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Cinema

Gian Marco Tognazzi

Il mio mestiere

Immagine articolo Fucine MuteJimmy Milanese (JM): Siamo con Gian Marco Tognazzi, interprete nel film Io no, che abbiamo potuto ammirare ieri a Trieste. Gian Marco, si nota una certa “distanza d’emergenza” tra i due fratelli, Flavio e Francesco. In Io no c’è qualcosa di autobiografico?

Gian Marco Tognazzi (GT): Direi di no. Qualcosa di autobiografico, in una storia tra fratelli, lo trovi sempre. Io sono molto diverso da Flavio, probabilmente sono molto più vicino a Francesco: sono sempre stato uno che è andato controcorrente, un po’ per provocazione, un po’ per indole. Per cui se devo pensare a qualche cosa di autobiografico, devo cercarla nel personaggio di Francesco.

JM: Francesco è quello che sta dalla parte del torto, quello venuto su strano. Come mai hai scelto, oppure ti è stata data, la parte di Flavio e non quella di Francesco?

GT: Perché non ho più l’età per poter interpretare il ruolo di Francesco, mancava ciò che è chiamato il physique du role, indipendentemente da quello che c’era di autobiografico con il personaggio di Flavio. È stato deciso così, e in ogni modo, se avessi dovuto ricoprire il ruolo di Francesco, avremmo dovuto trovare un certo tipo di attore per il ruolo di Flavio, e ci sarebbe stato un salto generazionale di  perlomeno otto o dieci anni in avanti. In fondo mi puoi ringiovanire fino ad un certo punto!
E poi, come sempre mi succede, proprio quando c’è qualcosa di più distante da me, la sfida mi affascina di più, nel senso che tra due personaggi, se per me il più semplice da impersonare sarebbe stato Francesco, allora forse lo stimolo più forte stava proprio nell’interpretare Flavio.

JM: Oltre a fare cinema e anche bene, come abbiamo potuto apprezzare, fai anche teatro. Dove ti senti più a tuo agio?

GT: Sono due discipline totalmente diverse, sia per ritmi sia per tempistiche. Io non ho una preferenza. Devo dire che il teatro — sicuramente negli ultimi anni — ti mette in condizione di avere — se hai la fortuna di poter fare il protagonista — la possibilità di scegliere di più rispetto al cinema, dove sei necessariamente scelto. Nel teatro hai anche la possibilità di crescere con il tuo personaggio. Il cinema, da un certo punto di vista, è più difficile perché comunque devi seguire delle tempistiche molto strette, devi riuscire a centrare quello che è il personaggio e poi costruire pezzettino per pezzettino, senza aver più modo di recuperare. Mentre a teatro il vero vantaggio è che ogni sera si cambia pubblico o città, e hai anche la possibilità di misurarti con esperienze diverse del tuo personaggio.

Immagine articolo Fucine MuteJM: Quindi, credi che ci sia una sorta di intercambiabilità fra il ruolo dell’attore di teatro e l’attore cinematografico?

GT: Assolutamente sì. Non ho mai pensato che ci fosse una netta distinzione. Sarebbe bene che un attore, in linea di massima, facesse tutto e avesse l’opportunità di fare tutto. Io, per esempio, nel teatro sono riuscito per ora a districarmi tra la drammaturgia contemporanea, un po’ di commedia, fino ad arrivare al Musical. Mi manca, ad esempio, tutta l’esperienza del classico, che probabilmente devo ancora maturare, devo trovare gli stimoli.

JM: Proprio come dicevi, l’attore di teatro ha una sensibilità maggiore perché ha il contatto con il pubblico. Tu sei stato diverse volte a Trieste, e in tante altre piazze d’Italia. In che misura ti accorgi di una sensibilità diversa del pubblico triestino rispetto a quello di altre città?

GT: Te ne accorgi dalla partecipazione, dall’attenzione e dal rispetto. Una città di cultura come Trieste mantiene delle tradizioni, delle regole; in alcune altre città d’Italia, magari, non c’è l’abitudine o l’attenzione necessaria perché il teatro è visto come una forma di spettacolo alternativa. Invece, quando ti accorgi di un pubblico attento, di un pubblico che dopo lo spettacolo ha necessità di volersi confrontare con te per sapere di più su come hai lavorato, queste sensazioni ti arrivano. È chiaro che dalla platea cerchi di capire subito se lo spettacolo è stato accolto come te lo aspettavi. In ogni modo, se il personaggio riesce a colpire a fondo, soprattutto se è un’opera comica — perché è la risata che in qualche modo ti dà la cartina di tornasole su come sta andando lo spettacolo -, il confronto con il pubblico e l’attenzione, e anche gli incontri che poi ho fatto molto spesso con il pubblico qui a Trieste, sono stati estremamente stimolanti. In un certo senso, questo mi fa essere molto legato a questa città, che poi trovo bellissima e nella quale torno molto volentieri. Un’altra città che mi accoglie sempre in maniera veramente calorosa è Torino oppure Firenze; poi ci sono altre città nelle quali, invece, hai meno appeal, un minor confronto col pubblico.

