// stai leggendo...

Musica

Sitting in an English garden (I)

The Beatles: forme espressive del linguaggio Pop

Introduzione

I Beatles hanno rappresentato gli anni Sessanta con tutte le loro contraddizioni: il mescolare arte e industria, pubblicità e pensiero, paccottiglia e lampi di genio; come Andy Warhol e Richard Hamilton utilizzarono i simboli del commercio, le immagini dello star system, i barattoli di pomodori per tracciare un nuovo confine per l’arte, così i quattro di Liverpool costituirono una cesura clamorosa nel mondo della musica popolare.

Immagine articolo Fucine Mute

Forse assorbirono almeno inconsciamente gli impulsi forniti dalla Pop Art[1], trasformando il linguaggio (allora sterile) della musica leggera in un laboratorio dove tutto veniva digerito e trasfigurato, catalizzando gli stimoli che arrivavano dalla società del tempo, sfidando il luogo comune che dipingeva le pop star come icone false e prive di opinioni: insomma ampliarono e approfondirono il concetto dominante di musica pop, obbligando la gente a riconoscerla come una vera forma d’arte.

L’arte dei Beatles sviluppa più di tutte un principio cardine di quel periodo, quello della fusione, convivenza o ibridazione delle diverse forme espressive in una “unica koinè linguistico-musicale”[2]: il “tasso di letteratura” rintracciabile contemporaneamente nelle liriche e nella loro controparte visiva e sonora sembra infatti in grado di far cadere o almeno sfumare la linea di confine che normalmente separa parola, suono e immagine; le liriche in sé, va sottolineato, non ambiscono certamente alla Grande Letteratura (dovremmo parlare in questo ambito di low culture): unico loro comune denominatore è che pongono sempre in rilievo l’autenticità dell’esperienza personale, e proprio perché sono specchio/documento dell’evoluzione dell’autore nel suo continuo rapportarsi con la realtà del mondo esterno e della società del tempo, esse costituiscono una enorme riserva di cultura popolare.

Dopo un breve capitolo dedicato alle coordinate storico-geografiche che hanno contribuito alla loro ascesa e successiva fortuna, la mia ricerca prende inizio proprio dall’analisi dei testi delle loro canzoni: lo scopo principale prefissatomi è stato quello di individuare i nuclei narrativi e tematici, i motivi ispiratori ricorrenti, legati soprattutto al ricordo dell’infanzia, che stanno alla base della diversità di approccio alla scrittura in Lennon e McCartney (e in via marginale Harrison), gli elementi di novità ed eventuali legami, per quanto sfumati, con la tradizione letteraria anglosassone; e dunque documentare il progressivo spostamento da un tipo di scrittura semplice, immediato e caratterizzato da un linguaggio molto prossimo a quello parlato (ricco di espressioni al limite della gergalità che testimoniavano la loro provenienza dalla working class), ad una scrittura più narrativa, ora autobiografica, ora in terza persona, fino ad arrivare a vere e proprie “drammaturgie sonore”, vortici indefinibili di impressioni frammentarie, pensieri, percezioni, scherzi, che a tratti riflettevano il gusto del collage Pop art amante della simultaneità e della casualità.

Immagine articolo Fucine Mute

L’assunzione di forme musicali sempre più complesse condusse a ripensare anche dal punto di vista stilistico la componente testuale; allo stesso modo l’esperienza con le droghe ne accentuò l’aspetto introspettivo, ampliando gli scenari della ricerca interiore e personale di ogni singolo autore; vengono a tal proposito riscontrate alcune analogie con la poesia romantica inglese, in quanto lavorava nelle lyrics il ricordo, il senso del tempo e dei cambiamenti che esso comporta, il rimpianto per una età dell’innocenza legata indissolubilmente ai luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza (i sobborghi di Liverpool) e alla presenza di figure importanti ora scomparse (la madre, sia in Lennon che in McCartney).

Il ricorso al linguaggio musicale e grafico/visivo quali forme espressive e narrative complementari al testo, è una componente che ho teso a mettere in rilievo non soltanto durante l’analisi di alcune liriche, ma anche dedicando loro due sezioni autonome: il terzo capitolo pone in evidenza tre fattori-cardine della formula brevettata dal gruppo, ovvero la brillante intuizione in sala d’incisione, l’approccio sinfonico alla composizione e il ricorso a strutture musicali di stampo “cinematografico”; in costante bilico tra autobiografia e visioni pop-surreali (così già le loro lyrics), le pellicole cinematografiche e le copertine dei dischi prese in considerazione nel quarto capitolo sottolineano comunque l’importanza data dai Beatles al rapporto dialogico con il proprio pubblico.

Immagine articolo Fucine MuteDurante quello che potremmo definire come “quinquennio geniale” (dal 1964 al 1969), i quattro di Liverpool plasmano una estetica Pop per certi versi molto vicina allo stile di Peter Blake[3], che ad ogni spinta innovativa fa controbilanciare un recupero della tradizione: una forma di “rispetto nei confronti dell’Impero di Sua Maestà” che si manifesta a livello grafico, con il forte debito pagato dai Beatles “psichedelici” al Liberty britannico (nel film d’animazione Yellow submarine) e ai costumi di fine Ottocento (le divise edoardiane di Sgt.Pepper’s lonely hearts club band); a livello musicale, in quanto la loro ricerca avanguardista viene costantemente affiancata da un recupero di forme e schemi musicali meno recenti (echi barocchi di Henry Purcell nello spartito di Eleanor Rigby); a livello testuale, nei legami (se pur sfumati) con la tradizione letteraria inglese (Blake, Coleridge, Carroll, Joyce in particolare).

Non si può, infine, fare a meno di sottolineare come, nel contesto di una cultura alternativa in quegli anni impegnata e schierata “contro il sistema”, il messaggio poetico dei Fab Four possa in superficie apparire di “tono neutro” se confrontato con gli slogan pacifisti e le posizioni intransigenti di altri autori: tuttavia questo, lungi dal dover rappresentare una colpa per non aver “voluto figurare, in un momento di feroci contrapposizioni preconcette, né falchi né colombe”[4], testimonia piuttosto una connessione tra le loro lyrics e la poesia inglese degli anni cinquanta-sessanta; “deliziosi divulgatori in chiave Pop di quelle esigenze che altri esprimevano con altra determinazione e altra rabbia”[5], i Beatles seppero dirottare la giovanile arroganza dei loro coetanei verso la ricerca di sincere relazioni umane, sia individuali che sociali, diffondendo (senza scadere dunque nella petulanza che affligge tanti artisti politicizzati) quegli ideali di amore, giustizia e fratellanza che contribuirono sensibilmente ad incoraggiare una rivoluzione nelle attitudini e nei comportamenti i cui effetti sono ancora visibili.

Esiste un motivo per cui spesso si fa coincidere la fine dei Beatles (quella “ufficiale”, datata 1970) con la fine di un’epoca: essi furono l’esempio più complesso delle potenzialità e dei limiti dell’indipendenza individuale, e allo stesso tempo furono la dimostrazione delle potenzialità e dei limiti dei legami umani .

1  –  Il rilancio dell’Inghilterra

La musica e la poesia dei Beatles hanno rappresentato un unico grande evento culturale; tracciare le coordinate storiche e geografiche di questo evento a dir poco rivoluzionario, equivale a fotografare un periodo ben preciso della storia inglese contemporanea: una nuova età dell’oro, un’epoca rinascimentale, giacché l’arte stessa dei Beatles testimonia quel superamento delle barriere e delle regole, quel disprezzo per le convenzioni, quella sete di uomo totale che animava Leonardo da Vinci, Michelangelo, Erasmo da Rotterdam e Bacone dopo il tramonto del Medioevo.

