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Cinema

Polvere di stelle: Jole Silvani

Immagine articolo Fucine MuteAnche i proverbi invecchiano. Una volta si era soliti affermare che il tempo è galantuomo intendendo dire che fa giustizia di molte cose. Oggi che ci si ricorda a malapena quanto è successo il giorno prima, coltivare la memoria degli artisti che hanno brillato in un’epoca ormai lontana sembra quasi una missione da stilita. Sia come sia, ci si vuole almeno illudere che il tempo renda l’effimera giustizia a queste poche righe dedicate ad una Signora del palcoscenico e del set che per oltre cinquant’anni ha consacrato la sua esistenza allo spettacolo.

La creaturina che vede la luce nella Trieste asburgica il 9 dicembre del 1910, figlia di un linotipista del quotidiano locale il Piccolo, ha un nome piuttosto imponente: Niobe Quaiatti. Niobe, come si sa, era quella sventurata madre che, privata dei suoi 14 figli, fu trasformata in una roccia da cui sgorgò una fontana, e, per consonanza poetica, si potrebbe dire che un sacro fuoco artistico sgorga nelle vene della ragazzina che muove i primi passi interpretando le operette in quelle strutture pubbliche denominate Ricreatori comunali e per la precisione al Giglio Padovan. Qui recitando e gorgheggiando, saltellando e sgambettando dietro a rudimentali fondali dipinti a mano sboccia una vocazione non effimera ma destinata a consolidarsi su delle ribalte meno circoscritte e famigliari. La bambina cresce e diventa signorina ma quel sottile piacere di calamitare su di sé gli occhi degli spettatori aumenta e con esso la voglia di essere all’altezza della situazione. Nell’ansia di migliorarsi, Niobe studia canto al conservatorio e diventa socia di una piccola associazione denominata il Club della Caramella, attiva perloppiù in spettacoli di beneficenza. Partecipa, addirittura in un ruolo maschile, a “Dagli Appennini alle Ande”, operetta del maestro Montico. Insomma uno scrupoloso apprendistato in attesa di qualcosa di importante che puntualmente arriva nell’ottobre del 1929 quando lei ha poco più di 18 anni. Angelo Cecchelin, un comico che già calca i palcoscenici da un decennio e gode di un certo credito nell’ambiente dell’avanspettacolo, cerca disperatamente una soubrette per un’esibizione al Teatro Ciscutti di Pola. Fulvio Menotti, che fa parte della sua compagnia, gli suggerisce il nome di una giovinetta con cui aveva duettato al ricreatorio Padovan. L’assenso alla partecipazione spetta però al padre della ragazza che pone come condizione l’uso di uno pseudonimo. In men che non si dica il problema viene affrontato e risolto: Niobe Quaiatti diventa così Jole Silvani. È l’inizio di un sodalizio artistico-sentimentale (Angelo e Jole nel 1938 avranno un figlio, Guido) destinato a durare fino alla scomparsa di lui. Quel debutto polesano è baciato dal successo e un’accoglienza altrettanto calorosa avviene a Fiume. I tempi sono maturi per raccogliere e verificare a Trieste i frutti seminati in Istria. Al Teatro Corso si ripete il successo e, in seguito, al Teatro Regina le repliche si protraggono per sette mesi. Forte di un consenso così vistoso, Cecchelin conia un nome per la compagnia, battezzandola “La Triestinissima”, e il cui nucleo primario comprende Anna Carpi, Adolfo Leghissa, Fulvio Menotti, Armando Borisi, Marcella Marcelli, oltre naturalmente a Jole Silvani e Angelo Cecchelin. In scena vengono portate commedie musicali come “La go fata mi!”, “Xe rivada Sua Eccellenza”, “Zio d’America” e molte altre. La Triestinissima, oltre alle consuete tappe nei dintorni o quasi (Pola, Fiume, Zara) esporta il teatro dialettale in tutt’Italia spingendosi fino in Sicilia nel corso di numerosissime tournée che si protraggono fino alla metà degli anni ’50. Con una punta d’orgoglio la stessa Silvani ricordava di essere stata ospitata da teatri importanti quali il Mediolanum di Milano, il Regio di Parma e il Chiarella di Torino, e in 16 anni di attività di aver usufruito di soli 38 giorni di riposo.

