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Scrittura

I Mistici di Erminia Passannanti

Sulla nostra condizione critica

Immagine articolo Fucine MuteCosa unisce religione e poesia? Lo studio dell’eternità?
Si potrebbe affermare che, ovunque si presenti la luce, le tenebre svaniscano e che questo movimento di presenza e di assenza di luce, l’avvicendarsi delle generazioni di uomini, scandisca come un orologio l’eternità, ma qual è la luce che illumina i processi della storia? E, se la poesia fosse solo un processo di scrittura, Lazzaro, appena risvegliato dall’eterno sonno della morte,vi andrebbe incontro come l’infelice appestato che i poetichiamano verso?
Alla prima domanda rispondiamo che alcuni esseri umani, con tutto il corpo, hanno illuminato con la fragile eternità di cui disponevano, che sentivano, la storia o, come direbbe Franco Fortini, il vero che è passato.
Alla seconda domanda, rispondo che quel lazzarone chiamato verso, più che infelice o felice di essere stato rianimato, dovrebbe essere nocivo, decisivo, rompere il processo di scrittura e correre oltre il testo come eternità.
Il masso della tomba di Lazzaro lo sposta il poeta senza l’aiuto di nessuno, senza il controllo dei tempi,senza timbrare il cartellino che pone il verso nella storia di una letteratura fantasmagorica.
L’importante è che qualcosa nel dimostrare, indicare e verificare, ci torturi; che qualcosa di quotidiano verifichi la regola d’un tempo/fuori dal comune. La poesia incontra la nostra vita nella straordinarietà dell’ordinario e, velata da una buona dose di ironia, anche nel misticismo della routine, il nostro debole sangue.
Questi sono i passi di Erminia Passannanti in Mistici, libro edito da Ripostes: folli o utopici, basta che colgano il segno, il punto di vista preciso dove applicare la leva per alzare questo debole sangue; e nei pressi di cosa si trova questo punto di osservazione, questa leva?
Vicino a ciò che non ha consistenza, che non ha niente, come la sospensione dello stupore o l’interdizione di fronte il male/posto/ai limiti comuni, il male di vivere che ci tiene incollati alle nostre benedizioni quotidiane come una bibbia nera.