Uscita dalla drammatica esperienza dell’immediato dopoguerra e della ricostruzione, l’Inghilterra, tra il 1956 e la fine degli anni sessanta, rivive infatti con la cultura un ruolo fondamentale nello scacchiere internazionale: in particolare la sua capitale, Londra, viene promossa dalla rivista americana Time [6] come la città europea più impetuosamente sospinta dal pendolo della storia verso il futuro (per questo Swinging London — to swing /muoversi secondo un moto pendolare); ciò verso cui spingeva il pendolo di Londra era un nuovo stile di vita, del quale la città in se stessa sembrava offrire la realizzazione e la promessa: audacia, ottimismo, utopia, una fioritura creativa che non riguardava esclusivamente la musica, ma che si poteva riscontrare in ogni campo dell’arte, dalla letteratura alla moda, dal teatro alla fotografia.

Immagine articolo Fucine MuteMary Quant lanciava da Bond street la minigonna come simbolo di libertà per le ragazze di tutto il mondo, mentre il fotografo David Bailey ritraeva nella modella Jean Shrimpton il look della nuova generazione; il parrucchiere Vidal Sassoon inventava nuovi stili di capelli lunghi unisex, mentre il “grissino” Twiggy, un piccolo cumulo di fantastiche ossa bionde, si prestava a diventare l’altro volto e corpo del decennio; Carnaby Street divenne temporaneamente il centro mondiale della moda giovane, e l’informalità la sua nota chiave: un polo che dettava stili i quali sottolineavano i confini generazionali piuttosto che di classe, e che dunque manifestavano il nuovo potere acquisito dalla cultura popolare, quello di superare, o almeno mascherare, consolidate distinzioni sociali.

Al miracolo dei Swinging Sixties viene concordata solitamente una data di nascita, l’anno 1956, punto di svolta simbolico e somma di fattori e circostanze fra loro non sempre interdipendenti, ma che modificarono sensibilmente la nazione nel suo aspetto e nella sua essenza.

La crisi di Suez[7] dimostrò con brutale franchezza che le pretese di grande potenza del Regno Unito nel mondo postbellico erano insostenibili, che la spesa per la difesa era diventata un onere paralizzante e la mentalità geopolitica imperiale era ormai superata; dimostrò infine l’inadeguatezza della sua classe dirigente a gestire una situazione particolarmente delicata, alimentando quindi il grado di insoddisfazione popolare nei confronti della società e dell’establishment.

Soprattutto tra i giovani, emersi come vere e proprie figure centrali negli anni Cinquanta; il 1956 segna il debutto di Look back in anger, opera teatrale di John Osborne: una sfida lanciata ai soffocanti costumi della buona borghesia inglese trasformata dai giornalisti nel manifesto di una generazione di Angry Young Men, di giovani arrabbiati, insoddisfatti, delusi: il suo protagonista, Jimmy Porter, è un giovane proletario senza speranze e senza certezze, che vive un’esistenza squallida rinchiuso in casa, in perenne conflitto con la moglie, a denunciare un mondo improntato all’affannosa ricerca di quei benefici indicati dalla società dei consumi, un mondo privo di nobili cause[8], “come se il benessere avesse derubato la nuova generazione di quelle gloriose opportunità per dare voce alla sua indignazione morale che la marcia degli abitanti di Jarrow o la guerra civile in Spagna avevano fornito negli anni ‘30”[9].

La rabbia di chi si schierava “contro” divenne un sentimento comunemente condiviso dalle giovani gang nate nelle aree metropolitane più popolari ed economicamente depresse delle città inglesi, bande di Teddy Boys che imitavano le pose e i modi di fare dei divi di Hollywood (Marlon Brando e James Dean tra tutti) che maggiormente incarnavano la figura dell’outsider della classe operaia; ma non è il caso di Jimmy Porter, perché la sua rabbia si consuma tutta entro le mura domestiche, viene interiorizzata, Jimmy infatti “ha lo sguardo rivolto verso il passato (ricorda, e proprio il confronto tra passato e presente origina la “rabbia”)[10].

Eppure proprio durante quei mesi due avvenimenti di particolare rilevanza artistica e sociale avrebbero fornito ai teenager nuovi campi di battaglia e valvole di sfogo verso cui convogliare la propria e personale dose di “rabbia vitale” e trasformarla eventualmente in energia creativa.

L’esposizione tenuta sempre nel 1956 alla Whitechapel Art Gallery di Londra, intitolata This is Tomorrow, mise in mostra per la prima volta sul territorio europeo le idee fondamentali della Pop art: essa costituì un chiaro rifiuto dell’arte informale e dell’espressionismo astratto, considerato dagli artisti pop come cultura d’èlite aristocratica, e il preannuncio di una nuova arte metropolitana e popolare, che non interpretava i motivi della vita quotidiana e della nuova tecnologia come estranei e antiestetici, bensì come materiale culturale vero, esistente e affascinante; tra i suoi principali organizzatori va ricordato Richard Hamilton, futuro collaboratore dei Beatles (cfr. cap.4) e ideatore di quella mitologia del quotidiano che più tardi sarebbe anche entrata nelle loro liriche (cfr. cap.2.2), qui tutta racchiusa nel bizzarro collage Just what Is It that Makes Today’s Home so Different, so Appealing?.

Just what Is It that Makes Today’s Home so Different , so Appealing?

Nel far cadere ogni barriera tra presente e futuro (blurring of the boundaries sarà un concetto cardine dei swinging sixties), This is Tomorrow dava anche voce alla carica eversiva della nuova e chiassosa cultura giovanile: e il teenager avrebbe fatto il suo ingresso in quel suo nuovo spazio vitale, una dimensione dove here&now e tomorrow coincidono, “accompagnato da una precisa colonna sonora i cui ritmi, almeno nella fase iniziale, vengono stabiliti negli Stati Uniti”[11].

L’avvento di Elvis Presley nel 1956 e la definitiva consacrazione del Rock’n’roll d’Oltreoceano generarono in suolo inglese stuoli d’imitatori (raramente originali) ma soprattutto formalizzarono il ruolo di una cultura giovanile autonoma e distaccata, in grado di accelerare il gap generazionale già in atto sostanzialmente dal dopoguerra; i giovani, ormai pronti a sostenere il ruolo di soggetti sociali significativi (con tanto di linguaggio, segni ed elaborazioni culturali propri), diventano da questo momento anche consumatori; e proprio da questa cultura nascente provenivano i Beatles, anzi ne incarnarono inconsapevolmente tendenze sovversive e contraddizioni, ricerca di nuovi valori e desiderio di ricchezza.

La cultura popolare inglese era stata fortemente americanizzata nel decennio a seguire il secondo conflitto mondiale, anche i quattro giovani di Liverpool ne furono influenzati: erano degli “americani immaginari”, ragazzi dell’austerità post-bellica il cui tempo libero era dominato dai simboli del prestigio americano, ovvero dai western televisivi, dai sogni a lieto fine di Hollywood, dalle procaci pin-up in stile Marilyn Monroe, e naturalmente dall’immagine liberatoria di Presley; eppure, forse paradossalmente, fu proprio una band inglese a determinare la fine della supremazia americana in campo Pop, suonando una rielaborazione autonoma del Rock’n’roll primitivo statunitense; va ricordato che nel periodo in cui i Beatles entrarono nel mondo dell’industria discografica inglese, la musica Pop era da tempo diventata schematica e stagnante, le band raramente incidevano canzoni proprie, ma eseguivano ad esempio cover di promettenti singoli americani (scimmiottando il sound e le pose dei loro autori) prima che questi venissero pubblicati nel Regno Unito.

L’individualità di espressione caldeggiata dai Beatles (come pure dai protagonisti-artefici della Swinging London) contribuì a definirne l’immagine di musicisti responsabili delle proprie scelte, autonomi, non interpreti raffinati di canzoni altrui, bensì artisti con una personalità, una storia ed una evoluzione proprie.