Immagine articolo Fucine Mute

A questo punto è doveroso ricordare anche la sua attività cinematografica. Il debutto avviene in una commedia di Aldo Fabrizi “La famiglia Passaguai” (1951), cui segue l’anno successivo la partecipazione al primo film firmato da solo da Federico Fellini “Lo sceicco bianco”. Un ruolo secondario e tuttavia sufficientemente significativo tanto da meritare una seconda convocazione da parte di Fellini per quella personalissima allegoria di corpi e volti femminili che è “La città delle donne” (1980) in cui a lei è affidato un doppio ruolo: la motociclista e la giunonica contadina.

In una filmografia che non raggiunge i 20 titoli e non contempla ruoli da protagonista spiccano tuttavia le partecipazioni a film di registi importanti: “Bubù” (1971) di Mauro Bolognini, “La luna” (1979) di Bernardo Bertolucci, “Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione” (1984) di Lina Wertmuller, “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” (1984) di Mario Monicelli e “Non ci resta che piangere” (1984) di Massimo Troisi e Roberto Benigni. Segno che il suo era un volto che, come si dice in gergo tecnico, bucava lo schermo. Ed anche per lei doveva essere una grande soddisfazione poter raccontare di aver lavorato con il gotha del cinema italiano. Ma il set cinematografico è un’occasione troppo sporadica ed aleatoria per pianificare una carriera, meglio allora pensare al teatro dove, le tante tournée le hanno dato, se non proprio una grande fama, almeno un discreto credito. Quando Angelo Cecchelin comincia a diradare e poi a sospendere i suoi spettacoli (morirà a Torino nel 1964) Jole Silvani si rimbocca le maniche e si guarda intorno: la gloriosa rivista di un tempo e l’avanspettacolo sono passati di moda, perciò bisogna cimentarsi in qualcosa di diverso. Ecco allora nel 1962 l’idea di dar vita ad una compagnia di sole donne con cui portare in scena “Quando lui non c’è”. Durante una recita al Carcano di Milano tra gli spettatori c’è anche un signore che di teatro se ne intende: Paolo Poli. Dalla dichiarazione di stima e ammirazione — “Ma signora lei merita di meglio, venga nella mia compagnia” — alla stipula di un nuovo contratto il passo è breve e il sodalizio si dimostra solido e soddisfacente tanto da durare tredici anni. I titoli sono ovviamente tanti: da “Il diavolo” a “Casimiro e Carolina”, da “Mondo d’acqua” a “Femminilità”, dallo shakespeariano “Misura per misura” al brechtiano “Puntila e il suo servo Matti”. Infine nel 1979 il ritorno sulle scene triestine all’Auditorium per festeggiare le nozze d’oro con il teatro. Devo confessare che all’ultima di quelle rappresentazioni ero presente anch’io. Lo spettacolo “El triestin in carega” voleva essere l’omaggio ad una Trieste scomparsa attraverso canzoni e scenette ormai dimenticate. Jole Silvani dominava la scena con la sua vis comica e la notevole forza comunicativa. Il repertorio era quello della celebre Triestinissima ma gli anni trascorsi gli avevano impresso una patina di struggente nostalgia. C’era tutta la malinconia del tempo che passa e che non ritorna più. In seguito ci saranno altre piccole occasioni di recitare, ma ormai era giunta l’ora dei consuntivi per una corriera lunga ed intesa, in cui tanti successi e qualche caduta si erano alternati. Lo sfarzo dei tempi d’oro con tre valigioni stipati di vestiti si era dileguato. In momenti meno propizi era stato necessario anche tirare la cinghia, ma tutto sommato ne era valsa la pena. Con schietto e inestinguibile “morbin triestin”, coraggio e determinazione, la vita era stata vissuta. Non restava che fermare quelle impressioni in un libro autobiografico, quel “baul pien de ricordi”, dal significativo titolo “Con tanta allegria è stata una grande fatica”, purtroppo ancora inedito.

Immagine articolo Fucine Mute

Lei, nella sua Trieste, è uscita definitivamente di scena il 29 ottobre 1994, ultima domenica di quel mese. Esattamente 10 anni fa. Questo sommesso tributo ne vuole serbare cara memoria.

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