L’iniziale poesia-invocazione Volevo scrivere una lirica di Erminia Passannanti è chiara: qualsiasi prassi ufficiale, categoria, genere che si consolida in poesia (in ogni religiosità umana o nel pensiero del nostro essere qui) dà vita a quella sorta di spartizione della torta (i nostri interessi, le speranze, la voglia di costruire qualcosa di tangibile) da parte di una confraternita più o meno variegata di individui, spiriti incapaci/di fare i regnanti, ma capacissimi di fare gli avventori, gli speculatori, non riuscendo a meditare una piccola ma salda economia, un onesto baratto sociale.
La mia ipotesi è che si tratti di qualcosa simile ai convegnisti assonnati, ai prelati abbottonati, presidenti di quella squadra o di quel partito che nel prendere a calci il mondo non hanno la consapevolezza di prendersi a calci, gente senza idee, poeti troppo “pateticamente” o dai versi-copia di quelli dei “maestri”. E i maestri? Dov’è il rabbi?
La nostra società distrugge i “maestri” per la glorificazione dello spettacolo, del culo delle soubrette televisive, ma la nostra finzione quotidiana (o mitologia) non è dotata del tatto.
La solennità del corpo ce la siamo dimenticata, ci siamo dimenticati anche la nostra debole carne… Aspetta, un angelo telegenico sta per stuzzicarci… No, ciò che vediamo e sentiamo non è nostro; questo paradiso è un miraggio.
Siamo individui che non mascherano di essere presi da un delirio di voci, ma al contrario dei poeti e degli angelinon riusciamo a trascriverlo questo delirante volo, e ci glorifichiamo solamente dell’esperienza di altri più grandi (conduttori televisivi che telefonano in diretta al figlio che ha ucciso il padre, dive in doppio o triplo petto e poi scandalo per quattro seni al vento, attori mediocri da fiction che festeggiano quarant’anni di carriera, politici, psico-conduttori da talk show).
Può consolarci il fatto che è peggiore, malsano, impudico per passività, chi si comporta come i primi anticristo denunciati da San Giovanni nella Seconda Epistola, cioè chi vorrebbe sedurci e ci riesce.
Per l’esattezza, chi di voi ha letto e riletto la Bibbia e critica apertamente alcune impostazioni o interpretazioni degli apparati religiosi?
Chi sono questi anticristo o questi moderni anticristo di cui vi parla questo articolo, evocandone il mistero?
Gli anticristo, per San Giovanni, sono i molti seduttori “usciti per il mondo, i quali non confessano Gesù Cristo esser venuto in carne”.
La Passannanti dunque, che parla di un Cristo in carne, non è un anticristo.
La Passannanti, che discute la verginità della Madonna, non è un anticristo.
Questo perché chi ha scritto il Vangelo usava un linguaggio poetico, non letterale. L’interesse era l’insegnamento di qualcosa nei pressi della verità, e questo perché nel momento in cui un uomo nomina qualcosa, crea la prima scissione tra sé e l’oggetto.
Inoltre, quando un uomo propone il suo messaggio, spetta ad un altro individuo riceverlo — il mito incorporò questa funzione della comunicazione sociale -; pensiamo alle parabole di Gesù: l’esser in grado di interpretarle, di dare risposte individuali, di prendersi ulteriori responsabilità, non era fondamentale per la crescita individuale e sociale?
Allora gli anticristo non sono i poeti, ma i dogmi.
Gli anticristo sono tutti coloro che, lavorando nelle istituzioni, nei giornali, grazie a strutture sociali e culturali, non denunciano e non combattono quelle “verità di bruttezza del potere” o quelle “bellezze che il mondo vorrebbe insegnare e nel farlo non lascia all’individuo la possibilità di svelarle”, come quando si cerca di inculcare la poesia o la parola di Dio.
Gli anticristo sono tutti coloro che continuano a sedursi la fiction di tutti i giorni, qualsiasi essa sia, e vi subordinano la dignità, che in Italia è addirittura simile al fingere di esseri liberi e felici nel paese delle meraviglie e delle marachelle.

Immagine articolo Fucine Mute“Chiunque non opera nella giustizia non è da Dio” dice San Giovanni nella Prima Epistola.
Nel paese, l’Italia, dove il truffatore arricchisce e l’onesto impoverisce, dove gli ultimi non saranno mai i primi, dove lo status è nell’essere star da spaghetti-tv e tutto il resto è numero da audience o vestirsi bene per andare a messa la domenica, l’eresia del male del nostro vivere contemporaneo è sublime ed è insita nell’immagine a cui aderiamo con così grande capacità che non riusciamo alla fine a sopportarla nelle sue conseguenze, negli effetti nefasti, cioè il dimenticarci, il dimenticare di avere un corpo, delle dita, un naso, una pancia, un cuore, il cervello.
E il nostro genio? Chi sono i nostri geni, i nostri maestri? Li ricordate?
Il calciatori, le letterine, i raccomandati che trovano lavoro e i nostri laureati che non lo trovano?
Il genio non è il genio di una sola mente, ma medita il Dialogo tra Saggezza Muliebre/e Virile Incertezza e si chiede quanto/della stoffa intellettuale provenga/dal suo collaboratore di scritture/l’alato Gabriele.
No, i nostri miti contemporanei sono diversi dal genio: sono tutti così perfetti e sicuri che non hanno bisogno di nessuno o di riflettere qualcosa, tranne le telecamere delle tv. Sono già il mondo delle idee e per noi tutti i nostri miti…
Il genio è uno troppo intelligente per essere considerato dalla tv, è uno che non dà nulla per scontato e che dovrebbe avere un programma solo per sé, è uno che non è determinato storicamente o preciso per definizione quindi difficile da inquadrare; però sa riconoscere ciò che ama, ciò da cui è influenzato, ed è per questo che riesce ancora a stupirsi di qualcos’altro o a rimanere interdetto a causa dell’eterno ritorno dell’uguale, della routine.
Allora anche noi possiamo ambire a qualche forma di genialità. Quale?
Forse tra tutti i nostri interrogativi, le nostre metafore, i concetti di noi stessi così abilmente cementati o mimetizzati, l’unica speranza che possiamo nutrire come uomini di questa età postmoderna, non ancora post-atomica, è che il bunker prospettico che ci siamo costruiti regga e non si sbricioli alla prima occasionale e accidentale caduta nel mondo e del mondo.
A meno che non si esca dal bunker.