Certo il fenomeno Beatles non sarebbe stato possibile senza la Swinging London, ma quasi sicuramente la rivoluzione del costume negli anni sessanta non sarebbe stata possibile senza il seducente fascino di quella colonna sonora: essi rappresentarono infatti la più forte e decisa spinta al pendolo di Londra: non solo produssero cultura a getto continuo, ma aprirono grazie al loro successo una diga dalla quale sarebbero fuoriusciti i protagonisti della nuova rivoluzione musicale: Kinks, The Rolling Stones, The Who, Donovan, Marianne Faithfull, Pink Floyd, e via dicendo; tutti, chi più e chi meno, responsabili di quel Big Bang che avrebbe generato l’universo Rock, piacevolmente caotico e in turbinosa espansione; di questo universo comunque i Beatles rimasero sempre i principali architetti, plasmandolo come fosse una casa cui vengono continuamente ridisegnati gli spazi e i percorsi interni.

Ed Sullivan Show

Nel febbraio del 1964 una loro breve esibizione all’Ed Sullivan Show basta ad ipnotizzare un intero paese, gli Stati Uniti, ancora in stato di coma dopo il 22 Novembre 1963[12] e dunque bisognoso di nuove energie emozionali, di distrazioni con cui poter “seppellire la tristezza e riscoprire il divertimento”[13]; è l’inizio di quella che gli storici chiameranno British Invasion, di quella invasione del mercato discografico e delle onde radiotelevisive americane da parte della popular music britannica, una invasione che avrebbe almeno per un paio di anni spostato il baricentro della scena Pop e Rock dagli Stati Uniti al Regno Unito; di questa ondata i Beatles furono anche artefici indiretti, dato il numero elevato di songs a firma Lennon-McCartney esportate oltre l’Atlantico da altri artisti inglesi, tra questi i Rolling Stones (I wanna be your man), Peter & Gordon (World without love), Billy J. Kramer & The Dakotas (I’ll be on my way — Bad to me), Chad & Jeremy (From a window), Cilla Black (Love of the loved — Step inside love), Mary Hopkin (Goodbye).

Un Big Bang abbiamo precedentemente detto, dato che i quattro di Liverpool partivano quasi dal nulla, da basi culturali e musicali tutt’altro che certe: questo tuttavia rappresentò più uno stimolo che un ostacolo perché consentì loro di lasciare libera la propria creatività, di affidarsi al fiuto e aprirsi ad ogni tipo di contaminazione a più livelli, compreso quello testuale.

2  –  I testi delle canzoni dei Beatles

Nella prefazione alla raccolta “The Beatles — tutti i testi 1962-70”[14], Antonio Taormina sottolinea come nella sterminata pubblicistica dedicata ai quattro di Liverpool continui a permanere una sostanziale sproporzione tra l’agiografia, ovvero tutta la trattatistica di stampo storico o storiografico (non sempre precisa e fondata nella documentazione), e l’analisi, soprattutto testuale, della loro opera; come alle liriche, poi, venga ulteriormente attribuito un ruolo marginale o comunque secondario.

In realtà, si cade molto spesso nel tranello di giudicare le liriche una componente non essenziale nella loro produzione, soprattutto dopo averle accostate al percorso artistico e letterario di Bob Dylan: un itinerario, quello del cantautore americano, che rappresentava l’ultimo gradino della scala percorsa dai cantanti folk di città, che, guidati da un desiderio di trasformazione sociale di ispirazione ribelle, cantavano con l’accompagnamento della chitarra acustica dei problemi che dilaniavano la vita cittadina, quali la discriminazione, le dure condizioni e lo sfruttamento dei sottoprivilegiati:

Hollis Brown, he lived on the outside of town
with his wife and five children, and his cabin broken down .
He looked for work and money and he walked a rugged mile

your children are so hungry that they don’t know how to smile… [15]

Come puntualizza MacDonald[16], all’inizio degli anni sessanta il movimento folk Americano di protesta si era spinto con tanta invadenza nel territorio della musica Pop che anche il più effimero idolo della gioventù veniva abitualmente interrogato a proposito del “messaggio” che intendeva lanciare all’umanità.

Immagine articolo Fucine MuteLe liriche dei Beatles andrebbero piuttosto valutate considerando il loro ambito di appartenenza, quello della Pop song inglese; raramente una composizione dei Fab Four si serviva di un semplice accompagnamento musicale quale sottofondo ad un messaggio poetico-letterario, in essa parola e suono contribuivano alla modellatura di una singola e compiuta Gestalt, senza che l’uno o l’altra andasse ad assumere un ruolo considerevolmente dominante; requisito fondamentale di un testo era che non fosse d’ostacolo all’effetto complessivo della canzone, che fosse in armonia con il suono globale.

Questo non vuol dire che le liriche di per sé mancassero di spessore letterario o rilevanza sociale.

Dai loro versi non traspare certo alcuna decisa presa di posizione politica o comunque attivistica; una lacuna che invece non sembrava sfiorare i presunti rivali, e più “combattivi”, Rolling Stones:

…the time is right for a palace revolution

but where I live the game to play is compromise solution… [17]

In un periodo cruciale per il mondo occidentale, in cui divampava a vari livelli la “contestazione”, e in cui si chiedeva anche all’idolo Pop e Rock un significativo contributo[18] alle lotte progressiste, la moderata presa di posizione adottata nella prima versione di Revolution [19] fece torcere il naso a gran parte della stampa Underground e della sinistra militante (la New Left Review lo definì un “disdicevole grido di paura tipicamente piccolo-borghese”, mentre il regista radicale Jean-Luc Godard accusò violentemente il gruppo di essere totalmente apolitico[20]):

…but when you talk about destruction
don’t you know that you can count me out?
[21]

Molto probabilmente perché Lennon (autore dei versi), dichiarandosi pronto a una trasformazione radicale dell’ordine sociale esistente (We all want to change the world), passava da un inizio gridato e sostenuto da una chitarra distorta e insistente che suonava come una chiamata alle armi, ad affermazioni tutt’altro che barricadiere; affermazioni che tuttavia non si limitavano a tessere le lodi del compromesso, in luogo di una rivoluzione violenta:

     …all I can tell you is brother you have to wait [22]

bensì indicavano un concetto cardine del Beatle-pensiero secondo il quale le azioni politiche dovevano essere giudicate su basi morali invece che ideologiche, e dunque una soluzione alternativa, dettata dalla mai abbandonata convinzione che l’unica rivoluzione valida ed efficace  potesse avvenire per mezzo di un cambiamento interiore, anziché tramite il sovvertimento violento della società:

…you say you’ll change the constitution
well, you know…we all want to change your head.
You tell me it’s the institution
well, you know…you better free your mind instead .
[23]

Sostenitori del metodo non-ideologico nel contatto fra Rock e politica, i Beatles si fecero ambasciatori di una consapevolezza generica, cogliendo l’umore del senso comune maturato collettivamente intorno ad alcune questioni: ciò che Lennon stava documentando era proprio un collettivo spirito di riforma sociale: l’effettiva rivoluzione della società occidentale negli anni sessanta si stava affermando non tanto nell’ambito politico-istituzionale, quanto nella mente della gente comune.

Revolution in the head [24], dunque: l’essenza del messaggio beatlesiano non era tanto che il mondo dovesse cambiare, quanto che potesse cambiare, che fosse possibile infrangere le vecchie regole e creare una nuova realtà più sana e pacifica , a cominciare da quella individuale; pur non parlando in modo esplicito di razzismo, guerra e ingiustizia, non c’erano dubbi su quali fossero le loro idee a proposito: la sensibilità che permeava le songs dei Beatles rifiutava simili barbarie, rifiutava di appoggiare people with minds that hate (gente con l’odio nella mente).

