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Cinema

A proposito della Passione di Cristo di Mel Gibson

Immagine articolo Fucine Mute

Non sono esperto di cinema, meno che mai critico cinematografico o studioso della sua storia. Non sarei in grado perciò di trattare del film da questo punto di vista. A detta dello stesso Gibson però, come dei suoi tanti e variegati estimatori, il film risponde a intenzioni che largamente travalicano gli abituali confini del genere, perché si propone precise finalità religiose e di riflessione e propaganda religiosa. “Tutto, qui, anche la cultura e l’arte, è subordinato e messo al servizio di un progetto missionario, di una volontà di apostolato” (Messori). « [Ce film] a un grand pouvoir [de conversion] sur les âmes, il renvoie à ce que Tertullien nommait ‘le témoignage de l’âme naturellement chrétienne’. Et ce pouvoir, c’est d’abord un pouvoir de scandale ! Nous qui sommes souvent embourgeoisés, nous n’aimons pas tellement cela, mais le Christ, aujourd’hui comme hier, est bien au milieu de nous, comme un signe de contradiction… » (abbé de Tanoüarn della Fraternité Saint-Pie X). « Vorrei che tutti i preti del mondo vedessero questo film. Spero che tutti i cristiani potranno vederlo, che il mondo intero lo vedrà” (cardinale Dario Castrillòn Hoyos, prefetto della Congregazione per il clero). Sono tali aspetti dunque, e le implicazioni connesse a tale lettura e a tali finalità, che conviene, sia pur brevemente, cercar di individuare, per valutarne il significato e le prospettive.

La trama dei fatti presentati da Gibson combina insieme i racconti della passione offerti dai sinottici e da Giovanni, aggiungendo qua e là scene e dettagli tratti dagli apocrifi (soprattutto dal vangelo di Nicodemo o Acta Pilati) e dalle visioni di una mistica tedesca vissuta tra Sette e Ottocento, Anna Katharina Emmerick. Le ragioni e il senso di tale assemblaggio li ha enunciati egli stesso in un’intervista concessa all’agenzia cattolica Zenit nel marzo 2003: “Questo film vuole mostrare la passione di Cristo proprio nel modo in cui è avvenuta. È come viaggiare indietro nel tempo e vedere gli eventi svolgersi esattamente come si sono svolti […]. Racconto la storia così come la racconta la Bibbia. Credo che la storia, così come è realmente avvenuta, parli da sola. Il vangelo è una sceneggiatura completa e questo è ciò che filmeremo”.

Anna Katharina EmmerickUna visione non distratta del film mostra peraltro che le cose non stanno del tutto così, perché Gibson va ben oltre, e su aspetti e momenti non secondari, al dettato dei racconti evangelici, così come la sua messa in scena dei vari momenti della passione, nella crudezza e ferocia del suo svolgimento, si richiama piuttosto ad aspetti delle rappresentazioni popolari di essa. Ma la questione di fondo non sta propriamente qui. Sta nell’idea, espressa con grande chiarezza e ribadita, con poche varianti, da tanti dei suoi estimatori, che i vangeli offrano un resoconto, un reportage preciso dei fatti così come si sono svolti. Non è casuale del resto la scelta di far parlare gli attori in aramaico o in latino: essa corrisponde chiaramente alla volontà di accentuare nello spettatore l’impressione di trovarsi davanti alla riproduzione fedele di quei fatti.

Si tratta, troppo ovvio il rilevarlo anche da chi biblista non è, di una tesi che fa piazza pulita di decenni di esegesi biblica e di critica storica, di ispirazione confessionale e no, che, pur con diversità di approcci e di risultati, hanno riconosciuto il carattere profondamente diversificato di quei racconti, che variamente presentano, su di un nucleo di avvenimenti storicamente accertabili, elementi di carattere teologico, apologetico, polemico, corrispondenti ai processi redazionali e al contesto da cui quei diversi racconti sono nati e alle finalità apostoliche degli agiografi. Sostenere che il loro interesse primario fosse quello di raccontare tutti i singoli episodi di quelle ore nella precisa e fenomenica puntualità del loro svolgimento, quasi si trattasse di fautori della “storia oggettiva”, significa non soltanto disconoscere il carattere di quei testi ma anche attribuire ai loro autori una forma mentis e un approccio alla realtà del tutto estranei alla loro visione delle cose del mondo, alle loro preoccupazioni e al loro sentire: significa farne, rispetto alla storia, degli implausibili precursori di Leopold von Ranke.

