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Musica

Claudio Lolli

Un cantautore… dalla parte del torto

Immagine articolo Fucine MuteChi è Claudio Lolli? Un cantautore poco fonogenico, uno scrittore di racconti brevi, o un professore di italiano e latino in un liceo bolognese? Mentre saliamo i novantatré gradini che ci portano ad invadere per un momento la sua vita, ci rendiamo conto che qualcosa non torna. Stiamo andando ad un incontro con un amico ritornato da un lungo viaggio, o gli assenti eravamo noi? Forse Lolli non esiste, ma abbiamo solo e ancora bisogno di credere in figure immaginarie.
Claudio Lolli si sottrae a qualsiasi definizione: né cantautore, né musicista, non gli basterebbe. “Mi metto al piano e scrivo”, ci dice, e lo faccio se ne ho voglia, quando ne ho voglia, come ne ho voglia. Lolli non rientra in nessuna categoria artistica o intellettuale a noi nota. Le sue canzoni sono in perenne bilico tra musica e poesia, due binari che si incrociano per dividersi all’infinito. Ricordiamo Analfabetizzazione, Adriatico, Dalla Parte del Torto, Aspirine: impercettibili soste sulla nostra esistenza, per coglierne un fotogramma, e poi scappare via distillando luce. La musica per Lolli sembra essere una specie di montaggio incrociato di dialoghi. Un’emulsione tra concretezza dei temi trattati e ricchezza di coscienza interiore aggiunta. Si crea una certa tensione nell’ascolto, tra forma e contenuto, caratteristica della vera opera d’arte. Tra quelli che fan finta di provarci, e quelli che hanno fretta di finire, Lolli mantiene una distanza d’emergenza, comodamente sistemato ad osservare, dalla parte del torto, da dove si vede meglio.

Claudio Lolli vive, e non solo, in Via Indipendenza, dove il vento di Bologna passa fulmineo dentro quel corridoio della mente, raccontando mondi possibili, utopie fossilizzate, metamorfosi impossibili. È tornato sul palco a cantare, dopo qualche anno di silenzio, riflessione. O forse, ancora, gli assenti eravamo noi. Ha trovato altri ragazzi ballare sulle note di Ho visto anche degli Zingari felici, e commuoversi per Michel. Vecchi ragazzi del nuovo millennio, con i quali non apre (per ora?) quel dibattito col pubblico che lo ha accompagnato fino ad un momento di questa sua “strana, stranissima, incredibile, imprevedibile carriera”. Forse non ha ancora sconfitta quella timidezza, combattuta sui banchi di scuola, dove insegna a una nuova generazione di soldatini minimi, la ricerca della curiosità, passando per Orazio, e la sua mitica saggezza.
Oggi è il tempo di altri Zingari. Il reading riproposto nel 2003 ha poco a che vedere con quel suo viaggio in giro per l’Italia da Bolzano a Siracusa; erano gli anni settanta, quelli che non ritorneranno più. Quattro amici musicisti, tiratori scelti della fantasia, contrabbandieri di sospiri e di accordi, l’odore acido del fumo, un mare d’alcool su cui navigare e il mondo spiato da una feritoia. E Lolli ricorda: “l’Italicus, Calabresi, la strage, Sofri, tutte queste cose… che ne sanno ormai i giovani?”. I margini di manovra degli zingari sono ridotti, pozzanghere dalle quali non si riesce più a spiccare il volo, ma lui ci riprova a spezzare quelle catene del processo di normalizzazione e alfabetizzazione, che ha nuovi padroni, stesse radici.

Claudio Lolli è qualcosa di assolutamente inatteso. Un omino sprofondato su quella poltrona indisponibile nei confronti del tempo. Risponde pazientemente a tutte le nostre domande, in un soggiorno ridimensionato da una collezione disordinata di libri. E finalmente capiamo cosa non torna. Mentre ripercorriamo a ritroso quei novantatré gradini, mentre cerchiamo una risposta a quell’interrogativo, tutto ritorna chiaro. Per misurare la distanza dalla vita, Claudio Lolli usa numeri immaginari. Il nostro biglietto di ritorno sono le ultime parole mancanti delle sue canzoni.