Fortini dice: “A poco a poco il lume del giorno ruota” e noi non ce ne accorgiamo e giunge la notte.
Probabilmente i sogni (e gli incubi) non sono ancora stati corrotti poiché nessun Signor Io li controlla, nessuna Santa Inquisizione ci imprigiona per qualche peccatuccio inconscio.
Ma svegliamoci un po’, su, svegliamoci!
È evidente che in questa situazione politica e sociale di inizio millennio, da angeli un po’ uccellacci presi nella rete di oscuri bracconieri che evocano scontri di civiltà, il tempio della nostra anima oscilli tra la poesia (inconscia) e la disperazione (conscia) e qualche forma di religiosità (non ben definita, presa a prestito casualmente).
Come direbbe Sant’Agostino, continuiamo a cercare Dio negli angeli, quando dovremmo cercare Dio come lo cercano gli angeli, ma siamo angeli?
Sarà che senza la conoscenza delle reti non abbiamo la consapevolezza del volo…
Forse è meglio non seguire Sant’Agostino, perché è l’unico che ha avuto il coraggio di affermare che dopo più di trecento anni non si capiva più cosa significassero i simboli del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo; meglio rimanere ingabbiati, meglio professare l’atto di fede e lavarsi le mani.
Già, è un terreno di non facile edificazione il nostro esistere, confine mobile tra i controlli della nuova religione sociale chiamata ignominiosamente democrazia (e non più Repubblica Italiana, il cui significato è più vasto e risiede nella Costituzione), con cui democraticamente andiamo ad occupare paesi, e quel sottile meccanismo di vecchio stampo chiamato senso di colpa, o forse più filosoficamente quell’intersecare di linee orizzontali, che rappresenterebbero la nostra incanalata esperienza del mondo, con linee verticali, apocalittiche, provenienti dall’alto quotidianamente, quasi dogmi, quasi “televisivamente”, tentativi di esorcizzare l’esperienza del pensiero della morte con la morte, con il niente, con la tortura, con la paura dell’altro, con le uccisioni, con le barbarie umane di sempre, mentre ceniamo o pranziamo a casa nostra.
E il pensiero, la cultura, la religione, a cosa servono? A volare?
Pare che a nessuno venga in mente qualcosa, come in questa poesia:


Gli astanti

Siedi e pensa alla quantità di oggetti a tiro.
Nessuno che colga l’essenza di questa cosa,
l’esistere. Nessuno che interpreti
il motivo di questo spreco.
Non viene in mente niente a nessuno.

Nella sala d’aspetto si guardano l’un l’altro.
Le poltrone di pelle nera sono squadrate come cubi.
Due vi sprofondano dentro. La terza non
ci si è ancora rassegnata.

Così procede l’osservazione dello spazio concesso
agli astanti. Dai faretti incastonati dal soffitto piomba
sui loro zigomi un’ombra bieca, moderna.

Il parrucchiere ha fatto il suo dovere.
Anche il designer. Gli abiti neri
indicano la fine della corsa. Sul pavimento
di marmo giacciono tre sfere.