Immagine articolo Fucine Mute

Aspirare ad un cambiamento interiore presupponeva, per la controcultura giovanile della seconda metà degli anni Sessanta, fare piazza pulita di ogni costrizione etica o morale, perseguire l’effettivo raggiungimento della pace mentale con ogni mezzo, sia pure attraverso l’uso di sostanze stupefacenti o la mediazione delle filosofie orientali; a documentare l’apice del loro coinvolgimento nella cultura orientale, in particolare nell’esperienza legata alla meditazione, la lyric di Harrison Within you without you [25]:

We were talking
about the space between us all
and the people who hide themselves
behind a wall of illusion
never glimpse the truth

[…]

try to realise it’s all within yourself
no one else can make you change

[…]

when you’ve seen beyond yourself
then you may find peace of mind is waiting there
and the time will come when you see we’re all one
and life flows on within you and without you.
[26]

Per poterci avvicinare gli uni agli altri e liberarci dallo “spazio che esiste fra di noi” (the space between us all) dobbiamo dunque rinunciare all’individualistica convinzione, tipica della cultura occidentale, che incoraggia la divisione e la separazione, dobbiamo renderci conto che siamo essenzialmente tutti “una sola cosa” (we’re all one): conseguire consapevolezza di sé e degli altri.

Un punto di vista questo, spiega Steve Turner[27], che sebbene fosse tratto dagli insegnamenti dell’Induismo, andava a toccare una corda dell’animo di chi all’epoca faceva uso di LSD: grazie a una distruzione del proprio ego chimicamente indotta, infatti, il “consumatore” di acido lisergico aveva spesso la sensazione di essere stato assorbito all’interno di una più ampia “coscienza cosmica” e di aver annullato gli effetti perversi della materialità.

E proprio la loro implicita adesione alla cultura della droga nella seconda metà degli anni Sessanta è da considerarsi di per sé una seria dichiarazione personale; nell’hashish, nella marijuana e nell’LSD trovarono un punto di convergenza tra la meditazione trascendentale dei maestri d’Oriente e l’estasi suggerita da Timothy Leary, una delle figure  più influenti della scena underground britannica: Tomorrow never knows,   canzone concepita da Lennon nel tentativo di esprimere con parole e suoni l’esperienza lisergica, prende in prestito il primo verso proprio dal libro di Leary, “The Psychedelic Experience”[28]:

Turn off your mind , relax and float down-stream,
it is not dying , it is not dying .
Lay down all thoughts , surrender to the void,
it is shining , it is shining .
That you may see the meaning of within,
it is being , it is being .
[29]

Versi che, alla pari delle esortazioni mistiche di Harrison, “individuano in quel vuoto (the Void [30]) che sta al di là dell’esistenza fisica e materiale (principio definito “morte dell’ego”) la fonte dell’esistenza autentica”[31], e che sottolineano perciò la valenza quasi religiosa dell’approccio agli stupefacenti proprio della controcultura; i miti della libertà, del fare esperienza, dello sradicamento e del viaggio furono radicalizzati dai protagonisti della scena culturale dell’epoca; eppure l’utopia del “viaggio” quale metafora di un percorso interiore era destinata a scontrarsi con realtà molto più prosaiche ed amare: da un lato gli interessi di chi vide (e continua a vedere) nella droga uno dei più grandi business del secolo, dall’altro la fragilità di molti che oltrepassarono la sottile linea di confine esistente tra ricerca e perdita di sé: emblematica fu la fine di artisti come Jimi Hendrix, Brian Jones o Janis Joplin, stroncati in giovane età dall’abuso di alcool e droghe.

Immagine articolo Fucine Mute

Tra i Beatles e gli “additivi” nacque un legame seducente, ma raramente pericoloso, piuttosto volto sempre a proprio vantaggio; marijuana ed LSD rappresentavano uno strumento di conoscenza, un mezzo per accedere a verità trascendenti sul mondo ma ancor di più su se stessi: oggetto di esplorazione e di indagine divenne non soltanto la realtà circostante, ma anche quella più oscura e nascosta del proprio paesaggio interiore.

Le amplificazioni percettive stimolate dall’uso di droghe influirono sul loro processo creativo a vari livelli, in particolar modo sulla componente testuale, ora sostenuta da immagini e suoni distorti e dilatati[32], e diretta in una dimensione nuova, surreale e sicuramente più letteraria; a tratti  erede, nel caso di Lennon, di terminologie “nonsensical” e contenuti critici nei confronti dell’ordine prestabilito precedentemente esplorati nelle due raccolte di poesie e racconti, “In his own write ” e “A spaniard in the works ”.[33]

Adattando l’impianto surreale alla forma-canzone, i Beatles arricchirono il paradigma di una cultura Pop fortemente dominata dal kitsch, ampliandone il raggio d’azione tematico, e rinvigorirono, dopo averle in principio assimilate, le semplicistiche coordinate del Rock’n’roll.[34]

Con il “sussidio” dell’LSD, inoltre, sembrava finalmente a portata di mano l’occasione per riappropriarsi della purezza spirituale caratteristica dell’infanzia, di un desiderio di scoprire e di una condizione mentale libera da ogni barriera morale: in piena sintonia dunque con il concetto-cardine di blurring of the boundaries e con quello romantico di “innocenza perduta”, tanto cari all’underground britannico che aveva eletto il poeta William Blake a proprio Santo protettore.

Una importante sfaccettatura della produzione lirica beatlesiana consiste proprio nella percezione del passato, in particolare nel ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse a Liverpool: un periodo per molti aspetti problematico, legato al vuoto (nel caso di Lennon e McCartney) lasciato dalla perdita di un genitore o ai disagi sociali ed economici derivanti dall’appartenere al proletariato urbano del dopoguerra (nel caso di Harrison e Starkey); eppure un momento unico ed irripetibile, disperatamente invocato a  contrastare l’angoscia esistenziale del presente

When I was younger, so much younger than today,
I never needed anybody’s help in any way,
but now these days are gone and I’m not so self assured…
[35]

o rievocato a scopo quasi terapeutico

Yesterday, all my troubles seemed so far away,
now it looks as though they’re here to stay,
oh I believe in yesterday.
[36]

oppure semplicemente contemplato e associato ad un luogo ben preciso della loro città natale, prescelto come simbolo della gioia di vivere in un tempo ormai trascorso

Penny Lane is in my ears and in my eyes,
there beneath the blue suburban skies…
[37]

o come rifugio segreto dove poter ancora cullare il sogno di una esistenza libera dalle pressanti imposizioni della vita “reale”

 Let me take you down,
‘cause I’m going to Strawberry Fields,
nothing is real,
and nothing to get hungabout,
Strawberry Fields forever.
[38]

I Beatles poi non di rado risalivano allo stato d’innocenza tipico dell’infanzia riadattando vecchie ninne-nanne (Golden slumbers [39] ad esempio), deformando filastrocche imparate a scuola

Yellow matter custard
dripping from a dead dog’s eye…
[40]

oppure inventando delle sing-along songs riconducibili alla tradizione anglosassone delle nursery rhymes, particolarmente adatte ad insegnare l’ABC o i numeri ai bambini (tipo: One, two, three, four…Mary at the cottage door…)

One, two, three, four
can I have a little more…
Five, six, seven, eight, nine, ten
I love you.
A, B, C, D
can I bring my friend to tea…
E, F, G, H, I, J
I love you.
[41]

Rubber soul Sia Lennon che McCartney si cimentarono nella scrittura di svariate Kindergarten songs (canzoni da scuola materna); ma questo non rappresenta una prova abbastanza efficace a confutare il giudizio, ampiamente condiviso dalla critica e dagli stessi due autori, che pone l’accento sulle loro marcate differenze di approccio alla composizione, palesi soprattutto a cominciare dalla pubblicazione di Rubber soul nel 1965, ma strettamente connesse (come vedremo più avanti) ai rispettivi background.

