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Cinema

Daniele Gaglianone

Nemmeno il destino

Immagine articolo Fucine MuteNemmeno il Destino, secondo lungometraggio del regista Daniele Gaglianone è stato presentato alla 61esima Mostra del Cinema di Venezia all’interno della nuova sezione che il direttore Marco Muller ha creato sul modello della Quinzaine des réalisateurs denominata Il cinema degli autori.
Il film, tratto dal romanzo omonimo di Gianfranco Bettin, rappresenta la periferia (urbanistica e psicologica) nella quale si ritrovano i tre giovani protagonisti Ale, Ferdi e Toni. I ragazzi hanno fra i quindici e i diciassette anni, sono compagni di scuola e vivono in una città postindustriale in decadenza nella quale cercano un luogo, un’oasi in cui crescere al riparo dalle difficoltà famigliari. Con istintiva maturità i tre cercano di sfuggire al loro destino e al mondo sconfitto dei loro genitori.

Daniele Gaglianone, incontrato al termine della proiezione, ha parlato a Fucine Mute del suo applauditissimo film.

Alle cose che si perdono. È la didascalia che conclude il film, ha diverse sfumature. Fa riferimento a tutto ciò che abbiamo perduto e alle parti di noi che si smarriscono da sé. Dal punto di vista del protagonista, Alessandro, può essere vista come una dedica a Ferdi che non c’è più oppure al Ferdi che era in lui e dal quale ormai si è separato. È una frase che si può dire solo quando si ha iniziato a smettere di perdere le cose, ma soprattutto a fare i conti con ciò che ci circonda. Più che un mondo salvato dai ragazzini rappresenta il loro sforzo per salvarsi da questo mondo.

Periferia. Dicono tutti che sia duro realizzare il secondo lungometraggio, allora ho pensato di impegnarmi in un’impresa che fosse molto difficile! Ho deciso di trasporre sullo schermo il libro di Bettin perché leggendolo mi aveva colpito l’atmosfera di sospensione legata alla periferia, concetto che si può intendere in modo allargato, ampio. Questo luogo fluttuante tra città e campagna è anche limbo tra infanzia e maturità, tra figli e genitori, tra impressione e comprensione. Gli adolescenti del film sentono molto ma capiscono poco. Solo alla fine, quando vedrà sua madre come una ragazza e non con occhi di figlio, Alessandro si renderà conto di molte cose del suo passato oscuro.

a. C./d. C. Gli estimatori e i detrattori di questo lungometraggio si dividono in due categorie: gli a. C. e i d. C. Per fare una battuta definisco i primi come coloro a cui piace il film prima dell’arrivo di Cassetti e gli altri come coloro a cui piace dopo (ndr, Stefano Cassetti è l’attore che interpreta il ruolo di Lorenzo, l’istitutore della comunità minorile). In realtà il perno della biforcazione non è Cassetti in sé ma la Comunità. Il film accompagna il percorso di Alessandro e ad un certo punto sembra quasi inizi un’altra storia, perché comincia un diverso periodo della sua vita. Nonostante l’apparenza di maggior realismo, anche questa parte non è limpida, c’è qualcosa di irrisolto soprattutto nel rapporto con l’educatore. Credo che la scena della fuga in montagna riesca a riprendere i fili messi in capo e chiuda la struttura. L’inizio è un po’ naif ma poi il film scivola in una dimensione allucinatoria, come se fino ad un certo punto stessimo a fianco dei personaggi e poi iniziassimo a vedere attraverso di loro. Dopo il momento di non ritorno rappresentato dall’incendio, che si porta dietro anche la morte di Ferdi, Ale resta solo, è come se morisse e rinascesse. Ho sentito l’esigenza di cambiare completamente stile.

Daniele Gaglianone

Società. Secondo me questo secondo lungometraggio è più integrato nel tessuto socio-politico rispetto a I nostri anni, nel senso che lancia uno sguardo su una parte di realtà diffusa. Forse è proprio perché vengo da Torino e non riesco a pensare a cosa ne sarà della città e dei suoi abitanti, che per tutto il film domina un’atmosfera di incertezza. Ho raccontato una storia privata, ma questa vicenda intima è devastata dal rapporto con l’esterno rappresentato dalla fine dell’epoca industriale e dalle macerie lasciate da una guerra silenziosa.

Orfani. I protagonisti del film sono orfani, non solo nel senso letterale del termine, ma anche perché sono figli di un mondo, costituito dagli adulti che sono loro vicini, che pare non abbia nulla da insegnargli. È un microcosmo dal quale cercano di fuggire. Nessuno di questi ragazzi è conformista o adotta i vizi del conformismo degli anti-conformisti. Non fumano, ad esempio. Ho cercato di tenermi lontano da ogni tipo di cliché. Credo che di ragazzi come Ale, Ferdi e Toni ce ne siano molti di più di quelli che si pensi, solo che forse li si giudica poco interessanti.

Violenza. La violenza che si compiace di se stessa finisce lì, è solo un gioco estetizzante. Ci sono molti modi di subire, di fare o di raccontare le sopraffazioni. Credo che nel film ci siano delle immagini tenere ma intollerabili. Penso che il monologo di Ferdi sia di una durezza incredibile, che la scena in cui Adele rivive per l’ennesima volta il sopruso subito da giovane, denudandosi da sola nella sua camera, sia un modo duro di raccontare uno shock psicologico. Ritengo che la discriminante, nella rappresentazione della violenza, sia la lealtà, il modo con cui si raccontano le cose.