Immagine articolo Fucine MuteJimmy Milanese (JM): Siamo in compagnia di Claudio Lolli cantautore, scrittore e professore bolognese che ringraziamo per averci ospitato e accettato di rispondere alle nostre domande.
Gli amici di Fucine conoscono Claudio Lolli per la sua capacità di dirigere l’intero processo di pensiero nell’ascoltatore — non solo le emozioni, quindi. Lei dice addirittura che la musica le ha salvato la vita. Ma da che cosa o da chi?

Claudio Lolli (CL): La frase è di Wim Wenders, tratta da uno dei suoi film o forse da un’intervista, non ricordo, comunque è sua sicuramente. Diceva: “Il Rock ‘n Roll mi ha salvato la vita e quindi anche a me in qualche modo”. Io non posso dire Rock ‘n Roll perché non faccio Rock ‘n Roll. Comunque, la musica mi ha salvato la vita dalla banalità, dallo spenderla senza un minimo di senso, senza un minimo di progetto, mi ha salvato la vita perché è stata, comunque, e spero sarà ancora per un po’, una vita interessante, nella ricerca, all’inseguimento di emozioni, sensazioni e alla ricerca della capacità di formalizzarle in qualche modo. È uno scopo: cercare di guardare la realtà con occhi diversi e raccontarla. Se non c’è questo… non so francamente quelli che fanno questo lavoro che cosa facciano.

Jimmy Milanese (JM): Il posto degli artisti, qualcuno ha detto, è dove le cose sono chiare, ma per confonderle, dove il pensiero è dominante, ma per metterlo in discussione. Vale ancora questo assunto?

Claudio Lolli (CL): Sì, certamente. Il messaggio, per così dire “artistico”, dovrebbe essere, credo, un messaggio di complessità, non di semplificazione della realtà: aggiungere continuamente delle possibilità di sfumature. Tutta la poesia moderna, o comunque gran parte di essa, si basa sull’oscurità, chiedendo al lettore uno sforzo d’interpretazione. Interpretare la realtà è praticamente una metafora, forse l’unica metafora possibile della vita. Quindi sì, io credo che l’arte abbia e debba avere ancora questa funzione; non consolatoria, non celebrativa, ma inquietante, generatrice di dubbi, generatrice anche di difficoltà.

JM: Una domanda sulla poesia. Il regista russo Eisenstein disse una volta “Da un fallimento, ovvero il tentativo di parlare alle grandi masse, spesso ci si è ritrovati nella poesia”. Ma nasce veramente così la poesia?

CL: Questa è una domanda veramente difficile. Come dire, il tentativo di parlare alle grandi masse è un tentativo assolutamente nobile, quando lo fai però in modo sincero non puoi io credo usare il linguaggio delle masse perché altrimenti useresti un linguaggio consolatorio e allora c’è una contraddizione. In questa contraddizione straordinaria credo che gli artisti stiano cercando di sopravvivere navigando a vista, magari senza possibilità di soluzione. Il concetto di avanguardia credo significhi proprio questo: un tentativo di produrre un linguaggio nuovo, un linguaggio non consueto, non quotidiano, non banale proprio per salvare la vita non solo a se stessi ma a tutti. Nella misura in cui però questo linguaggio è così nuovo, è così avanti, se è possibile dire questo, si procura da se stesso una sorta di isolamento. Dentro questa contraddizione credo che bisogni vivere.

Immagine articolo Fucine Mute

JM: A proposito di poesia, nel 1972 lei incide Aspettando Godot. Nello stesso anno, guarda caso, Luis Buñuel vince il Premio Oscar con il film: Il fascino discreto della borghesia. Dopo trent’anni e quattordici incisioni, cosa le resta di quella esperienza, di quell’inizio, di quel sogno che non si ripeterà?

