli nei quali la donna era affascinante al di là dei soliti canoni. Comunque vorrei chiederti di parlarci un po’ del libro: com’è strutturato e qual è stato il contributo dato dalle stesse ragazze che hai fotografato.

MC: Il libro è strutturato in una sequenza di immagini che diventa anche un racconto, il racconto di questa mia esperienza fotografica e anche dell’esperienza vista dalle donne che hanno posato. Per quanto riguarda il racconto fotografico il libro si articola in 146 immagini a ritroso: io parto dalle ultime immagini scattate, che sono state realizzate alla fine dello scorso anno, quindi poco prima dell’impaginazione del libro stesso, e poi mano a mano torno indietro fino ai primi scatti del 2000. Vi si può vedere anche una mia evoluzione stilistica: i primi scatti erano più un lavoro sul viso, sull’espressione, mentre dopo ho iniziato a lavorare più sul corpo, sul movimento; quindi ho inserito delle vere e proprie sequenze, e c’è anche un lavoro sul movimento nello spazio e nel vuoto. Volutamente ho scattato quasi sempre con delle ambientazioni scarne o addirittura nulle, proprio per dare il massimo risalto alla persona, per far si che venisse fuori soprattutto il carattere, espressione attraverso il corpo e la gestualità. Ci sono solo pochi scatti che sono stati fatti in esterno, sempre in ambienti naturali, perché era una richiesta che veniva dalle donne stesse che hanno posato, perché si sentivano a loro agio in un ambiente che può essere il mare, il bosco, la roccia, per cui anche quella diventava una maniera d’espressione. Molto importante è la seconda parte del libro, nella quale alcune ragazze che hanno posato raccontano l’esperienza dal loro punto di vista: raccontano perché l’hanno fatto, perché posare gratuitamente per un progetto del genere, perché comparire su di un libro, e raccontano l’esperienza in sé e cosa è cambiato dopo nella loro maniera di percepirsi, di vedere il proprio corpo. Lo raccontano in positivo e in negativo: non sono tutte esperienze paradisiache. In qualche caso, come può avvenire in un’analisi, vengono fuori anche cose dolorose, ma fa parte della vita è non è nemmeno giusto che questo venga nascosto. Quindi ci sono dei racconti in prima persona che secondo me sono molto interessanti, e poi c’è anche il racconto di come io sia arrivato alla fotografia di nudo, perché inizialmente fotografavo soprattutto natura e paesaggio; in seguito mi sono avvicinato gradualmente alla fotografia di ritratto e di reportage (in cui la figura umana è fondamentale), e poi anche al nudo. È stato anche un lavoro su me stesso di natura quasi psicologica, perché inizialmente escludevo la persona dalla fotografia, non tanto perché non mi interessasse, ma forse per la paura di guardare dentro di essa, poi ho capito che non si trattava di farle violenza ma che anzi la fotografia poteva aiutare le persone ad esprimere se stesse.

Immagine articolo Fucine Mute

MP: Quindi un piano estetico ed uno psicologico. Aggiungerei anche un piano etico, che mi sembra fortemente presente, non solo nella tua opera attuale, con questa forzatura dei canoni tradizionali di bellezza, ma anche probabilmente nella tua opera precedente: ho visitato la galleria del tuo sito e ho visto che hai avuto molta sensibilità e attenzione per i problemi del mondo attuale, in particolare i rapporti tra le popolazioni e i problemi dell’ambiente. Come vedi questa “saldatura” tra etica ed estetica? In che modo pensi che un atto artistico possa anche servire nel piano concreto, se può farlo?

MC: Indubbiamente quando si parla di reportage il lato etico è, se non preponderante, comunque molto importante; raccontare delle esperienze, occuparsi delle minoranze, dei rifugiati, dei problemi sociali attraverso la fotografia riguarda l’informazione e anche la denuncia di certi problemi; il fotogiornalismo o il reportage attraverso l’immagine riescono a comunicare dei concetti che attraverso la parola scritta possono essere più difficili da comprendere, e non alla portata di tutti. Questo è un po’ un problema, una carenza del panorama italiano, nel senso che il fotogiornalismo è messo in disparte, ci sono veramente poche riviste che danno un degno spazio all’immagine, inoltre il fotografo di reportage non è neanche remunerato come se fosse un giornalista a tutti gli effetti: l’immagine viene vista solo come un qualcosa di contorno. Io capisco questo discorso: di solito i fotografi o fanno i reportage, o fanno fotografia di ricerca, oppure si dedicano alla fotografia “posata”, io invece mi sono occupato un po’ di tutti questi aspetti, anche se in diversi periodi della mia vita, per cui questo problema lo sento parecchio. Comunque il lato etico lo si vede in maniera molto decisa nel fotogiornalismo, ma perché no, anche un progetto fotografico come “semplice bellezza” ha un suo risvolto etico molto importante, per cui io credo che comunque l’arte in generale non possa essere solo una ricerca estetica, il collegamento con l’etica nella stragrande maggioranza dei casi lo reputo fondamentale.

MP: Abbiamo accennato ai reportage; vorrei chiederti ora che importanza ha avuto per te il viaggio, inteso non solo come la singola situazione di reportage, piuttosto proprio come crescita interiore, viaggio anche da un mestiere ad un altro, da una città ad un’ altra, insomma: come hai vissuto questo movimento esterno ed interno?