JM: Per un attore è più cocente la delusione di fronte ad una scarsa platea in un teatro, quando si apre il sipario, o di un cinema vuoto? Nel senso di sconfitta, di impatto immediato.

GT: Come sconfitta sono terribili tutte e due. La differenza è che a teatro sei presente in quel momento, mentre al cinema no. Un film lo giri mesi e mesi prima, perciò puoi anche non soffrirne visto che te lo raccontano, e non sei lì. A teatro, quando si apre il sipario — non conosco bene le abitudini dei miei colleghi — ma io mi rendo immediatamente conto di quello che c’è in platea, anche a livello di partecipazione. Sono un tipo d’attore che rimane sul palco a recitare, ma nello stesso tempo scende giù in platea e cerca di partecipare al suo umore. Fortunatamente ti posso dire che la sensazione di trovarsi con un teatro vuoto, veramente vuoto, per ora non l’ho mai provata. Purtroppo capita più spesso di vedere o di sapere che al cinema la sala era vuota. Questo è un dolore, inutile negarlo. Però poi, nel momento in cui fai teatro, l’importante non è la quantità: io ho iniziato in teatri che contenevano quaranta o cinquanta posti. Per cui, voglio dire, non conta la quantità, ma l’attenzione. In realtà, questo mestiere molto spesso lo si fa egoisticamente per se stessi più che per il pubblico.

Immagine articolo Fucine Mute

JM: Tutti quelli che fanno il tuo mestiere hanno il sogno di interpretare questo piuttosto che quell’altro ruolo. Qual è la parte che tu sogneresti di interpretare, ma per la quale non ti senti all’altezza, se non ti senti all’altezza?

GT: Ti dicevo: i classici. Devo erudirmi su tutto quello che è stato il classico e capire perché l’ho sempre visto molto distante da me; forse per questo pensavo che non mi potesse interessare. Invece non è vero, ho scoperto che mi interessa. Voglio solo trovare la formula giusta: non deve essere per forza una formula innovativa o di stupore per il pubblico. Voglio trovare qualche cosa che sento fortemente, ma prima di tutto devo re-immagazzinare il panorama di opere meravigliose di autori italiani, francesi, e inglesi: da Molière per arrivare fino a Shakespeare. Credo sia un lavoro molto lungo e devo meditare sul da farsi. In questo momento non ti saprei dire. Mio padre, che non ha fatto tantissimo teatro di prosa, ha affrontato alcuni classici che devo scartare a priori per evitare di entrare nel confronto. Ci devo pensare bene: non te lo so dire adesso.

JM: Quindi è una questione anche di pazienza?

GT: Devi sentirti pronto. Per esempio, Alessandro Gassman col quale ho lavorato molto spesso e che sento abitualmente, ha una predisposizione data anche dalla tradizione di famiglia. Ha, come dire, una predisposizione maggiore per fare quel tipo di spettacolo che nasce da una formazione specifica. Lui s’è formato attraverso un tipo di recitazione e di scuola molto dura: credo alla Bottega di Firenze con suo padre (Vittorio Gassman, ndr) che, da una parte può sembrare una scelta molto comoda, ma da un’altra lo ha portato sotto l’occhio del giudizio, dove se sbagli non ne passi una liscia. Quindi, credo che quello di Alessandro sia stato un lavoro molto duro. Io nasco probabilmente più dalla spontaneità, dal lavorare su delle corde, se vuoi, più da autodidatta, anche se poi ho studiato e ho fatto le mie ricerche da attore. Da parte sua, c’è una predisposizione maggiore e quindi la scelta è anche automaticamente più facile.

JM: Dunque, hai scelto di diventare attore. E non ti è mai balenata l’idea, per esempio, di fare quel passaggio abbastanza tipico, da davanti a dietro la macchina da presa, o addirittura alla fase di scrittura. Non ti attira questo tipo di prospettiva?

