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Cinema

Mario Martone

L’odore del sangue, il profumo del cinema

Immagine articolo Fucine MuteCarlo si divide tra la moglie Silvia e la giovane amante : con la prima — che tutto sa dell’adulterina relazione di lui — condivide la libertà extraconiugale e il grande appartamento in un quartiere alto-borghese di Roma, con la seconda — che tutto sa della sua vita matrimoniale — vive la pace di un’esistenza quieta in una casa di campagna a pochi chilometri dalla Capitale. Tutto a posto e niente in ordine, recita un vecchio adagio, ma tutto cambia quando Silvia confida a Carlo che un ragazzo la corteggia: nulla sarà più come prima, per Carlo — morbosamente attratto dal gorgo di passione che sta risucchiando Silvia; per , che saprà dire basta all’angoscia repressa che Carlo le scarica violentemente addosso; e per Silvia, sconvolta e coinvolta senza freni nella relazione con quel fascistello picchiatore e misterioso.

Chi si aspetta un dramma della gelosia — e magari con tutti i particolari in cronaca — non potrà che rimanere spiazzato da questa indagine dell’anima che è una discesa distruttiva e autodistruttiva attraverso una duplice ossessione — amorosa e sessuale insieme — capace di scardinare e travolgere l’esistenza di tre esseri umani.
Tutto questo — e altro ancora che avranno modo di apprezzare quanti sceglieranno di andarlo a vedere — in L’odore del sangue, che a otto anni da Teatro di guerra segna il ritorno alla regia cinematografica di Mario Martone: ha scelto di adattare per il grande schermo l’omonimo romanzo di Goffredo Parise, realizzando così la quarta trasposizione cinematografica — dopo L’assoluto naturale di Mauro Bolognini, Il fidanzamento di Gianni Grimaldi e Il prete bello di Carlo Mazzacurati — dalle pagine dello scrittore veneto, che è stato anche sceneggiatore e soggettista di qualche merito — tracce della sua penna ne L’ape regina di Marco Ferreri, in Agostino e Senilità ancora di Bolognini, in Ritratto di borghesia in nero di Tonino Cervi.

Non è un romanzo come gli altri, il postumo L’odore del sangue, che — sostiene Martone — ha fatto e fa ancora discutere, e forse lo stesso destino investirà il film: in primo luogo per la carica di carnalità sensuale che lo permea e che probabilmente lo farà incappare — al momento di scrivere non è ancora dato saperlo — in un divieto in commissione censura. Sostiene Michele Placido — nel film è Carlo — che “al di là delle doti interpretative, è molto importante che gli attori si ritrovino anche carnalmente, perché si può essere un grande professionista ma se nel partner non si avverte la carne, ogni sforzo rischia di essere inutile ”. E aggiunge: “quanti film italiani si vedono, anche diretti da bravi registi, che finiscono per essere imbarazzanti proprio nelle scene d’intimità?

Immagine articolo Fucine Mute

È un Michele Placido inedito, questo de L’odore del sangue che si confronta con un ruolo per lui piuttosto inconsueto di intellettuale benestante, che per molti versi sembra ricalcare — come già nel romanzo — il ritratto di Goffredo Parise: è lui stesso a confessare per primo la propria preoccupazione nell’accettare il film, quando sostiene di aver domandato “Parise era del nord, io vengo dal sud: perché pensi che possa essere il tuo interprete ideale? ” ed essersi sentito rispondere da Martone — che in lui scorge anche “una parentela nella generosità fisica ” con lo scrittore — di “non crearsi problemi circa un’aderenza fisica e biografica troppo stretta ”. È una preoccupazione che presto lascerà il campo alla sicurezza, dal momento che “Mario — pur non conoscendomi a fondo umanamente — deve aver visto in questa stagione della mia esistenza qualche assonanza con il protagonista del romanzo che potesse essere utile anche al film, e io mi sono affidato alle sue indicazioni senza neppure leggere il romanzo perché la sceneggiatura che Mario ci ha proposto era molto bella e non sentivo il bisogno di cercare altre informazioni ”. Sin qui le impressioni dell’attore: ma cosa pensa il regista Placido del collega Martone, specie del Martone direttore d’attori? “Il suo lavoro nell’impostare le sequenze — ad esempio dal punto di vista scenografico — è quanto di più accurato si possa immaginare, al momento di arrivare sul set l’attore si sente già pienamente immerso nel clima del film, e così Martone può permettersi di non suggerire agli attori cosa e come devono fare: è un autore di cinema, per lui parla già l’impostazione dell’inquadratura ”. Gli fa eco Giovanna Giuliani — nel film Lù — che parla di una “direzione degli attori impercettibile, che lancia e propone suggerimenti e chiavi di lettura lasciando allo stesso tempo una certa libertà di creare il personaggio, non soltanto di interpretarlo ”.