L’elemento surreale, presente nelle liriche di entrambi i maggiori autori del gruppo, rappresentava un trampolino di lancio per l’immaginazione, orientata ora in un mondo passato, quello della loro infanzia vissuta tra i rondò e i giardini della loro città natale, ma che permeava anche la vita quotidiana di tutti i giorni (poetica tanto cara ai contemporanei poeti della Mersey school) e vivacizzava il ritmo del mondo a loro circostante, a volte semplicemente scandito dagli slogan pubblicitari diffusi da radio e televisione: Good morning, good morning, ad esempio, prendeva il titolo da una pubblicità televisiva dei cornflakes Kellog’s, mentre il verso “it’s time for tea and meet the wife”  era un chiaro riferimento al programma radiofonico della BBC intitolato “Meet the wife”, in onda alle cinque del pomeriggio (l’ora del tè).[42]

Fra i condizionamenti esterni della quotidianità, fu la lettura di riviste e giornali a dare gli spunti più interessanti per la stesura di alcuni testi: e a catturare l’attenzione dei loro autori poteva essere tanto il titolo di un articolo contenuto in una rivista americana di armi (“happiness is a warm gun in your hands ” — la felicità è un fucile caldo fra le tue mani), da cui appunto lo spunto per Happiness is a warm gun [43], canzone dalle chiare allusioni sessuali implicite nell’immagine del fucile caldo; quanto le cronache dei giornali che riportavano i fatti del giorno, come la storia (rielaborata in un secondo tempo dagli stessi autori) di Melanie Coe, una studentessa diciassettenne che, come tanti altri ragazzi a quell’epoca, era fuggita dalla claustrofobica rispettabilità della propria casa in cerca di divertimenti e avventure romantiche, allettanti promesse stimolate dall’onirica atmosfera degli “swinging sixties”: da qui She’s leaving home, canzone che,nell’alternare le plausibili motivazioni della fuga della giovane ragazza

She’s leaving home after living alone for so many years.

[…]

Fun is the one thing that money can’t buy.
Something inside that was always denied for so many years.
[44]

alla retorica reazione dei genitori

We gave her most of our lives,
sacrificed most of our lives,
we gave her everything money could buy.
[45]

metteva a fuoco un tema molto sentito in quegli anni, quello dell’incomprensione generazionale, dello scontro tra le generazioni sui rispettivi e inconciliabili valori (vedi cap. 2.2).

In A day in the life [46] i canali mass-mediatici fornirono a Lennon i principali nuclei narrativi (vedi cap. 2.2) per la stesura del testo; in esso giornale e televisione sono poi quand’anche in modo allusivo citati a testimoniare la veridicità dei fatti raccontati (I read the news today… / I saw a film today…).

Nonostante le molte incursioni in mondi surreali e paesaggi interiori ad opera di Lennon e la variegata galleria di personaggi immaginari che popolano altrettante storie immaginarie ideate da McCartney, i testi dei Beatles dimostrano più interesse per la vita reale di tutti i giorni, sia essa pubblica o privata, che per la letteratura, intesa come bisogno di dare spessore contenutistico ad ogni verso; una frase che sembra presa in prestito dall’antologia curata da E.Lucie-Smith “The Liverpool Scene ”[47], ma che ben si adatta nel nostro caso a sottolineare una peculiarità della poetica beatlesiana, il suo carattere inclusivo: invece che affidarsi a dei testi che fossero derivativi, i Beatles traevano ispirazione da (e davano un giusto peso a) qualunque cosa li circondasse.

Immagine articolo Fucine Mute

Una caratteristica non limitata alle tematiche, bensì estendibile al linguaggio; che non disdegna giochi di parole e strani accostamenti alla Lewis Carroll (si pensi ad esempio ai Rocking horse people e ai marmelade skies  di Lucy in the sky with diamonds), e tanto meno alcuni modi di dire o espressioni dialettali tipici della natia Liverpool (l’allusione sessuale di Fish and finger pie in Penny lane); per non parlare delle periodiche incursioni nelle lingue straniere, dal Francese sont les mots qui vont tres bien ensemble [48] di Michelle al dialetto nigeriano Yoruba di Ob-la-dì,ob-la-dà [49], fino al Joyciano pastiche di parole italiane, spagnole e portoghesi che danno un sapore mediterraneo alle battute finali di Sun King (parole che secondo Lennon, autore del brano, restano più impresse nella mente dei turisti inglesi), peraltro di difficile traduzione:

Quando paramucho mi amore defelice corazon
mundo paparazzi mi amore chicca ferdy parasol
cuesto obrigado tanta mucho que can eat it carousel .

Linguisticamente parlando poi, il rapporto di scambio tra i Beatles e la stampa fu tutt’altro che unidirezionale; perché se è vero che le testate giornalistiche offrirono opportuni suggerimenti per la stesura di alcuni  testi, Ray Connolly sottolinea anche il contrario: “The very vocabulary and word usage of today has been broadened and enriched by lines from Beatle songs, […] Lennon and McCartney contributed considerably to the idiomatic use of our language, a distinction shared with very few other songwriters”[50]; e sono principalmente le riviste inglesi specializzate in musica[51] a servirsi di idiomi beatlesiani entrati ormai a far parte dell’immaginario collettivo del popolo Rock (e non solo): quanto spesso vi si leggono riferimenti o titoli che alludono a qualche “magical mystery tour”, alle “hard day’s nights” o semplicemente al “day in the life” di un artista?

È proprio il suo linguaggio universale a rendere la poesia di Lennon e McCartney (e in misura minore Harrison) profondamente viva e stimolante; poco importa che arrivi raramente a competere con lo spessore compositivo di Bob Dylan o con la lussuriosa aggressività della ditta Jagger-Richards; sospese tra realtà e fantasia, la canzoni dei Beatles documentano tutto l’evolversi di un’adolescenza, a partire dal semplice desiderio di tenere la mano (I want to hold your hand) o ballare con una ragazza (I’m happy just to dance with you), passando attraverso sentimenti di solitudine o incomprensione (Help!) e avide sperimentazioni con la droga (Tomorrow never knows), il sesso (Drive my car) e le religioni (The inner light), o spontanee celebrazioni della maternità (Lady Madonna) , fino ad arrivare ad affrontare il peso dei fardelli rappresentati dal matrimonio (The ballad of John & Yoko) e dal guadagnarsi da vivere (Carry that weight).

Ecco dunque la necessità di rivalutare anche alcune liriche appartenenti al primo periodo, in quanto, viste in un’ottica evolutiva, trovano stretto il semplicistico appellativo di “canzonette” da idolo pop, e rappresentano piuttosto le Songs of Innocence che preludono alle future evoluzioni sintattiche e semantiche delle Songs of Experience.

2 . 1  –  Testi di “routine”

(One, two, three, fawr)

Well, she was just seventeen,
you know what I mean,
and the way she looked was way beyond compare.
So how could I dance with another,
oh, when I saw her standing there.
[52]

Canzone ideale con la quale aprire il loro esordio discografico su 33 giri[53], inseriva il gruppo nel proprio e più tipico contesto, quello di sudate sale da ballo piene di adoranti ragazzine cui erano tanto abituati, sin dai tempi delle estenuanti trasferte ad Amburgo (per non parlare poi dei tour de force al Casbah e ancor di più al Cavern Club di Liverpool); il conteggio scanzonato all’inizio del brano poi, espediente introduttivo volutamente conservato che diverrà quasi un marchio di fabbrica del movimento Punk, non faceva che accrescere il feeling di un gruppo beat catturato nel pieno di un’esibizione dal vivo.

