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Palcoscenico

Roberto Bacci

Bucare il cielo dei sensi

Immagine articolo Fucine MuteIl raglio dell’asino, dedicato a L’idiota di F. Dostoevskij; ultimo lavoro della compagnia laboratorio di Pontedera. Produzione Fondazione Pontedera Teatro 2003. Essere idiota, provare ad esserlo… Idiota, un’apparente squallida qualità. La concreta e a volte insostenibile aderenza ai sogni, a quei sogni che sono la realtà di un essere umano.

Fabrizio Maurel (FM): Festival, rassegne, generazioni… dove e in cosa sta il nervo di questa costanza?

Roberto Bacci (RB): Cominciamo dai festival. I festival sono un parte importante della mia biografia artistica, nel senso che ho sempre fatto festival come regista più che come direttore. Otto a Sant’Arcangelo di Romagna, il primo nel 1978; poi dieci a Volterra, poi non so quante edizioni di Generazioni aprire alle possibilità che esistono al di fuori di me e al di fuori di Pontedera, dal punto di vista umano e artistico. La scelta è sempre quella di invitare persone con le quali condividiamo un viaggio, con le quali ci piacerebbe condividere un viaggio. Quindi i festival sono luoghi di incontro, in cui esistono grandi maestri. Credo di aver invitato o visto teatri di tutto il mondo all’interno dei festival che abbiamo fatto, ma anche decine e decine e centinaia di giovani gruppi e di giovani artisti. Il festival si riassume in una parola che è nutrimento, un nutrimento necessario dal punto di vista artistico, dal punto di vista umano e anche da quello dell’esperienza teatrale di Pontedera.

FM: Il teatro, un occhio che mostra, che costantemente si apre e si chiude, e dà il compito allo spettatore di costruire un corpo tutt’attorno ad esso…

RB: Le definizioni di teatro che più amo sono due: una è “il teatro è una trappola per catturare il senso”, una definizione di Ferdinando Taviani. La trappola per sua natura deve essere costruita perfettamente e deve essere invisibile a chi ci cade dentro, in questo caso al senso che gli spettatori possono proiettare all’interno di questa trappola. L’altra definizione è “teatro come riflettore di realtà” dove per realtà non s’intende la cronaca, di cui non ce ne potrebbe fregar di meno perché altrimenti saremmo presi dal meccanismo che ci circonda, ma quelle che sono le domande reali, realtà in quanto reale e questo è un discorso che si farebbe molto complesso. Che cosa significa realtà, che cosa significa essere reali. Reale per me significa, tutto ciò che esce, che si apparta, che si differenzia dalla meccanicità della nostra esistenza e quindi riflettore di realtà significa un luogo in cui si riflettono domande essenziali per la nostra vita e per il nostro destino di esseri umani. Naturalmente possono essere domande di diverso spessore che vanno dalla natura, diciamo, della nostra relazione con l’universo o del senso della vita o anche domande che in qualche modo riflettono quella che è l’esperienza dell’essere umano oggi con tutti i suoi annessi e connessi.

Da questo punto di vista, il legame con il pubblico, il cercare di creare un cerchio intorno allo spettacolo formato da spettatori attenti e che interrogano il teatro e credo che sia un aspetto essenziale di qualsiasi ricerca e specialmente del teatro.

FM: Gli attori ingranaggi di un tempo che sempre manca, sfugge, presenza e non presenza di un regista in questo teatro. Ordine e libertà per gli attori. Dove si muove, arriva, s’insinua il tuo respiro creativo e tramante nell’opera che vai a costruire?

Immagine articolo Fucine Mute

RB: Gli attori, sono sempre stati compagni d’avventura, nel senso che, non è retorica, per me ogni spettacolo è un’avventura: sappiamo dove si parte e non sappiamo mai dove si arriva. Anche con Il raglio dell’asino è stato un viaggio di otto mesi in cui abbiamo cercato lo spettacolo e abbiamo atteso in qualche modo che lo spettacolo si facesse. Gli attori da questo punto di vista dovevano essere persone con le quali c’è un legame profondo, un modo di comprendersi attraverso il silenzio, attraverso la disciplina e anche l’amore, proprio nel fatto di stare ore e ore chiusi in sala a cercare di mettere in gioco la nostra pigrizia, le nostre difficoltà e tutto quello che possiamo toglierci di dosso per poter lavorare cercando in qualche modo che questo abbia un senso per noi e per gli altri.