Ma accanto a loro, nel ruolo di Silvia, la vera protagonista è probabilmente Fanny Ardant, caso più unico che raro — a detta del regista — “di donna che incontra il personaggio, prima ancora che di attrice che accetta una sceneggiatura ”. Entrambe in sintonia — donna e attrice — con la personale visione di Martone: “Silvia mi ha subito colpita per il suo percorso, per l’itinerario che compie ad un giro di boa della sua vita, perché da una donna della sua età ci si aspetterebbero soltanto saggezza e rassegnazione. E invece l’oggetto dello scandalo — se di scandalo si può parlare — sta proprio nella sua mancata accettazione dell’abbandono e della solitudine, nel suo precipitare le cose, nel suo lasciarsi andare con la parola, senza sapere forse che ogni volta che la parola viene pronunciata, questa nasconde una menzogna. E così più la donna si confessa, più si allontana dalla confessione ”.

Immagine articolo Fucine Mute

Si accennava poco fa ad una Fanny Ardant in sintonia con la visione personale di Martone, e giunti a questo punto non ci resta che dare la parola proprio al regista: quale migliore guida — stavolta più che mai — per penetrare l’essenza di un film?

Domanda (D): Qual è il suo rapporto con il libro di Parise da cui il film è tratto?

Mario Martone (MM): L’odore del sangue è stato pubblicato molto tempo dopo la sua stesura — negli anni settanta — e ad oltre dieci anni dalla morte di Goffredo Parise: per un ventennio è rimasto chiuso in un plico sigillato, ed è apparso — sprigionando la forza di uno scrittore contemporaneo — soltanto nel ’97, quando Rizzoli ha dato alle stampe la prima edizione. Leggendolo allora per la prima volta mi colpì moltissimo, la sensazione era che si trattasse proprio di un libro contemporaneo, e credo che nella stessa maniera l’abbiano letto o percepito quanti — attori e collaboratori a vario titolo — hanno lavorato con me alla realizzazione del film: e come noi anche molti lettori che hanno amato L’odore del sangue.

D: Il progetto della trasposizione è stato immediato?

MM: Inizialmente non pensavo di farne un film, il progetto di una riduzione cinematografica si è presentata soltanto qualche anno più tardi, ma si trattava ancora — piuttosto che di un progetto vero e proprio — di un laboratorio personale che non credevo concretizzarsi: buttavo giù qualche appunto, senza neppure sapere nulla dei diritti. Parise scriveva — a proposito de L’odore del sangue — che quel romanzo era stato per lui una sorta di terapia: nei primi tempi dell’ideazione e della lavorazione, la stessa cosa è successa anche a me con il film che — era fatale che accadesse — ha avuto un percorso piuttosto tormentato, e ha richiesto qualche anno di preparazione.

D: Nei titoli di testa si legge di una sceneggiatura liberamente tratta dal romanzo: è un film fedele?