Non entrerò ulteriormente nella discussione di tali aspetti. Merita tuttavia di rilevare ancora come la tecnica combinatoria attuata da Gibson rispetto ai racconti evangelici della passione lo porti di volta in volta ad accettare, a scartare o ad assemblare l’uno o l’altro episodio, l’una o l’altra tappa della vicenda quale risulta da quei testi. Così, tanto per fare qualche esempio, egli riduce, seguendo il racconto di Luca, ad una soltanto le comparse di Gesù davanti al sinedrio per il presunto processo religioso (e scartando dunque le due comparse che figurano in Marco e Matteo), vi aggiunge, ricavandolo da Giovanni, l’episodio dello schiaffo vibratogli da un servo di Anna, il predecessore e suocero di Caifa nella carica di gran sacerdote, evitando però di prendere atto che Giovanni non parla affatto di un processo o di più processi, ma solo del passaggio di Gesù dalla casa di Anna a quella di Caifa, per dei brevi interrogatori che si concludono con la sua consegna all’autorità romana. La salita di Gesù al Calvario è arricchita da Gibson di molti elementi tratti dalla tradizione devozionale tarda. Sembra ricavare da Luca però (l’unico degli evangelisti che ne parla, mentre gli altri tacciono al riguardo) il quadro di una folla di popolo e di donne che ne seguono l’ascesa piangendo e compiangendolo. Gibson tuttavia sente il bisogno di inserirvi anche personaggi ghignanti che lo sbeffeggiano e lo insultano. Una della tante spie, vi ritornerò tra poco, della linea interpretativa che la sua ricostruzione intende suggerire.

Immagine articolo Fucine Mute

Da questo presunto e rivendicato letteralismo biblico derivano, vorrei dire inevitabilmente, alcune conseguenze riguardo al significato e agli orientamenti che il film assume, e ai messaggi che ne vengono trasmessi e veicolati. Sta qui il nodo centrale dei consensi, come delle ostilità suscitati dall’opera di Gibson.

Oggetto di ampio dibattito è stata l’accusa che gli viene mossa, di aver prodotto cioè un film antisemita, o tale comunque da rinfocolare l’antisemitismo e atteggiamenti antisemiti: un’accusa per lo più sdegnosamente respinta dai suoi estimatori. Il portavoce vaticano Joaquin Navarro-Valls, in un’intervista al quotidiano “Il Messaggero”, avrebbe addirittura dichiarato, negando che su tale questione possa prevedersi una presa di distanze nei confronti del film da parte della autorità ecclesiastiche: “Il film è la trascrizione cinematografica dei Vangeli. Se fosse antisemita il film, lo sarebbero anche i Vangeli. Non dimentichiamo che il film è pieno di personaggi ebrei “positivi”: da Gesù a Maria, al Cireneo, alla Veronica, alla parte di folla commossa, etc. Se un racconto del genere fosse antisemita, ciò porrebbe un problema di dialogo ebraico-cristiano perché equivarrebbe ad affermare che i Vangeli non sono storici. Bisogna rendersi conto della serietà di tali affermazioni”.

Si tratta di una dichiarazione a dir poco singolare: perché, al di là di quelli che possono essere stati gli orientamenti e le intenzioni degli autori di quei racconti, non vi è dubbio che proprio la loro lettura letterale ha alimentato nei secoli l’ostilità dei cristiani per gli ebrei e le persecuzioni contro di essi. D’altra parte sembra difficile negare che i racconti evangelici, che pur riflettono una discussione e uno scontro che erano, alle loro origini, interni all’ebraismo (ciò che verrà rapidamente dimenticato, anche perché si trattava di un fatto che nella sua scontata ovvietà quei racconti non sentono il bisogno di esplicitare), corrispondono tuttavia, risalenti come sono ai decenni avanzati della seconda metà del primo secolo, ad una situazione che vedeva la sempre più netta e aspra rottura tra i nascenti gruppi cristiani e la Sinagoga: ciò che porta del tutto naturalmente i loro autori, proiettati ormai a diffondere il loro messaggio ben al di là dei confini dell’ebraismo, a caricare sugli ebrei (sacerdoti e popolo) l’intera o quanto meno la primaria colpa della crocifissione, sgravandone il più possibile la autorità romane. Da ciò il ritratto del tutto implausibile che essi presentano di Pilato — contraddittorio a ciò che di lui, della sua crudeltà e arroganza attestano altre fonti coeve -, fino ad attribuirgli, come fa Matteo, un gesto tipicamente ebraico come quello della lavanda della mani, per evidenziare il suo voluto sottrarsi ad ogni responsabilità della condanna di Gesù. Così come assai poco credibile risulta l’insistita prevaricazione che sacerdoti e popolo esercitano su di lui, in un contesto che vedeva il gran sacerdote nominato dalle autorità romane e in genere la dirigenza del Tempio subalterna alle loro direttive e perciò largamente malvista dalla popolazione.