Gli attori sono i primi interlocutori e sono i creatori dello spettacolo, il regista è come uno strumento a disposizione degli attori perché lo spettacolo si crei. Naturalmente è uno strumento molto attivo, non è uno strumento che recepisce e basta, ma è in qualche modo una specie di controllo sulla possibilità che la temperatura rimanga sempre alta e che la ricerca, il rigore e quindi le possibilità che i risultati nascano all’interno del lavoro rimangano sempre buone. È come una specie di sveglia per fare in modo che un qualcosa accada, e la persona che deve restare in ascolto, perché quando qualcosa realmente accade, riesca a coglierlo e a strutturarlo in quello che poi gli altri chiameranno spettacolo. C’è da capire cosa si nasconde dietro ad una parola così rischiosa come lo è la parola creatività, essere creativo, vuol dire trovare un modo d’essere attivi all’interno della passività che è la posizione del regista e, paradossalmente, più uno riesce a essere passivo, a farsi penetrare da ciò che gli attori propongono, più c’è bisogno di saper attivare ciò che appunto deve penetrarti. Per me esiste una specie di ricerca delle condizioni perché questo processo accada. Io non ho mai utilizzato un metodo che fosse lo stesso della volta precedente, proprio perché non riesco a lavorare così e per me la cosa essenziale per essere, fra virgolette, creativo è mettermi nelle condizioni per fare in modo che le cose si creino. Il rischio in tutto questo è il proprio “io”, identificarsi nel proprio io, cioè far nascere lo spettacolo o l’opera attraverso quello che si pensa e non attraverso quello che si sente durante il processo creativo. Questo però non ha niente di romantico, non ha niente neppure di teologico, è qualcosa di molto artigianale, è un modo di saper lavorare con se stessi prima ancora che con gli attori che io ho appreso in tanti anni d’esperienza.

Diceva un grande maestro di scacchi che per poter cominciare ad imparare, bisogna perdere perlomeno duemila partite. Ora fare duemila spettacoli sbagliati sarebbe un po’ troppo, però io in qualche modo sono sempre stato un autodidatta e ogni volta cerco di mettermi nella condizione per imparare. E ogni spettacolo è un insegnamento, quindi essere creativo per me significa mettermi nella migliore condizione per poter imparare.

FM: Fallimento, come parola, pensiero, sensazione… Può essere una specie di vittoria, di conquista, di ricerca dell’impossibile sulle banalità, sull’omertà del sentire.

RB: Io di fronte alla parola fallimento non capisco, nel senso che non credo che esistano fallimenti. Esistono fallimenti che si sentono come fallimenti, ma la parola se si sta attenti, se si è concentrati su se stessi, si scoprirà che il fallimento è un qualcosa di estremamente prezioso e creativo. Gli altri parlano di fallimento perché magari non riescono ad ottenere un risultato, ma all’interno di un percorso per raggiungere il risultato io credo che si aprano tante di quelle possibilità per cui non conviene essere distratti dal risultato che stiamo cercando. Molto speso ci identifichiamo nel risultato e non guardiamo il processo, nel processo si nascondono tante di quelle ricchezze per cui poi è impossibile parlare di fallimento.

Immagine articolo Fucine Mute

Si diceva “Alessandro Magno uscì per cercare l’asino e conquistò un impero”, così viene detto. L’asino lo trovò? Non lo so se trovò l’asino, ma trovò l’impero. Probabilmente se si fosse identificato con il fatto di cercare assolutamente e soltanto l’asino, non avrebbe conquistato l’impero. Però, di fatto, bisogna andare a cercare il proprio asino, costi quel che costi, e questa è anche una condizione indispensabile per conquistare il proprio impero, che sia piccolo o grande, ognuno ha per destino l’impero che si merita. Non esistono imperi più grandi o più piccoli…

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