MM: Il film è liberamente tratto dal romanzo di Parise, questo non vuol dire che la sceneggiatura guardi e non guardi al libro — in realtà lo guarda moltissimo — piuttosto conferma il mio tentativo di non prendere spunto ma di rivivere la pagina scritta sostenendo un vero e proprio corpo a corpo. A volte significa cambiare qualcosa: il cambiamento però è il frutto di un rapporto personale con il libro, di una lettura problematica che cerca di rispondere alle domande che il libro pone.

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D: Qualche esempio di infedeltà?

MM: Nel romanzo è molto importante la cornice storica degli anni settanta, insieme con il clima politico della Roma plumbea che fa da sfondo alla vicenda: questi aspetti dovevano essere interiorizzati, non avevano bisogno di essere sottolineati — non sentivo il bisogno di girare un film in costume — perché le relazioni tra i personaggi sono vive ancora oggi e si possono sentire sulla propria pelle.
Insieme a Giovanna Giuliani abbiamo anche ricostruito e trasformato il personaggio dell’amante del protagonista (Carlo sullo schermo, Filippo sulla pagina): nel romanzo Paloma è una giovane di campagna ingenua e ignara di tutto, è l’oggetto del desiderio di purezza del Filippo che vive lontano dalla metropoli; nel film è una ragazza consapevole che entra nel labirinto del “non esistono esclusive ” e precipita nel pozzo fondo di quel gioco, tirata dentro da Carlo.

D: Nel libro c’è anche un io-narrante piuttosto presente, ma il film rinuncia alla voce-off…

MM: È una scelta che porto avanti dai tempi de L’amore molesto: da un lato mi piace affrontare romanzi in cui il narratore si lascia andare ad un lungo flusso di coscienza, ma dall’altro mi sembra cinematograficamente più bello non appoggiarmi alla voce fuori campo. Cerco piuttosto di proiettare quel flusso di coscienza attraverso i dialoghi — che in questo caso erano molti, e si prestavano a sintetizzare la contrapposizione tra ciò che si dice e ciò che si tace — ed il rapporto con gli attori: Michele è protagonista di molte scene in silenzio — di notte in automobile — con cui abbiamo provato a restituire cinematograficamente l’interiorità, l’angoscia e l’ossessione in cui sprofonda il personaggio.

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D: Eppure la voce fuori campo non è del tutto assente…

MM: Ho preferito lasciarla soltanto per i frammenti del libro che Carlo sta scrivendo: ma quelle parole non provengono dal romanzo, appartengono ai reportages che Parise ha scritto da diverse parti del mondo. In un reportage dal Biafra — di cui è inserito qualche frammento nel film — c’è la descrizione del sangue che gocciola da un camion, che Carlo associa — in un corto circuito foriero di conseguenze — alla visione notturna del rapporto orale tra la moglie Silvia e il suo giovane amante.

D: Perché la scelta dei reportages?

MM: Non mi sembra una scelta troppo invadente, perché sono soltanto due i punti in cui ho accorpato le parole dei reportages straordinari estranei a L’odore del sangue. Soltanto due frammenti, ma bastano a dare l’idea della contemplazione e dell’osservazione acutissima di Goffredo Parise sulla violenza e sul caos del mondo. È un aspetto che mi sembra importante rilevare…uno scrittore che riesce a parlare di disordine nell’intimità proprio perché ha saputo guardare al disordine del mondo, arrivando a comprendere che i due aspetti non sono scissi, e che ciò che succede intorno a noi non è separato da quanto accade dentro di noi.