Immagine articolo Fucine Mute

Gibson non solo recepisce pienamente tali orientamenti, ma li accentua, inserendo nel film situazioni e scene, prive di riscontro nei racconti evangelici, che danno largo spazio all’odio e alla crudeltà degli ebrei. Così, dopo la cattura nell’orto degli ulivi, le guardie del Tempio che accompagnano Gesù al sinedrio si abbandonano a ripetuti e insistiti atti di violenza su di lui, arrivando a gettarlo legato giù da un ponte. Alla lunga scena della flagellazione ad opera dei soldati romani assistono soddisfatti Caifa e i sacerdoti del Tempio, mentre la figura del diavolo si profila alle loro spalle. Costantemente accentuate sono le esitazioni e incertezze di Pilato ed esplicita risulta la sua volontà di cercare di salvare Gesù dalla morte, che solo nell’insistenza minacciosa dei sacerdoti e della folla di ebrei, ricalcando qui il racconto di Giovanni, trova la sua sanzione. Si è obiettato che nel corso del processo davanti al sinedrio compaiono anche due sacerdoti che ne denunciano l’illegalità; non mi pare tuttavia che un tale inserimento, ispirato probabilmente ad un passo degli Atti, possa inficiare l’impressione generale che l’insieme del film offre, di una primaria responsabilità ebraica nell’uccisione di Cristo.

Si può affermare dunque che una voluta e consapevole intenzione antisemita anima il film di Gibson? A fermarsi al piano delle intenzioni la risposta è difficile, per non dire impossibile. Un fatto però è evidente e, mi pare, inconfutabile: ripercorrendo nella loro letteralità l’andamento e lo schema di fondo dei racconti evangelici Gibson ne ripropone anche, e per di più accentuandoli, tutti quegli aspetti che caricavano gli ebrei della responsabilità primaria della morte di Gesù in croce. Egli compie così un’operazione che la teologia, la pastorale e la devozione popolare cristiane avevano già compiuto per secoli, trascurando perciò del tutto quelle precisazioni e avvertenze che, non senza fatica, il concilio Vaticano II e le istruzioni pastorali che ne sono seguite, avevano creduto di dover formulare, sia per ciò che riguarda la morte di Cristo, sia per ciò che riguarda i criteri con cui leggere i racconti della passione. Da questo punto di vista Gibson offre un quadro del ruolo degli ebrei nella condanna e nella morte di Cristo che è pienamente preconciliare; e da questo punto di vista si può, dunque, affermare che il film veicola di fatto alcuni dei temi e delle principali accuse di cui si era nutrita per secoli l’ostilità antiebraica dei cristiani, svolgendo una funzione decisiva nelle persecuzioni di cui via via essi sono stati oggetto. Non a torto Bruno Frappat ha scritto su « La Croix » del 3 aprile: “Si un cinéaste avait voulu renouer, en image, avec l’odieuse notion de ‘peuple déicide’, il aurait fait le film de Gibson”

La mia impressione tuttavia è che non sia primariamente in funzione di tali aspetti che Gibson ha costruito il suo film, che non stiano prevalentemente qui il significato e le prospettive di fondo che egli ha voluto assegnargli. Il ritorno in primo piano delle responsabilità ebraiche nella condanna di Cristo è in effetti la scontata e inevitabile conseguenza della scelta preconciliare che Gibson ha compiuto nel rappresentare lo svolgimento e le scene della passione. E sono appunto i termini, la portata e le ricadute di tale scelta che merita brevemente di cercar di capire.

Immagine articolo Fucine Mute

Certamente: si tratta soltanto di un film. Molti lo hanno rilevato. Ma non è secondo tale visione riduttiva che lo ha inteso la straordinaria mobilitazione con cui svariati gruppi cristiani, soprattutto cattolici (Opus Dei, Legionari di Cristo, Fraternité Saint-Pie X, ecc.), con il pieno sostegno di autorevoli esponenti della gerarchia, ne hanno preparato e sostenuto la distribuzione e l’accoglienza, esaltandone il carattere di piena riproposizione del senso autentico e profondo del sacrificio di Cristo e dunque del fondamento stesso della fede cristiana. Il bollettino dell’associazione Pro “Passio”, è arrivato a scrivere nel suo primo numero (novembre 2003) che gli “oltraggi” di cui Gibson è fatto oggetto in America non devono sorprendere: « Celui qui veut glorifier le Christ et le suivre, ne doit-il pas aussi se charger de la Croix? Mais ce fardeau sera d’autant plus léger à supporter pour Gibson, que nous en partagerons le poids avec lui, pour dresser la Croix sur le monde. C’est toute la raison d’être de notre association… ». « Innalzare la croce sul mondo » : sarebbe questo dunque il fine di cui il film di Gibson dovrebbe divenire uno strumento privilegiato.