Attendiamo una divinazione dalla nostra sfera personale? Attendiamo miracoli? Che le sfere sul pavimento di marmo del nostro futuro si sollevino? O siamo pronti a chiamare l’oracolo, quell’onesto signorino dalle labbra carnose che mescola le carte in tv così bene (con numero di telefono in sovrimpressione e in evidenza, con scatto alla risposta segnalato più in basso e in minuscolo), così bravo che in una di quelle piccole tv commerciali è sprecato: sarebbe da proporre al tg nazionale dopo lo sport a posto della cultura: un nuovo profeta… Pardon, ci pensa già il gossip a patinare l’atmosfera di casa verso le sette di sera.
Ma se si potesse dar vita a quell’ora ad un tempo inventato della letteratura?
Se si parlasse di cultura, di arte contemporanea, se si creasse un format culturale non alle tre di notte ma alle otto o alle nove di sera?
Sarebbe troppo impegnativo, impegnato?

Immagine articolo Fucine MuteSono convinto che una ipotetica Sylvia Plath lo guarderebbe, pure dopo aver ascoltato le notizie sui Kamikaze man mediorientali in quel rifugio che è la nostra casa occidentale.
In ogni caso, preparando la cena per il suo Ted Hughes di turno, troverebbe il tempo anche per tagliarsi un dito nel tentativo di fare a spicchi una cipolla — affare ben diverso dal tagliare la testa ad un uomo per mandarla in mondovisione, ma che brivido però!
Perdonate cari lettori qualificati, addetti invincibili ai lavori, i miei accostamenti lugubri, e questa pausa sarcastica sulla mia e vostra esistenza.
Lo so, Erminia Passannanti non è Sylvia Plath se non per qualche atmosfera che a me ricorda la raccolta Ariel, le nere amnesie del cielo, la rugiada che vola suicida; il ventre di terra come, nella Passannanti, lo spasimo che sta/in fondo alla natura.
Mi preme sottolineare che il “come” in poesia stupisce di più quando lega elementi contrastanti ed è proprio per questo che non a caso metto sullo stesso piano Sylvia Plath e Erminia Passannanti: le due donne sono “diverse”, cioè per il nostro vocabolario totalmente o parzialmente opposte per caratteri intrinseci oggettivamente rilevabili, ma “come” la statunitense la Passannanti ha una sensibilità artistica in riferimento proprio al tema del martirio.
Quindi nel “come” si può essere “diversi” se il nodo centrale è svolto da un terzo elemento non neutro, come ad esempio un concetto che può operare addirittura sullo sfondo. Trovo questa proprietà della comunicazione umana straordinaria!
Trovo banale invece che qualcuno sia convinto che la lingua italiana possa essere interpretata (esempi possono essere presi a caso osservando i nostri politici, anche di rilievo, in molte occasioni ridicole).
Questo mi fa capire che per prima cosa molti non conoscono la lingua italiana, e quindi non dovrebbero avere voce in capitolo su tanti argomenti — figuriamoci entrare in politica -; secondariamente molti non sanno cosa sia l’interpretazione, cioè praticamente tutto, e in sostanza l’esercizio della critica. Secondo me chi interpreta fa sempre bene, e chi esercita la critica prende i suoi rischi e li motiva conoscendo discretamente bene le parole che sta usando.
Altri stanno studiando nuovi lacci ai polsi, nuove catene, nuovi medioevo da farci vivere, nuovi spettacolini, e basta avere quel poco di potere in più ovunque ci si trovi.
Altri — non chi esercita la critica — sganciano le bombe senza alcuna motivazione e creano martiri: volete che tutto ciò vada in onda?
Un’altra domanda: riusciremo o no ad interpretare a partire dai fatti, dalla storia, dalla cultura e dare forma a qualche azione libera e personale nella vita di ogni giorno? Un’azione che non sia una divinazione passiva?
Siete in grado di interpretare le parole, capire cosa è poesia e cosa non lo è?
Cosa è religione è cosa non lo è?
Cosa è vita e cosa è fiction?