Immagine articolo Fucine Mute

Il testo disimpegnato ripropone una situazione tipica dell’amore romantico adolescenziale e non fornisce indicazioni che possano in qualche modo far pensare ad un episodio autobiografico: un ragazzo nota una giovane ragazza (just seventeen) in una sala da ballo e, dopo aver stabilito che il suo aspetto non ha eguali (the way she looked was way beyond compare) tra le presenti, decide di ballare da quel momento in poi solo con lei.

Eppure I saw her standing there incarnava con le sue immagini istantanee l’essenza del rock ‘n’ roll, così come lo intendevano i Beatles all’inizio della loro carriera, e non soltanto per la sua rude energia musicale; le parole, allo stesso tempo schiette e pruriginose, uno slang suggestivo e gli evidenti sottintesi sessuali conferivano alla canzone una esuberanza travolgente; già i primi due versi suggerivano intenzioni assai più eccitanti di quanto lo fosse il semplice tenersi per mano: dopo essersi accertato dell’età della ragazza, giovane sì, ma non necessariamente ingenua (sedici anni era l’età legale del consenso al rapporto sessuale, e lei ne aveva uno in più…), il protagonista si concedeva una neanche troppo velata allusione erotica con quel you know what I mean [54], il che rendeva oltretutto l’ascoltatore complice di quell’impertinenza; proprio questo verso, ritiene Hertsgaard, era un primo esempio di quella caratteristica che avrebbe fatto guadagnare ai Fab Four la statura di eroi popolari, ovvero la loro comune identificazione con i propri sostenitori: “raffigura implicitamente il cantante ed il pubblico come entità alla pari, unite contro il mondo adulto della proprietà e della responsabilità”[55]: l’ascoltatore parlava lo stesso linguaggio di chi raccontava, sapeva bene cosa intendeva dire e non solo doveva sentirsi lusingato per la confidenza fattagli, ma diveniva quasi un cospiratore coinvolto in quella stessa esperienza.

[…] she wouldn’t dance with another,
oh, when I saw her standing there.
Well my heart went boom
when I crossed that room
and I held her hand in mine.
[56]

La storia poi si sviluppa in un misto di giovanile arroganza e di insicurezza: il ragazzo non prende neanche in considerazione l’eventualità di un rifiuto da parte della ragazza di concedersi esclusivamente a lui (she wouldn’t dance with another), eppure nello sbrigativo corteggiamento ammette la sua incapacità a tenere a freno la propria emotività (my heart went boom), in una rima (boom/room) che contiene tutto “l’ingenuo pathos, ma anche tutta la speranza e la forza, di generazioni che credono di star rifacendo a nuovo il mondo”[57], di giovani che vogliono libertà e piacere immediato, giovani che stanno dando forma ad un nuovo stile di vita.

Vedendo apparire la donna amata, il protagonista della canzone sente il cuore fare “boom”: non canta, non “spicca il volo”; la ribellione rock ‘n’ roll riprendeva vigore in suolo inglese con l’immediatezza metaforica e gestuale di questi versi, con il loro linguaggio diretto e quasi gergale, ricco di diafore ed interiezioni (you know, well, you see) che esplicitano la loro provenienza dalla working class o al limite medioborghese, molto prossimo a quello parlato, e dunque vivo, come raramente si era manifestato negli anni precedenti.

Le prime liriche dei Beatles (per il momento ancora inconsapevoli del potere demiurgico del loro Verbo) agirono come il più importante canale di immissione di energia giovanile nell’intorpidito panorama musicale[58], contribuendo a rivitalizzare, con la mediazione di un popolaresco galateo linguistico di Liverpool, la sua denutrita sensualità  e ad avviare la rivoluzione permissiva del comportamento sessuale, una fra le caratteristiche dominanti del decennio a venire.

A hard day’s night

I loro principali autori non fecero mai espliciti riferimenti al sesso, come ad esempio i Rolling Stones, che rappresentavano maggiormente il pericolo dell’illecito, e che più dei Beatles sembravano aver ereditato la carica irruente e trasgressiva di Chuck Berry o del primo Elvis Presley; eppure, malgrado la loro immagine pulita o quanto meno non destabilizzante, il sesso costituiva una parte importante del loro fascino per le adolescenti, ovvero il nucleo originario del loro pubblico (il che trova ampia documentazione nei filmati delle prime esibizioni dal vivo, delle folle di ragazze che si contorcono e singhiozzano in vari stati di abbandono, immortalate poi nel film di Richard Lester “A hard day’s night”[59]); essi erano consapevoli di questo, e pur disprezzando la mediocrità e l’assurdo infantilismo dei propri ammiratori, disgusto che Lennon “dirottava” nei racconti satirici, nelle poesie e nelle vignette complementari (cfr. cap. 2.3), non mancarono di dimostrarsi riconoscenti per la loro devota fedeltà; scrivendo nel 1970 Apple scruffs [60] (gli straccioni della Apple) Harrison avrebbe reso un ambiguo omaggio a tutti gli “irriducibili” sostenitori e sostenitrici che per tutti quegli anni li avevano seguiti, nel bene e nel male (seen my smiles and touched my tears), spesso accampati fuori dagli studi di registrazione a Londra in attesa dei loro idoli:

You’ve been stood around for years,
seen my smiles and touched my tears,
how it’s been a long , long time,
and how you’ve been on my mind , my Apple Scruffs.
[61]

In verità fu agli inizi della Beatlemania, con l’adozione di un linguaggio consapevolmente trasversale, che si ebbe il maggior grado di interrelazione tra il gruppo e il pubblico: solo nel biennio 1963-64 si contano quindici titoli comprendenti il pronome personale You, o la variante Your, parola che veniva marcata nella dimensione live allo scopo di incoraggiare ognuna delle loro fans a leggerla come un personale ringraziamento per il proprio ruolo nel successo dei Beatles, per l’affetto (you’ve been good to me, recita un verso di Thank you girl [62]), ma anche per il loro potere economico (erano le giovani teenager, in fin dei conti, che ne acquistavano i dischi).

A suggerire il titolo per From me to you [63] fu la lettura di una rubrica della posta dei lettori inserita nel settimanale pop New Musical Express, intitolata “From you to us”: nelle versioni presentate alla BBC[64], ne invertivano i pronomi personali (“From us to you”), creando una virtuale  rubrica radiofonica dove i ruoli mittente/destinatario erano invertiti; le parole della canzone non potevano dunque che suonare come una dichiarazione d’affetto nei confronti del giovane pubblico inglese, come un sincero impegno ad accogliere ed esaudire ogni suo istantaneo bisogno:

I’ve got everything that you want,
like a heart that’s oh so true,
just call on me and I’ll send it along,
with love from me to you .
[65]

Il bisogno di istintualità del teenager nei primi anni sessanta veniva ampiamente soddisfatto nonostante la patina di innocenza che ricopriva l’allusivo invito ad un più profondo coinvolgimento fisico ed emotivo

I got lips that long to kiss you,
and keep you satisfied .
[66]

così che lo stesso destinatario del messaggio si poteva tranquillamente identificare con l’immagine proiettata dal proprio idolo pop, immagine sicuramente “liberatoria”, vista la sessualità apertamente dichiarata, ma per il momento avvertita come “non minacciosa”.

From me to you  fu la prima canzone ad essere scritta “su ordinazione” da Lennnon e McCartney in qualità di artisti dell’etichetta Parlophone, e nonostante lasciasse intuire lo spirito cinico e sfrontato che avrebbe permeato le liriche del gruppo in un secondo tempo, rimaneva pur sempre ancorata, nei contenuti, ai cliché della pop music da alta classifica; molte liriche vennero composte tenendo a mente scadenze inderogabili[67], il che li costringeva ad attingere tanto all’esperienza personale, quanto al gergo presente in altre canzoni.