CL: Mi resta un ricordo molto bello, e molto piacevole. Quel disco del ’72 è uscito quando avevo ventidue anni. Ma in realtà era stato scritto molto prima: nella distillazione della mia adolescenza, una canzone come Borghesia, avevo 17-18 anni. Mi resta, in un certo senso, la piacevolezza di avere formalizzato in modo elegante e direi piacevole — lo so che parlare bene di se stessi è sgradevole, ma anche la sgradevolezza ha un senso — un ceto, una situazione, non solo sociale ma anche culturale dell’Italia, e credo anche in un modo corretto. L’analisi mi sembra corretta, la formalizzazione mi sembra, ripeto, elegante; il finale, purtroppo, è sbagliato, perché io, diciottenne, ipotizzavo che la piccola borghesia sarebbe stata spazzata via nel giro di pochi anni. Ciò drammaticamente non è successo, e forse è successo il contrario. Però, a diciott’anni si può sbagliare. Il quadro — adesso hai citato Buñuel — mi sembra abbastanza esatto. La sessuofobia e, come dire, l’ipocrisia, il senso di non isolamento del “particulare” guicciardiniano, mi sembrano azzeccati.

JM: E se la borghesia fosse veramente stata spazzata via, come sarebbe considerata la sua musica, la sua produzione letteraria?

CL: Se Cleopatra avesse avuto un naso più brutto, avrebbe avuto lo stesso successo?

JM: Da un certo punto di vista, per lei sembrerebbe andare pure bene?

Immagine articolo Fucine MuteCL: No, per me non va bene, io credo che ci sia un virus culturale terrificante di appiattimento e di omologazione in Italia che viene proprio dall’esaltazione della piccola borghesia: il nostro potere oggi è un potere piccolo borghese. Abbiamo il capo — speriamo che non ci senta, sennò sicuramente fa staccare la luce -, l’icona del piccolo borghese. Ha tutto del piccolo borghese: il potere, il denaro, la volgarità, la mancanza di cultura. È esattamente quello che è il piccolo borghese. Viviamo in questa situazione, e quindi non mi fa assolutamente piacere perché credo che contribuisca ad un appiattimento, ad un impoverimento culturale e tendenziale di tutta l’Italia in cui le persone — non vorrei sembrare snob, un pochino lo sono, ma non troppo -, tutte le persone che pensano e riflettono, sono emarginate. Ciò è detto senza vittimismo, però sono alla periferia dell’impero, alla periferia del pensiero, alla periferia del potere e, come dire, alcuni cadono nella depressione da post donchisciottismo. Ecco, credo queste siano persone che potrebbero dare tantissimo alla cultura di questo paese, potrebbero veramente migliorarla. Parlando di migliorare la cultura, non intendo certamente leggere più libri, andare più anni a scuola o cose di questo genere; ma proprio la cultura, il sentirsi con gli altri abitanti del tuo paese in una relazione migliore, più soddisfacente, più serena. Io credo invece che questa cappa assolutamente piccolo-borghese contribuisca proprio al contrario: alla separazione in piccoli gruppi e all’odio di questi piccoli gruppi. Un campanilismo terrificante.

JM: E se un giorno qualche suo collega professore si ritrovasse a parafrasare Ho visto anche degli zingari felici?

CL: Parafrasare in che senso?

JM: Un sorpasso della musica sulla poesia, nelle preferenze dei giovani.

CL: Questo è già successo, se ho capito bene. Fai delle domande molto intelligenti, ma alle volte un po’ criptiche. Il sorpasso della musica sulla poesia è già avvenuto da tempo: i giovani sono il target delle industrie musicali mondiali e quindi ascoltano musica un po’ perché sono costretti, come vanno in massa a vedere “Il signore degli anelli 3”, adesso stando andando in massa a vedere “Troy”, perché sono stati ben individuati come consumatori di pseudo-cultura. La musica, naturalmente, non è solo e sempre pseudo-cultura. Se qualcuno dicesse che questo lavoro, “Gli zingari felici”, non ha una grande valenza musicale, potrei capirlo.

JM: A proposito di musica, una delle tecniche preferite dai musicisti è quella di utilizzare l’impianto metaforico. Nietzsche diceva che la metafora è una verità dimenticata, De Gregori scrive che la storia siamo noi. Ma quanta verità c’è nella musica?