Noi critici di internet, come novelli Cartesio che leggono al lume di candela, parliamo di autori contemporanei sconosciuti il cui cammino non è nel paradiso della letteratura e quindi non interessano i politici, le case editrici, le nobili lobby di settore; ne parliamo perché alle volte questi autori toccano un argomento scottante, ed è questo il caso di Erminia Passannanti.
Chi ha poca competenza nel settore ci intima di trovare le parole giuste quali “si differenzia” o “prende spunto” al posto di “diversamente” da questo o da quello, ma non hanno capito cos’è la poesia e neanche la leggono. Non comprendono quale funzione debba esercitare la critica.
Nel futuro noi critici non parleremo più delle nostre impressioni personali, di ciò che avviene nel mondo, ma scaricheremo da qualche hardware, illecitamente oramai grazie ai vari “decreti” urbani e dunque anche con qualche brivido in formato mp3, le parole da dire, le azioni da affermare, il nostro cammino nella vita e nella società.
Diremo che la storia è morta e con essa la nostra fragile eternità; diremo che la religione cattolica non si può discutere perché significherebbe colpire un possibile bacino elettorale, e così via, via…

Saremo tutti come quello o quell’altro, ma su piani “diversi” da esplicitare per non incorrere in uguaglianze, non potendo ovviamente pensare che i lettori possiedano capacità interpretative o che la preparazione di uno sfondo sia oltremodo comunicativa.
Saremo santi, santi con aureola, ma senza caratteri intrinseci oggettivamente rilevabili — per quelli fanno le leggi, dicono — e tutti con dietro uno sfondo grigio e un simbolo qualsiasi di libertà, e tante tante bandierine da sventolare.
E le piccole colorate utopie dei poeti?
Siamo già stati sacrificati, siamo parole da aggiustare, numeri da interpretare, spicciola economia, martiri e nemmeno ironicamente ce ne accorgiamo.
Il fatto è che non solo la poesia o la religione possono essere interpretate (anzi le uniche possibilità di conoscenza in questi ambiti sono l’interpretazione e l’esperienza personale e la Passannanti si diverte a farlo), anche noi ad un altro livello di discussione siamo altre forme, ed essendo forme siamo manovrabili, censurabili, trascurabili.
Riusciremo in quanto forme sociali, uomini che si aggregano, chiesa, a proporre azioni e a modificare la società? Riusciremo ad oltrepassare il nulla o l’uguale in quanto forme e possibilità per i cambiamenti?
A mio dire lo facciamo ogni giorno, nell’avere delle idee personali, nel difenderle e nel riconoscere gli sbagli e nel procedere:

Preghiera

fammi essere vera Signore
per la santità del tuo cuore
per la beltà della piaga
che s’apre nel tuo petto
per il rispetto
che porto a Mio Padre

molte lacere ore e sudati consessi
questi affanni han reso poesia
non ritenetemi ria
chiedon venia i miei versi

per la chiazza d’inchiostro
che macchia ogni mio scritto
per i sogni che faccio
all’imperfetto

per l’errore che segna
il mio pensiero a sera concedi
ch’io sia nera
ignora le mie colpe

Immagine articolo Fucine MuteAmen.
Mi sono abituato a pensare che l’artista sulla società abbia da dire, anche indirettamente, e che sbagli e sia “nero” per il tentativo di operare “diversamente” dai modelli su cui si è formato: queste sono le premesse per considerare qualcuno un artista (ed anche per recensirlo).
Poi l’esercizio della critica a ben vedere non è una palude:alle volte sarebbe di auspicio (e forse anche forma di cortesia) considerare la critica come la moderna pizia che interpreta i farfugliamenti dell’arte meglio di chi non se ne interessa, meglio di chi specula sulla vostra intelligenza e sul vostro portafoglio.
Scusate, ma non so dire altro ai lettori che un “guardate, ci sono tante pallottole visibili al lato della tempia; ci sono tanti beauty farm, non propriamente di poesia, la cui rima esoterica si può osservare nel lembo (o limbo) religioso che è il mondo”.
C’è un’altra cosa che si può osservare, non direttamente, ma intuire e possiamo essere sicuri della qualità artistica di un individuo: l’intenzionalità, e il fatto che le idee che l’artista orienta e da cui si orienta creano l’opera e sono tentativi importanti; l’opera non è cavilli legislativi o scrittura del critico o categorie che svettano e che alimentano il famoso circolo olimpico delle riviste di settore.
Al bando le sottigliezze cari lettori, piuttosto leggetela la poesia e, successivamente, ponetevi delle domande eterne e non pontificate sugli avverbi come me. Questo è l’esercizio della vera critica.