L’intervista

Daniele GaglianoneMichela Cristofoli (MC): Mi ha colpito, guardando il tuo film, il risalto che hai dato ad un libro di Faulkner intitolato L’urlo e il furore. Ho letto che anche Gianfranco Bettin, stesse pensando a questo testo come modello mentre scriveva il romanzo Nemmeno il destino che tu hai trasposto al cinema.

Daniele Gaglianone (DG): Ti rispondo raccontandoti com’è andata. Ad un certo punto, elaborando la sceneggiatura ho pensato di mettere in tasca a Ferdi una copia di questo libro. Mi immaginavo che fosse andato in biblioteca, che avesse visto un titolo così suggestivo e lo avesse fregato. Non lo leggerà mai, però se lo tiene in tasca. Poi il romanzo assume un’importanza decisiva. Ferdi lo apre per la prima volta e legge questa frase sull’orologio, sulle battaglie che non si vincono mai e forse nemmeno si combattono. Nel libro di Bettin il riferimento non c’è, come non appare nessun accenno a Faulkner. Un giorno faccio vedere una copia lavoro a Gianfranco, e lui salta sulla sedia chiedendomi perché ho scelto proprio questo testo, mi dice che ama molto Faulkner anche se per pudore non l’ha citato nel romanzo e che è sorpreso dal vedere che ho utilizzato addirittura l’edizione che ha letto lui, quella della Medusa Mondatori. Pur essendomi allontanato abbastanza dal romanzo, se i personaggi mi hanno fatto venire in mente L’urlo e il furore, che anche per me è un libro fondamentale, significa che nel rapporto dialettico tra il lungometraggio in nuce e il libro, il motivo ispiratore è venuto fuori. Non è importante se nel film a differenza che nel libro i ragazzi vanno a scuola, la cosa determinante è che il substrato tra le due opere sia comune.

MC: Bettin inserisce nella narrazione dei momenti lirici, sottolineando l’alternanza anche graficamente.

DG: È una reminescenza faulkneriana, L’urlo è il furore è scritto così.

MC: Nel film rifletti anche tu questa varietà stilistica sia adottando la voce fuori campo che duplica i pensieri dei personaggi ma soprattutto con degli stacchi di montaggio alla Meliès, dove ad un certo punto uno dei personaggi inquadrati scompare dall’immagine repentinamente.

DG: Per questo film è stato compiuto un lavoro sul “mezzo cinema” cioè proprio sulla macchina da presa. I fermi macchina non sono stati realizzati in fase di montaggio, sono fatti in diretta da me, con una pompetta, a distanza. Vedevo la scena stando vicino all’operatore e quando sentivo che era il momento lo facevo: stoppavo e ripartivo.

MC: Parlavi prima della tecnica che hai adottato per rendere sovraesposti i bianchi e sottoesposti i colori scuri.

DG: Quello è un processo fotografico che si chiama “salto della sbianca”.

MC: Lo hai realizzato sempre in fase di ripresa?

DG: Ci sono due modi per farlo: uno più rischioso ed uno meno. D’accordo con il direttore della fotografia Gherardo Gossi, ho scelto quello più rischioso che consiste nell’agire direttamente sul negativo. Questo significa che è necessario decidere già in ripresa come esporre il film, sapendo che poi durante la fase dello sviluppo, si deve saltare un bagno, quello dell’acido che pulisce i granuli d’argento non impressionati. Così si ottiene un effetto che è paradossale perché le luci sono sovraesposte e i neri risultano più cupi, sottoesposti. Volendo si può anche lavorare sul positivo: si gira normalmente, con i diaframmi giusti per la luce che c’è e poi si crea l’effetto sulle stampe sviluppate, però non è la stessa cosa. L’altro processo è molto rischioso perché il direttore della fotografia deve stabilire a seconda delle condizioni di luce di quanto modificare il diaframma dallo stop giusto.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: Anche nel precedente lungometraggio I nostri anni avevi sperimentato abbastanza introducendo i filmati della resistenza tra le immagini del film.

DG: Ho sperimentato, ma le immagini erano tutte realizzate da me, con un metodo particolare, girando delle parti in super8 e poi passandole in 35mm.

MC: Pensavo che la tua esperienza di intervistatore per l’ANCR ti avesse indotto ad usare delle immagini dei filmati originali.

DG: Mi ha suggerito delle immagini, questo senz’altro.

MC: Come mai hai scelto di girare a Torino invece che a Mestre, dove in realtà è ambientato il libro?

DG: Perché comunque nel romanzo Mestre non è dichiarata, capiamo che la storia avviene lì, ma non è esplicito. Volevo fare la stessa cosa. Ho girato il film in un luogo che mi apparteneva, che conoscevo bene, ma senza indicarlo palesemente.

MC: Per questo non riprendi i monumenti famosi della città?

DG: Dio ce ne scampi e liberi!

MC: Gli attori sono locali?

DG: Tutti autoctoni, indigeni!

MC: Dicevi che non hai progetti futuri, ma altre letture ispiratrici?

DG: Nulla per ora.

MC: Anche Bettin è arrivato per caso?

DG: Sì, me lo ha passato una persona che conoscevo. È stato un incontro casuale. Sapevo chi fosse Bettin , ma non sapevo che fosse anche un narratore.

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