Immagine articolo Fucine MuteCL: Dopo mi date la laurea? Nella musica c’è tanta verità, tantissima. Non so se la tua domanda si riferisca alla musica come comunicazione sonora, tendenzialmente non referenziale, o se intendi parlare della musica pop, della musica rock, della musica leggera, in Italia e in Europa. In ogni caso, qualunque sia la scelta che tu fai, nella musica c’è tantissima verità, appunto perché è molto lontana dal referente. La musica non ha un senso specifico, non ha un significato preciso: la musica alona, riesce a mettere un alone a tutti i discorsi, in qualche modo è extrarazionale, coglie sentimenti, emozioni, impressioni, e dà una formazione, sicuramente in questo senso, dà una formazione di verità. Forse, il problema tra i giovani è che tutta questa verità, rimane implicita, è difficile farla arrivare poi ad un livello di formazione comunicativa, razionale, o linguistica, cioè di un’altra lingua: è chiaro poi che la musica è una lingua. Io credo che ci sia della verità, mi piacerebbe che questa verità venisse anche tradotta, in qualche modo, a posteriori e in qualcosa. I ragazzi che io conosco, i miei figli, i miei studenti hanno un bisogno assoluto di verità e la cercano in queste cose: nella musica. Lo fanno perché nei libri antichi non riescono più a trovarla: ci sono troppi filtri, e solo pochi riescono a superarli. I ragazzi hanno questo bisogno di verità immediata, emotiva, significativa. Non tutti però, purtroppo io credo, riescono poi a tradurre questo linguaggio musicale.

JM: A proposito di verità, lei nel 1972 scrisse una canzone, Michel. Io la metterei, insieme a Cencio di Guccini e Caro Amico ti scrivo di Dalla, tra i più limpidi omaggi musicali all’amicizia, quella che ti porti dietro per tutta la vita e che resiste al nostro piccolo declino, tanto è vero che, come il nostro cantante preferito e il nostro migliore amico non ci sarà più nessuno. Ma come nasce Michel? Ha voglia di raccontarlo?

CL: Michel nasce in un modo molto semplice: Michel era un ragazzo di origine francese, anzi francese. Ha fatto le scuole medie con me ed è stato il mio primo “innamoramento giovanile”. Con quella canzone mi hanno anche accusato — ma non si può dire che sia un’accusa — di essere omosessuale. Mi ricordo che uscì un articolo su “La fiera letteraria”, un periodico abbastanza serio dell’epoca, anzi serioso, che recensendo questo mio primo disco su “Aspettando Godot” e la canzone Michel, scrisse: “Finalmente gli omosessuali italiani hanno il loro cantore”. Purtroppo non è così: non sono omosessuale, ma certo era un innamoramento adolescenziale. Di un ragazzo bellissimo, biondo, alto, snello, il contrario di quello che ero io. E niente, ebbe veramente questa vicenda abbastanza dolorosa, questo incidente della madre che lo costrinse a tornare in Francia. È molto semplicemente il racconto sincerissimo, a volte anche spudorato, di questa amicizia adolescenziale confinante con l’amore per un ragazzo molto affascinante, questa pronuncia francese con l’erre moscia, questa eleganza, questa lontananza dal mondo, questo esotismo, erano per me irresistibili.

Immagine articolo Fucine MuteJM: Una domanda su Ho visto anche degli zingari felici, memorabile disco del 1977, riproposto l’anno scorso con nuovi arrangiamenti, grazie alla collaborazione de Il parto delle nuvole pesanti e Claudio Capodacqua. Come nasce, dopo 23 anni, la voglia di riproporre un disco con degli arrangiamenti, questa volta veramente gitani, balcanici?