Sarebbe troppo facile ironizzare sull’enfasi spropositata di affermazioni del genere, come sull’incredibile successo economico e commerciale che quella mobilitazione ha prodotto, in risposta alle critiche e agli attacchi cui fin dal suo annuncio il film ha dato luogo. Perché tale successo si innesta sulle prospettive e corrisponde alle attese di ben diversa portata dei suoi estimatori e divulgatori. Da questo punto di vista mi pare di poter dire che il film è in primo luogo l’espressione (e insieme lo strumento) di un aspro confronto tutto interno alla Chiesa cattolica, che ha sullo sfondo, come oggetto primario della contesa, il concilio Vaticano II e alcuni dei suoi risultati, pur ancora solo in parte tradotti in istituti e in pratica corrente. Non è un caso che il responsabile della Fraternité Saint-Pie X abbia potuto dichiarare, dopo la visione del film, che esso “segna la rottura tra due cristianesimi: il cristianesimo tradizionale, che è quello della Redenzione, del peccato, del perdono, della grazia e della salvezza eterna, e il nuovo cristianesimo, dove la tolleranza, chiamiamola per l’occasione carità, è praticamente il solo valore e il solo legame tra tutti i cristiani”. Così come non è casuale che da varie parti si sia parlato della rappresentazione delle tappe della passione offerta da Gibson, così incredibilmente carica di sangue, violenza, carne sconvolta, piaghe e dolore, come dell’occasione per guardare in faccia il senso e la portata vera del sacrificio di Cristo, come del modo autentico per recuperare la qualità profonda della fede cristiana, in radicale contrapposizione appunto alle “idee dolciastre” di amore, tolleranza, perdono proprie di quella “caricatura buonista” di cristianesimo che ha dimenticato che il Cristo è venuto a portare non la pace ma la spada, non la concordia universale ma la divisione (così, tra gli altri, l’abbé Tanoüarn e Messori). Colpisce in effetti, nel film, lo scarsissimo, per non dire nessuno spazio offerto ai temi e ai caratteri della predicazione di Cristo, per concentrare tutta l’attenzione e l’emotività dello spettatore sulle sue indicibili sofferenze. Non credo dunque sia errato affermare che la visione teologica sottesa a tale rappresentazione richiami l’idea del prezzo di sangue reclamato dalla giustizia di Dio per riscattare la colpa del primo uomo e tutti i peccati del mondo che ne sono derivati, sembri ridurre a tale aspetto il senso della presenza terrena di Gesù, secondo una concezione che ha dominato a lungo nella pastorale e nella pratica cristiana, e ha fondato insieme la pretesa delle gerarchie della Chiesa di poter amministrare esse l’infinito deposito di meriti accumulato in tal modo dal Cristo. Un impianto, dunque, sembra di poter dire, che taglia netto con ogni prospettiva di ecumenismo e di dialogo interreligioso, riproponendo un’immagine e una pratica di Chiesa arroccata nella rivendicazione di unica ed esclusiva depositaria della verità e delle vie di salvezza: come un voler serrare le file intorno a temi e immagini legati alla tradizione e alla memoria dei secoli della christianitas, per recuperare un’identità forte e chiusa, capace di fronteggiare e combattere i processi di integrazione e di incontro, impliciti nella formazione di società multietniche e multireligiose.

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Non penso si possa affermare che tali siano in prevalenza le suggestioni che gli spettatori comuni ricavano dalla visione del film di Gibson: il coinvolgimento, è da credere, resta soprattutto confusamente emotivo. Né probabilmente è secondo quelle idee e prospettive che si sono mossi molti dei parroci che se ne sono fatti entusiastici divulgatori tra i loro fedeli, anche se non credo un buon segno che sia in tali termini che essi abbiano creduto di poter svolgere opera di animazione e formazione religiosa. Un recente intervento di Enzo Bianchi (“La Stampa”, 9 aprile 2004) ne ha messo efficacemente in luce implicazioni e pericoli. Resta però il fatto che nei termini sommariamente ricordati sembrano configurarsi le prospettive di fondo del film e dei più di coloro che con impegno e accanimento ne stanno accompagnando e sostenendo la diffusione: una composita alleanza, parrebbe, dei seguaci ed eredi di quanti, fin dal concilio, ne avevano avversato andamento e conclusioni, con i “pentiti” degli anni successivi e con i tanti che ritengono opportuno accantonarne e dimenticarne una parte almeno dei risultati. Non sembrano molte, tuttavia, nel mondo cattolico, le voci che hanno scelto di affrontare e discutere tali prospettive.

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