MC: Sarebbe un discorso abbastanza lungo perché il viaggio mi ha sempre appassionato, sia come mezzo di conoscenza, sia come stile di vita, come maniera di essere: io mi sento nomade, mi sembra di essere vivo realmente solo quando viaggio, anche se poi non occorre andare lontani, si può viaggiare anche sotto casa, è una questione di approccio, di curiosità e di maniera di rapportarsi alla realtà in cui si viaggia. Adesso il viaggio è alla portata di tutti; in altri tempi non era così, era riservato a pochi eletti, c’era il viaggio “ottocentesco”, che veniva fatto da persone che innanzitutto se lo potevano permettere, e poi dotate di un substrato culturale forte; adesso invece il viaggio è diventato sinonimo di vacanza, di divertimento, però al di là dei tempi molto stretti dei viaggiatori d’oggi (si va via per una settimana, per quindici giorni e si pretende di vedere tutto e di avere un’esperienza complessiva) secondo me questo non è proprio viaggio, è piuttosto come se uno avesse un video tridimensionale attorno a se, è come se guardasse uno spettacolo televisivo e non riuscisse a rapportarsi davvero alla realtà.

Immagine articolo Fucine Mute

Quello che mi interessa è invece la possibilità di confrontarmi con altre persone, a maggior ragione se fanno vite diversissime da me, di entrare nella loro realtà, il viaggio diventa allora anche un’esperienza che parte come solitaria: il vero viaggio si fa, secondo me, da soli; un esser soli che diventa una maniera per rapportarsi meglio alla realtà e quindi diventa sociale ma sul posto: se uno viaggia con altre persone tende a fare un po’ “conchiglia”, e questa è una difesa ed è una maniera di estraniarsi dalla realtà; molto spesso nel reportage si viaggia da soli anche per questo motivo, una persona singola viene accettata più facilmente e viene anche quasi adottata a volte, il viaggio di gruppo mi sembra a volte proprio il contrario, nel senso che viaggiando con gli amici ci si porta una propria realtà, una corazza, mentre il viaggio in fondo è apertura…

MP: Una domanda secca: conta più l’occhio, e quindi la tua ispirazione artistica, oppure la tecnica, e quindi l’insieme delle conoscenze di cui sei entrato in possesso con il tempo, nel tuo mestiere?

MC: Senz’altro l’occhio, perché la tecnica tutto sommato è qualcosa che si impara, ci vuole pazienza, ci vuole forza, ci vuole allenamento, ma si impara; l’occhio è qualche cosa di più delicato: anche quello si può imparare, ma è qualcosa di più difficile, anche più magico… Certo, non sempre si nasce con l’occhio, ma una certa predisposizione c’è, e dopo maturando, crescendo la si affina sempre di più. Io lo vedo preponderante: si può fare una bella foto anche se non si possiede una tecnica perfetta, mentre senza l’occhio si può possedere tutta la tecnica del modo ma è davvero difficile riuscire.

MP: Parliamo ora di queste nuove e magari nuovissime tecnologie che a volte sembrano rendere possibili addirittura nuovi campi artistici, un esempio può essere stato il cinema, e potrebbero esserlo oggi le stampanti tridimensionali, di cui si sa poco, che sembrano essere oggetti capaci di costruire solidamente un immagine, fissando su strati successivi i colori, quasi a creare una “scultura fotografica”… Come ti sembra che la tecnica possa rivoluzionare l’arte?

MC: La tecnica è già strettamente connessa al mondo dell’arte, senza arrivare alla fotografia tridimensionale (di cui sinceramente so poco per non dire nulla, anche se posso immaginare come potrebbe funzionare). Anche il mondo del digitale, della videoarte, sono strettamente connessi con l’innovazione tecnologica; però è sempre importante che la tecnica non diventi il fine. La tecnica è solo un mezzo, è giusto che la macchina fotografica digitale o la telecamera siano viste come la matita, come il pennello: uno strumento. Invece in molti casi assumono un ruolo preponderante, quasi a sottolineare che stia tutto lì, ed è proprio questo il pericolo. Io non sono contrario al digitale e a tutte le novità tecniche, purché non diventino il fine di tutto, perché vedi, la matita non ci mette paura, essendo uno strumento molto semplice, di cui abbiamo subito idea di come possa funzionare, mentre certi computer, o la manipolazione digitale dell’immagine sono cose molto più complesse ed alcune persone vengono quasi “fagocitate” dalla potenza di questi strumenti e vi si affidano totalmente, quando viceversa ritengo che bisogni sempre avere la padronanza dello strumento: deve essere come un martello da utilizzare e in caso anche da piegare, plasmare ai propri fini, e non viceversa.

Immagine articolo Fucine Mute

MP: Avevo un’ultima domanda per te, ma mi sembra che tu abbia in parte già risposto: riguardava la contaminazione dei campi artistici, come riferimenti e magari poi anche come creazioni stesse. Hai parlato del tuo approccio “pittorico alla fotografia”, hai anche lavorato concretamente su più generi o parallelamente ad altri artisti su di un unico progetto?

MC: Non mi è mai capitata una cosa del genere, però credo che sarebbe interessante, sarebbe un mezzo di crescita molto stimolante.

MP: Per concludere vuoi ricordarci i prossimi appuntamenti con la tua fotografia e la situazione editoriale del libro per chi fosse interessato?

MC: Per il libro, che ha una distribuzione limitata e può essere ordinato via internet, la cosa forse più semplice è far riferimento a me, andando per esempio sul mio sito. La mostra, sarà ancora per un paio di settimane alla galleria di cui ho già detto, altri appuntamenti già organizzati per ora non ce ne sono.

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