Profezia

I.

scagliata fuori da una stanza screziata
di marrone e ocra sorvolo le auto imbottigliate
nel traffico reggendo a coppa tra le mani
una ciotola di riso come a tuffarmi
nell’azzurro tremulo d’un banco oceanico
nel solo interesse dello spirito

la mia faccia è percorsa da un fine reticolo
di linee e cerchi che tratteggiano
occhi narici bocca come stessi per sottopormi
a un intervento estetico

II.

pronome lapidario scolpito in Times New Roman — Io
penso a quello che penso (come e quando lo desidero)
torreggiando sulla città come un pauroso gigante
che mostra alla folla la cavità nera del suo stomaco

III.

immaginate le membra dopo la caduta
sparpagliate sull’area pedonale — il naso frantumato,
la faccia sfigurata e lacera, le braccia torte
divenute bianco-gesso, le gambe slogate,
le calze color crema
che mostrano attraverso i larghi strappi ellittici
le ginocchia e le cosce escoriate

IV.

si ritiene fosse un’infermiera da poco iscrittasi
al Partito Comunista
il cui nome è tuttora ignoto — il profilo
è quello d’una donna
che ha trascorso gli ultimi quindici secondi di vita
con gli occhi fissi su una ciotola di riso
contro lo sfondo d’un banco oceanico.

Oxford, 9 settembre 2001

La drammaticità dell’esistenza e la grandezza trasmessa grazie ad un concetto che funge da nodo, o grazie ad un simbolo che evoca (quale può essere in questa poesia il banco oceanico, che però si fa visione accanto ad una ciotola di riso), potrebbe essere la dimostrazione che la poesia deborda dal “foglio di carta” solo nel momento in cui il segno si fa particolare comunicativo per una totalità di impressioni correlate, l’opera.
Tuttavia ritengo che la preparazione di un “contesto” o di una “cornice” oltre l’opera aiuti il movimento comunicativo dei segni e dei simboli e dei concetti nell’opera, rendendola più facilmente assimilabile e accompagnando la riflessione. Sono convinto che questa preparazione sia rintracciabile nelle composizioni migliori del libro Mistici.
Le composizioni che amplificano il luogo (che sia un luogo preso dal reale, la cornice di evento o di un sogno, o un contesto di segnali sonori dal significato coordinato) grazie ad un oltre, un altro, un al di qua percepibile, conferiscono elasticità al rapporto tra il lettore e l’opera, favorendo la comunicazione.
Infatti, nel luogo dove si svolge la finzione, cioè tra l’opera e il lettore, quest’ultimo aderisce naturalmente come se si trattasse della realtà, come se fosse il partecipante di un rituale. Si può essere corpi “unici” con l’opera, cioè ci possiamo trovare nella posizione ideale per essere orientati, riflettere od emozionarci. O sognare:

La vita consacrata

guardami spogliata dei miei beni terreni
che condivido con gli altri
il cammino lungo una strada bianca
che si perde, si perde nei sogni.

vado a testa alta sotto una pioggia di raggi.
la strada è un rifugio possibile.
poco importa che siano mille, le lingue. sposerò
la donna che è in me all’uomo più straniero.
dannati senza terra, con niente da perdere.

all’orizzonte del ritorno, questa luce
ci abbaglia, si spande sulle soglie
tra la polvere, al nostro passaggio,
potresti confonderti come una città
invasa da un immenso gregge.