GT: Non è che la prospettiva non mi attiri. Io ho cominciato paradossalmente esattamente al contrario, facendo proprio tutto quello che si fa dietro la macchina da presa. Infatti, ho studiato come operatore alla macchina e ho fatto per anni l’assistente alla regia: ho voluto prima capire esattamente quali fossero tutte le componenti del cinema. Tanti lavori specifici e molto diversi tra loro, che poi confluiscono tutti quanti per soddisfare un unico fine. Sapere bene cos’è il lavoro degli altri, come attore, ti dà anche una dimensione che è necessario conoscere. Altrimenti quando si sta su un set, la molta teoria si scontra con la pratica (molto diversa). Non ho mai avuto la predisposizione per la scrittura: sono capace di trovare la variante di un qualcosa di già scritto, più che riuscire a scrivere dal foglio bianco. Sono troppo ipercritico, rischio di scrivere qualcosa che poi magari interessa soltanto a me, quindi la boccio in partenza. Allora preferisco far scrivere gli altri. Avendo la fortuna di un padre di tale spessore, verso il quale mi sono messo solo involontariamente a confronto, perché io non faccio questo mestiere per mettermi a confronto con mio padre, devo bilanciare le mie scelte. Quando scegli di fare l’attore e sei figlio di un attore famoso, quel confronto, in linea di massima, te lo devi aspettare, nonostante non esistano i paragoni, perché ci sono personalità diverse, tempistiche diverse… Figurati se io adesso, con tre fratelli registi mi metto a confronto anche con loro, che sono arrivati prima di me. Io faccio soltanto il mio mestiere, che è quello dell’attore. Ho provato a fare anche il produttore e ho capito che non era il mio mestiere, per cui sono tornato ad essere unicamente attore e spero di poter fare bene almeno questo, cioè di migliorare a seconda delle opportunità che mi vengono offerte, perché un altro luogo comune è quello di pensare che le cose che fai dipendano esclusivamente da te. In Italia, e un po’ in tutto il mondo, gli attori sono a disposizione e sono “tirati dentro” da un regista che li vuole. Per cui, ciò che fai dipende soprattutto dagli altri.

Immagine articolo Fucine MuteJM: Una domanda conclusiva, per ritornare al film che abbiamo visto ieri. Tu hai dichiarato di avere questa preparazione tecnica dietro la macchina da presa, ma questa competenza potrebbe potenzialmente essere un ostacolo per chi ti dirige. L’essere a conoscenza di quello che avviene dietro alla macchina da presa, ti fa mai venire la voglia di intervenire nel processo produttivo?

GT: Spero di no, ma ogni tanto ho la sensazione di sì. Io non mi permetto di entrare nel merito o di forzare la mano su ogni cosa. Posso dire la mia opinione, come la dicono in tanti. Questo dipende dal grado di confidenza che hai con il regista o con le persone con cui stai lavorando a quel film, per cui non penso che possa essere di disturbo. La mia voglia di intervenire nasce spontaneamente dal tentativo di risolvere situazioni che si determinano dall’inesperienza altrui e che io penso di poter risolvere visto che mi faccio forte delle mie esperienze preesistenti. Quindi, lo dico sinceramente, penso in maniera generosa: non è per far notare agli altri che ho una preparazione migliore. Credo che ogni buona idea possa aiutare chi ha meno esperienza. Inoltre, questo mio atteggiamento va a tutto vantaggio del film, anche se non reputo il mio supporto un aiuto — perché non c’è la necessità assoluta del mio aiuto — ma c’è la necessità dell’aiuto di chiunque sappia o possa dare un consiglio. Se poi il mio intervento è interpretato male, me ne dispiaccio perché non è chiaramente mia intenzione andare ad insegnare, è solo un tentativo di cercare di lavorare bene in Italia: un paese dai mezzi e tempi limitati. Il mio scopo è quello di essere tutti uniti verso la meta.
Quando poi hai la fortuna di fare dei film importanti, bene organizzati, produttivamente protetti e con delle professionalità tali dalle quali puoi soltanto imparare, è ovvio che, magari il primo giorno cadi nella deformazione professionale, ma poi ti dicono: “Guarda che sei protetto, qui non c’è bisogno che tu ti occupi di tutte le piccole cose”. Per cui, torni a fare il tuo mestiere, che è quello dell’attore. In ogni modo, non credo che possa dare fastidio, perché non è mai un comportamento votato alla critica verso gli altri. In fondo, anche io accetto i consigli delle persone che stanno lavorando con me, indipendentemente dalla loro esperienza, perché sono esterni al lavoro che sto svolgendo dentro di me.

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