CL: Ho visto, o meglio mi è sembrato di vedere due o tre anni fa nelle piazze una nuova generazione e mi è sembrato di vedere nei loro sguardi, nei loro occhi, nella loro disponibilità a offrire il proprio corpo alla piazza qualche cosa di simile a quello che era successo alla mia generazione. Naturalmente le differenze sono enormi: noi eravamo molto più culturalizzati, forse, e lo si può forse dire anche in senso negativo, no? Forse eravamo eccessivamente ideologici. Abbiamo fatto molta fatica ad arrivare a quel punto, quindi qualche scusa ci si può dare. Questi ragazzi sono molto più semplici, hanno verità più semplici, forse più profonde, più vere, con meno distinguo, non so, con meno elaborazioni. Mi è sembrato che questa gioia del corpo in piazza, questi sguardi, avessero qualcosa di simile. E allora ci siamo detti: perché non riproporgliela, non fargliela sentire? Loro hanno diciott’anni, vent’anni, il disco è uscito venticinque anni fa, probabilmente non lo conoscono, probabilmente non riescono ad ascoltarlo per come era strutturato, per come era suonato, per l’intenzione che aveva e abbiamo pensato di riproporlo in un altro modo, come dicevi tu benissimo, in modo veramente gitano, balcanico, buttando fuori quello che di inespresso c’era, cioè la reciprocità, la popolarità. Quando noi lo facciamo dal vivo, ci sono ragazzi che si mettono a ballare, e allora lì ti chiedi: ma arriva poi questa storia, l’Italicus, Calabresi, la strage, Sofri, tutte queste cose? Forse no, però forse da un altro punto qualche cosa arriva che è ugualmente importante e che forse può essere una specie di premessa per arrivare poi a capire qualche altra cosa. Non è una lezione di storia, è musica. Abbiamo cercato di tirare fuori proprio quello che prima, nella prima edizione, era rimasto molto più compresso, tutto questo ritmo, tutta questa pulsione istintuale, emotiva, musicale, è rimasta un po’ schiacciata dalla parola, che ritengo comunque fondamentale, veramente importante, come il racconto, la visione, l’interpretazione della storia. Venticinque anni dopo, sembrava ridicolo riproporre questo. Non possono, i ragazzi che ascoltano, andare a documentarsi, devono ascoltare lì in quel momento e cogliere, che ne so, qualche brandello, qualche frase, qualche nome, però lì devono stare, col loro corpo come stanno col loro corpo nelle piazze. Insomma, farli ballare è un bellissimo risultato.

JM: Secondo me l’esperimento è riuscito e se riuscirà a far leggere qualche libro in più a qualche ragazzo, avrà fatto anche un’opera, potremmo dire, socialmente utile. Concludiamo, con un’ultima domanda. Nella sua musica non c’è mai un momento di vera esplosione musicale, come ne La locomotiva di Guccini, o Vita spericolata di Vasco Rossi. Magicamente si ha l’impressione, la sensazione, che non ce ne sia bisogno, data la potenza dei dialoghi. Cosa ne pensa?

CL: Sì, in un certo senso è vero, anche se, La locomotiva non è proprio un’esplosione musicale: è un testo assolutamente narrativo, c’è un crescendo e un calando, Vasco Rossi è tutto un altro discorso, però io nasco come raccontatore, come parolaio, come dicitore di esperienze, di emozioni. La musica è molto importante e c’è anche qualche critico che ha capito che molte delle mie canzoni hanno una struttura musicale assolutamente non banale; alcune sì, altre no.
È una parola che tende molto umilmente ad avvicinarsi alla poesia e la poesia ha una sua musica autonoma in un certo senso. Quindi, io non sono un poeta. La musica può essere anche una specie di sottofondo. Detto così sembra brutto, non vorrei svalutarla, però io cerco di lavorare molto di più sulla forza delle parole, delle idee, che sulla musica vera e propria. Se uno mi chiedesse se sono musicista, dovrei essere veramente sincero e dire, no, suono la chitarra, suono il pianoforte, compongo, scrivo, eccetera. Se uno mi dicesse sei un musicista, direi no, non mi basta, non sono capace.

Immagine articolo Fucine MuteJM: Va bene, noi ringraziamo Claudio Lolli per il tempo che ci ha concesso e, proprio in chiusura di quest’intervista, vogliamo ricordare che esiste un bellissimo libro, lo definirei quasi un romanzo, di Jonathan Giustini, sulla vita di Claudio Lolli. Alla fine, proprio alla fine di questo libro, c’è una specie di dedica indiretta di Claudio Lolli. Noi non sveliamo, ovviamente, quale sia questa dedica, ma crediamo che per qualsiasi persona avere un dedica di quel tipo — che lo spettatore potrà andare ovviamente a leggere — sia una delle massime soddisfazioni per uno scrittore. La ringrazio.

CL: Grazie, grazie a voi.

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