Immagine articolo Fucine Mute

Ricorda McCartney riguardo la genesi di queste liriche: “Avevamo in testa una formula molto vaga e riuscivamo a realizzarla in tempi quasi immediati”[68]: ecco perché vengono indicate nelle antologie e dagli stessi autori come “canzoni di routine”; una formula tutta riassunta nel “boy meets/loves girl ” che talvolta veniva riletta attraverso alcune significative varianti: in She loves you [69] viene introdotto ad esempio un terzo personaggio, mentre l’Io narrante, estraneo al rapporto amoroso, assume piuttosto il ruolo di confidente e intermediario fra i due:

You know it’s up to you,
I think it’s only fair.
Pride can hurt you too,
apologise to her.
[70]

Più lapidario sarebbe stato Lennon nel ricordare le modalità di gestazione delle prime liriche, affermando di essersi tenuto deliberatamente fuori da composizioni a uso e consumo del mercato, e di  aver preferito inserire le proprie osservazioni personali e i propri pensieri in componimenti poetici e racconti brevi, alcuni dei quali sarebbero stati pubblicati contemporaneamente alla sua carriera da musicista; in realtà molte canzoni “di routine” scritte da Lennon condividono con tali racconti una naturale propensione ad esaminare e mettere in questione la sua vita privata o la propria posizione di Pop star: se nel racconto The wrestling dog  punta il dito sulle claustrofobiche pressioni esercitate sul gruppo (cfr. Cap. 2.3), non di meno si ripete (anche se in maniera più velata) nel verso di apertura della contemporanea A hard day’s night [71], questa volta non un lamento adolescenziale, bensì leggermente più adulto, frutto della consapevolezza di aver lavorato (cosa del tutto comune per loro in quel periodo) “come un cane”:

It’s been a hard day’s night,
and I’ve been working like a dog…

[…]

when I’m home,
everything seems to be right…
[72]

Adulto il tema del lavoro, della fatica reale, che apre la strada all’argomento altrettanto adulto della casa, del conforto procuratogli da un nucleo famigliare non ancora vissuto come gabbia alienante (come sarà invece in un futuro neanche tanto lontano).

E sempre connessi alle pressioni interne (o provenienti dall’esterno) al fenomeno Beatles, furono i contributi, per quanto limitati, di Harrison e Starkey in veste di scrittori: alcuni versi (I want no one to talk to me…go away, leave me alone, don’t bother me…I’ve got no time for you right now…don’t come near, just stay away… [73]), uniti all’insolita atmosfera spettrale del brano, concorrono a dare di Don’t bother me [74] (Non mi seccate!) una interpretazione particolare: Harrison, sollecitato con eccessiva insistenza dal giornalista di Liverpool Bill Harry (fondatore del Mersey Beat) a scrivere canzoni sulla scia dei suoi più prolifici compagni, dava probabilmente sfogo al proprio bisogno di spazio e privacy, profondamente radicato in lui e fortemente rivendicato nelle composizioni precedenti lo scioglimento del gruppo.

Pubblicata soltanto nel 1968, Don’t pass me by [75] (Non fate finta di non vedermi!), ebbe una lunghissima gestazione: che il testo risuoni come una istanza personale (abilmente camuffata da “western short story”[76]), pare confermato dal fatto che Starkey già dal 1963 si affannava per convincere gli altri (waiting for your knock) a registrare un suo piccolo contributo

Waiting for your knock dear on my old front door,

I don’t hear it…

doesn’t it mean you don’t love me any more? [77]

bocciato ogni volta (I don’t hear it), dato il monopolio conservato dalla ditta Lennon-McCartney sulle pubblicazioni della band, fino alla lavorazione del doppio “album bianco”.

La dolorosa malinconia suscitata dai contrasti tonali[78] nella musica di Things we said today [79] ricorda vagamente quella di Don’t bother me; solo che a pesare sull’atmosfera sinistra del brano non era questa volta una situazione di pressione, dato che il suo autore, McCartney, si sentiva perfettamente a proprio agio ad esser parte (in un ruolo non proprio secondario) della band più chiacchierata del pianeta: il testo andava letto come una riflessione sulla spesso turbolentante relazione sentimentale con l’attrice Jane Asher, alla luce del fatto che, per la natura stessa del loro lavoro (ciascuno aveva una carriera propria che comportava frequenti periodi di separazione), i momenti vissuti assieme sarebbero stati davvero pochi, e quindi i due avrebbero dovuto trarre conforto dal ricordo delle parole scambiate durante quei brevi incontri:

You say you will love me if I have to go,
you’ll be thinking of me, somehow I will know,
someday when I’m lonely,
wishing you weren’t so far away,
then I will remember things we said today.
[80]

La canzone si proietta nel futuro e trasuda nostalgia per l’attimo che si sta vivendo lontano dalle tournèe; eppure McCartney, piuttosto che tradurre l’esperienza personale in una vera e propria confessione, preferisce mantenere un approccio più indiretto, nel tentativo suo tipico di illustrare un’esperienza universale, a cui altri possano attingere, e che si presti eventualmente a verosimili interpretazioni (un giovane soldato si congeda a malincuore dall’amata prima di partire per il fronte…).

Immagine articolo Fucine MuteMa è nei testi di Lennon che dell’amore si parla in modo più sofisticato, e che si avverte maggiormente l’impronta dell’esperienza personale di chi scrive: la semiautobiografica If I fell [81], ad esempio, introduce un tema nuovo all’epoca nella produzione del gruppo (e che  tornerà in modo ricorrente), quello dei rapporti d’amore vissuti in maniera irrisolta e conflittuale:

If I fell in love with you
would you promise to be true,
and help me understand?
‘Cos I’ve been in love before
and I found that love was more
than just holding hands.
[82]

Assecondando la sua solita doppia personalità di amante avido e presuntuoso o di perdente arrabbiato, Lennon  approda in questi versi ad una maggiore profondità emotiva: ora prima di agire impulsivamente cerca di capire e implora aiuto (in anticipo di oltre un anno sulla più drammatica Help!), comprensione e sincerità dall’amata di turno.

L’esperienza del primo e precipitoso matrimonio con Cynthia[83] gli ha dimostrato che l’amore non è facile come dicono i libri delle fiabe o la maggior parte delle canzoni pop: quasi riferendosi intenzionalmente a I want to hold your hand, confessa di aver imparato a proprie spese che love was more than just holding hands (l’amore era di più che tenersi semplicemente per mano).

If I give my heart to you
I must be sure from the very start
that you would love me more than her.

[…]

So I hope you see […] that she will cry
when she learns we are two.
[84]

Nonostante il cinico Lennon fosse più incline a convogliare le sue frustrazioni di marito in racconti quali No flies on Frank [85], viene quasi spontaneo  interpretare la canzone come un suo tentativo di far luce su una presunta relazione extraconiugale: in essa chiede alla propria amante di assicurargli che, se lascerà la moglie per lei, sarà pronta ad amarlo più di quanto non sia stato mai amato in vita sua; è la storia di qualcuno che vuole evitare qualsiasi confronto, che sa di venire a meno alle proprie responsabilità di marito: è consapevole che se abbandonerà il tetto coniugale farà soffrire la moglie (she will cry), e pertanto, prima di compiere un tale passo, vuole essere sicuro che la propria amante faccia sul serio.