D: Il film rivela anche un grande lavoro sulla parola e sul dialogo, fedele in questo all’impostazione del romanzo…

MM: Il libro è ricchissimo di dialoghi che mi hanno affascinato da subito. È la loro forza che mi ha aiutato a trovare la forma di un film — simile a un dramma piuttosto che a un romanzo — di chiara impostazione teatrale: questa ricchezza di parole emerge soprattutto nella seconda parte, che non a caso ospita il dialogo più lungo di tutto il film, il confronto tra coniugi nella stanza d’albergo veneziana.
Se vogliamo parlare del libro, mi sembra che la parola sia il vero scandalo. Con i suoi Sillabari Parise mette a punto una scrittura quasi unica nel panorama letterario italiano degli ultimi decenni: attraverso quella scrittura limpida e cristallina riesce a dire con parole semplici le cose più profonde. E da questo punto di vista L’odore del sangue è un grande sillabario, perché affronta con parole chiarissime anche una materia così oscura: è grazie a questa chiarezza che il testo risulta assolutamente naturale (e forse non è un caso che L’assoluto naturale sia il titolo di una commedia teatrale di Parise). Con effetti straordinari: non c’è differenza tra come si parla di sentimenti e come si parla di sesso. Per entrambi si adoperano parole concrete vere e reali, i personaggi parlano tra loro in maniera diretta cercando di non nascondersi nulla (ma molto invece nascondendosi) in nome dell’idea utopica del non esistono esclusive — perché è utopia, azzardo e scommessa ciò che gli amanti compiono nel momento in cui giocano a dirsi la verità. Ciò che più mi ha impressionato de L’odore del sangue è che i lettori che lo amano si identificano completamente nella vicenda estrema che racconta, e questo è molto strano: perché qualcuno dovrebbe identificarsi, se nessuno di noi per fortuna vive tragedie come questa? Eppure succede, grazie alla parola di Parise: che è stato capace di penetrare, rendendolo limpido, anche il sentimento più oscuro.

Immagine articolo Fucine Mute

D: Tutto questo ha avuto delle conseguenze sulle scelte stilistiche adottate nel film?

MM: Per la fotografia, il montaggio e le riprese ho cercato dei collaboratori che sapessero e potessero tener fede a questa limpidezza di Parise, realizzando insieme a me un film chiaro che facesse ricorso — quando necessario — anche alle immagini luminose. Nella scelta delle inquadrature e del montaggio ho chiesto una fotografia che non cercasse il buio nel buio ed un ritmo che non creasse il mistero nel mistero. Volevo che tutto accadesse sotto una luce la più oggettiva possibile.

D: Nel film — accanto alla dialettica tra ciò che si dice e ciò che si tace — c’è anche una contrapposizione tra ciò che si vede e quanto invece non viene mostrato…

MM: Nel film non si vede quasi nulla di ciò che succede di decisivo: sappiamo ma non vediamo cosa accada a Silvia, il film che scorre sullo schermo rimanda ad un altro film — per tanti versi oscuro — che vediamo soltanto attraverso la nostra immaginazione. È un rapporto — questo tra limpidezza e oscurità — che rimanda all’essenza della tensione sessuale: che non si può inscatolare in categorie sociologiche, e di cui si può parlare soltanto per manifestarne il lato oscuro, mai per spiegarlo. Parise fa proprio questo, parla di sesso e lo esplicita con nettezza: eppure non spiega nulla.

D: Non c’è spazio per la sociologia nella definizione dei personaggi…

MM: Ho provato a non costruirli schematicamente, perché i tre protagonisti si trasformano nel corso del film: non me la sono sentita di costringerli in categorie sociali o sociologiche — né tanto meno simboliche — ci sono soltanto anime e corpi investiti da un destino che investe Silvia e — attraverso di lei — investe tutti gli altri; spetta allo spettatore riflettere sulla propria esperienza individuale rintracciando nella propria esistenza l’identificazione con lo schermo. Un’identificazione che però non passa per la sociologia.

D: Nel film c’è un colpevole?