Erminia Passannanti assimila immagini, segni e concetti, che poi si trasformano e si muovono coll’andare del testo, ma quando il poeta indica o batte su alcuni elementi è perché questi orientano di più la composizione nella sua totalità. La scelta cade su concetti, quali il non farsi venire in mente un’idea, o immagini, come la ciotola, che sono banali, presi dalla quotidianità dei gesti; nell’opera però il lettore è sollecitato da improvvisi cambi di prospettiva e questo fare offre grande variabilità di impressioni ed emozioni poiché dà vita a differenze, contrasti:

Sette giorni fa siamo stati là
– c’era una tomba
salivo quel cumulo fino a un certo
livello dello spasimo.
Lo spasimo che sta
in fondo alla natura.
[…]

In questo spezzone, tratto dalla poesia Calcolo, possiamo osservare le continue trasformazioni tra i versi, meccanismo che conferisce ritmo: si parte da una racconto quasi banale nel primo verso (siamo stati là), ma poi accade qualcosa di inaspettato nel secondo (una tomba); nel terzo verso l’immagine si approfondisce (salivo quel cumulo) e lo spezzare tra terzo e quarto verso da proprio la sensazione dello spasimo; quindi, nel quinto e nel sesto verso, la Passannanti relaziona il concetto dello spasimo alla natura, allargando il significato che aveva preso nel testo e facendo sentire lo spasimo assoluto e preponderante.

Immagine articolo Fucine MuteUn altro aspetto di cui si ha sensibilità poiché accade continuamente leggendo Mistici è la descrizione del corpo e di parti del corpo della donna dove vengono fatte migrare appunto altre immagini (I flussi del flusso sono sangue/È dunque questa la lingua/Per la quale mi tagliai/I polsi).
L’eretico sospetto è che la Passannanti punti a sacralizzare il corpo ed il sangue/per una rinnovata residenza dell’estremo e con ironia e per tormentare/la convenzionalità del nostro buon gusto, in una specie di poetica “Messa in onda”, mandare in onda il buio della sua omelia che sta nella solennità del nostro essere materialmente qui.
“Gesù mio” griderebbe l’uomo conforme consegnato entro i limiti argentei del verbale e senza corpo, senza passioni — come se poi alla sera non accendesse la televisione per spararsi il filmato di qualche sottoserie truce della nostra tv commerciale o Playboy.
Non siamo ancora del tutto angeli, ma abbiamo bisogno di un’idea di fronte alla sete di verità e di giustizia, un’idea che fondi su una certezza e che non crolli miseramente.
Saremo in grado di creare vere ali ideali come questi poeti in bilico tra disperazione e bellezza, invece di essere così seri, bacchettoni e tristi teologi (o critici o giornalisti specializzati o convegnisti dogmatici)?
Stavolta mi faccio da parte, e ben volentieri: la prospettiva di essere un bianco gregge di pecore o le bellissime sciocche scimmie istruite di un Dio tutto sommato apprezzabile per le sue creazioni non perfette (quindi del tutto corpi dignitosi e lasciti di eternità per altri) è, come già detto per tutto il corso di questo articolo in modo sarcastico o ironico o veritiero, altresì apprezzabile:

Quale tipo di religione?

Quella che è stata concepita proprio in base al fatto che Dio è sempre stato e sempre sarà. Egli è l’Eterno. A questo dogma io ci credo. È questo che Gesù sosteneva. A un certo punto, è comprensibile che Gesù abbia stretto un patto proprio con il Dio che avevano concepito i Giudei, immateriale ed eterno, e non con un qualsiasi altro Dio.
E Adamo ed Eva? Ebbene, questa è la vera storia: una volta nati, Dio li aveva posti sulla terra giustappunto perché lo adorassero. La scienza sostiene che Adamo ed Eva fossero delle scimmie. Allora, noi chi siamo? La progenie dei grandi peccatori o dei primati istruiti? Se penso a come siamo: tutti così belli e intelligenti — no, non riesco a prendere sul serio questa tesi. Quale versione preferisco? Che Dio abbia inteso creare qualcosa di apprezzabile. Che egli è sempre stato e sempre sarà. Questa è la verità. È impensabile che il mondo si sia fatto dal nulla, e che per crearsi non abbia avuto bisogno di nessuno.

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