MM: Il colpevole è Carlo, e questa sua colpevolezza è esplicitata nelle pagine del romanzo: Parise scrive che in seguito alla morte di Silvia, il ragazzo fu arrestato processato e infine assolto quando fu accertato che non si trattava del colpevole, e nelle ultime pagine fa sostenere a Filippo “io sapevo di essere il mandante ”. L’assunzione di colpa non viene mandata a dire — in linea con la chiarezza di tutto il libro. Il film è meno esplicito, e lascia volutamente allo spettatore l’intuizione su quanto accade e sulle responsabilità di Carlo.
Ma ciò che importa davvero è che nel racconto la colpa si intreccia con il destino, e questo fa la statura tragica del libro, che per molti versi è davvero simile ad una tragedia greca, dal momento che gli eventi decisivi — come si è già detto -accadono fuori campo, e il destino piomba nella storia sotto le sembianze di un ragazzo che non si vede mai: perché l’io narrante non lo incontra mai, sa di lui soltanto attraverso le visioni-ossessioni che lo assalgono a partire dalle descrizioni di Silvia. Per me è un aspetto molto importante che ho voluto rispettare nel film, perché parlare soltanto di colpa — e quindi di senso di colpa — senza sottolineare il ruolo del destino rischia di sminuire il senso tragico del racconto: che è esaltato anche dal personaggio di Silvia, uno dei più grandi della letteratura italiana degli ultimi decenni.

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D: Il film come il libro è incentrato sulla sessualità: che in Parise è tema piuttosto problematico…

MM: Aveva un rapporto complesso con il sesso, ma non era certo il solo: probabilmente ce l’abbiamo anche io e tanti altri, con la sola differenza forse che Parise ha scritto tanto di sé. Mi vengono in mente i versi folgoranti di Sandro Penna: Il problema sessuale/prende tutta la mia vita./Sarà un bene o sarà un male/mi domando ad ogni uscita. Tornando a Parise ci sono alcuni testi bellissimi sul suo rapporto con quello che in Giappone si chiama il mondo fluttuante, e che attiene alla sfera sessuale libera. Amava molto il Giappone — cui dedicò un bellissimo reportage, L’eleganza è frigida — e non è un caso che Giorgio Amitrano abbia scoperto relazioni e citazioni dirette tra L’odore del sangue e La casa della bella addormentata del premio nobel nipponico Yasunari Kawabata. Parise si fa portatore di una sessualità vissuta nella sua assolutezza acattolica, vicina alla sensibilità del sol levante più che alle tradizioni e alla religiosità del nostro Paese.

D: La terapia di cui parlava all’inizio è passata anche per l’immedesimazione con il protagonista?

MM: Non c’è dubbio che scrivendo il film è stato inevitabile vivere una specie di rapporto ombelicale con il personaggio maschile: ed è stato piuttosto faticoso spostarsi da un livello più personale alla vera e propria costruzione.

D: Per il ruolo di protagonista maschile ha scelto Michele Placido: perché?

MM: L’ho incontrato al Festival di Annecy (città francese sede della più importante manifestazione internazionale dedicata al cinema italiano, ndr) dove presentava un suo film, e in lui ho trovato due aspetti che si sono rivelati molto importanti per la costruzione del personaggio e dell’interpretazione — secondo me straordinaria — di Michele in questo film: da una parte Michele non è borghese, come non era borghese Parise, e in entrambi i casi si sentono un retroterra e una radice che appartengono alla più profonda terra italiana — poco importa che si tratti del Veneto per Parise e della Lucania per Placido; dall’altra parte Michele è un regista — e anche molto bravo — e questo per me vuol dire molto, perché significa lavorare con un creatore, con un costruttore di racconti per immagini.

D: Come ha lavorato sugli attori?

MM: Il lavoro sugli attori per me è sempre un lavoro con gli attori, mi limito ad organizzare il campo d’azione in cui ognuno crea e vive il proprio percorso, e non do mai indicazioni precise: quando un interprete ti sorprende con qualcosa che non immaginavi, soltanto allora capisci di avere realizzato qualcosa di buono con lui. Se fa soltanto ciò che immagini, che fine fanno il gioco e il divertimento?

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