Un’altra indicazione del fatto che Lennon stesse già entrando in un periodo di intenso autoesame sono i versi di I’ll cry instead [86], la prima canzone in cui ammise di essere un permaloso attaccabrighe:

Don’t want to cry when there’s people there,
I get shy when I start to stare,
I’m gonna hide myself away,
but I’ll come back again some day.
And when I do you’d better hide all the girls,
I’m gonna break their hearts all round the world,
yes I’m gonna break them in two
and show you what your lovin’ man can do,
until then I’ll cry instead.
[87]

In essa il protagonista faceva sapere che per il momento preferiva piangere per la propria insoddisfazione amorosa anziché rendere la pariglia, ma che una volta finito di piangere sarebbe tornato in cerca di vendetta: immaginava di andarsene in giro per il mondo a spezzare cuori femminili, come se, facendo innamorare di sé le ragazze per poi respingerle, potesse punire tutti coloro che lo avevano rifiutato; in seguito avrebbe effettivamente ammesso di essere stato talvolta violento con le donne, e in Getting better [88] (I used to be cruel to my woman…)  avrebbe addirittura parlato della sua misogina crudeltà come di una cosa di cui si era liberato (in realtà solo momentaneamente).

La promessa di vendetta che seguiva la pura e semplice ammissione della propria timidezza (I get shy…), intesa come desiderio di nascondere il proprio lato più debole al pubblico, proveniva in parte dal corollario dell’immagine di Lennon proiettata sullo schermo: “I Beatles non potevano sembrare infelici, perché non era quello il loro ruolo nella vita; meno che mai poteva Lennon, il macho, essere visto come una persona sola o incompresa”[89]; concorreva sicuramente l’atmosfera spensierata della musica, in contrasto con il tono di alcuni versi, a distrarre l’ascoltatore e mascherare il suo grido da metafora di un’altra storia d’amore adolescenziale finita male.

Immagine articolo Fucine Mute

Un’attitudine quella di Lennon che si riscontrava già all’esordio discografico: mentre McCartney si era espresso in termini assolutamente ottimistici in I saw her standing there, Lennon dette inizio alla propria carriera lamentandosi di una ragazza che, lasciatolo, l’aveva fatto sentire solo: Misery [90] cominciava con la portentosa frase The world is treating me bad  (il mondo mi sta trattando male), il cui esasperato vittimismo può anche sembrare eccessivo se lo si raffronta al tono generale della canzone, eppure lascia una prima impronta (decisamente pessimistica) del suo futuro approccio alla scrittura.

Insieme ad I saw her standing there e a Misery, There’s a place [91] rappresentava una delle gemme nascoste del loro primo album: in essa c’era un primo accenno di quella libera sensibilità del pensiero che in seguito Lennon avrebbe sviluppato, seppure in modo più sofisticato, in composizioni quali Rain, I’m only sleeping, Tomorrow never knows e Strawberry fields forever:

There’s a place
where I can go
when I feel low,
when I feel blue,
and it’s my mind
and there’s no time
when I’m alone.
[92]

Come Misery aveva offerto una prima descrizione di quei sentimenti di solitudine e rigetto che sarebbero diventati uno dei temi principali delle canzoni di Lennon, There’s a place ne introduceva un altro destinato a diventare ricorrente: quello, sempre a carattere introspettivo, relativo al trovare rifugio e conforto nei propri pensieri, sogni e ricordi: fu in pratica la prima ammissione, sfuggita all’attenzione di molti, che il suo personaggio pubblico non raccontava tutta la storia, che nei momenti difficili poteva rifugiarsi in se stesso, in quella sfera di immaginazione che stava già producendo le storie, le poesie e i concetti dei quali sarebbe presto stata fatta un’antologia in “In his own write ”.

In my mind there’s no sorrow,
don’t you know that it’s so?
there’ll be no sad tomorrow,
don’t you know that it’s so?
[93]

Nella sua mente dove il tempo smette di scorrere (and there’s no time…) individua non soltanto una difesa da uno sconforto o disagio attuale (in my mind there’s no sorrow…), ma anche una certezza per il domani (there’ll be no sad tomorrow…): Lennon sembra dunque affrontare  le pene della propria vita ritirandosi all’interno della sicurezza che gli possono offrire i suoi più riposti pensieri e la sua immaginazione; una visione forse un po’ troppo idealizzata, visto il modo in cui contrastava con la realtà vissuta durante la sua travagliata infanzia, ma che proprio per la sincera  convinzione con cui veniva esternata suonava come una vera e propria dichiarazione d’indipendenza, quasi a costituire una piccola pietra miliare nell’affermarsi della nuova cultura giovanile.

Ben difficilmente queste prime composizioni potrebbero essere definite profonde: certo in campo grafico e ancor più musicale i Beatles seppero proporre in questa fase soluzioni di gran lunga più interessanti: si pensi alla dinamica stessa della “middle eight song ”, dove l’inserimento di una sezione  incidentale serviva a spezzarne la linearità e quindi ad arginare il rischio di banalità dovuto a un testo eccessivamente semplice e diretto (Cfr. cap. 3).

Molte di queste suonano addirittura puerili, con espressioni piene di luoghi comuni sugli amori adolescenziali o pose da macho teenager; ma bisogna tenere allora in considerazione le limitazioni imposte dal mercato dei 45 giri pop, diretto principalmente ad un sempre crescente pubblico di giovani ammiratrici e che poneva l’aspirante idolo pop di fronte ad un bivio: “o la sua cancellazione dalla ribalta del successo o l’accettazione delle regole del gioco in una sorta di affiliazione entro una struttura corporativa di tipo protettivo”[94].

Immagine articolo Fucine Mute

Eppure i modelli di scrittura indicati dai Beatles si discostano da quelli prodotti artificialmente tanto dall’industria musicale pop quanto dalla cinematografia hollywoodiana di allora: nella scelta del soggetto quanto del suo rapporto con il mondo esterno, con gli altri e con l’amore, si predilige attingere alla propria esperienza di vita (certamente limitata, vista la loro giovane età[95]); la travolgente esuberanza di brani come I saw her standing there è un reale prodotto degli slanci ottimistici di Paul, come le situazioni più sinuose prospettate da John sono frutto di una sincerità solo in rari casi negata; sincera e del tutto naturale è anche la scelta di adottare un linguaggio non ricercato, ma molto prossimo a quello parlato dallo stesso destinatario della canzone, la quale allora diveniva una sorta di ponte tra chi calcava il palcoscenico e chi vi stava di fronte, una promessa di istantanea empatia.

Si scopriva in parte un modo diverso di fissare il mondo, che ignorava il rispetto per l’età e per l’esperienza (e si privava dunque di quel buon senso da proverbio tipico della musica folk-popolare degli anni precedenti il 1963), e che si interessava solamente ai fremiti immediati, ai desideri come alle delusioni del presente: “Lennon più tardi parlò di questi stati d’animo come fossero derivati dall’ Lsd, ma l’imperativo vivere adesso e subito fu fin dall’inizio al centro della cultura degli anni Sessanta”[96]; così l’ambizione alla felicità e alla pace dei sensi, così legata al momento, all’istantaneità del motto be here now, era già implicita nei versi di There’s a place; anche i vari paesaggi musicali creati in studio di registrazione e l’irriverente franchezza del primo film diretto da Lester (“A hard day’s night”) erano una dimostrazione della spontanea quanto indiscriminata voracità del “tutto e subito” palese nei testi: già si delinea nel biennio 1963-64 un comune denominatore nella scrittura beatlesiana, la sua sospensione tra commercialità, istinto ed emotività.

fine prima parte

Note


[1] “Benché pessimo, rimane il fatto che John Lennon era uno studente d’arte e non un camionista come Elvis Presley. Il rock’n’roll inglese aveva origini ben diverse della sua controparte americana, e filtrava le rozze radici del rhythm and blues attraverso un ulteriore strato di surrealismo e teoria dell’arte contemporanea europea.”. B.MILES, Paul McCartney: many years from now , pag.22.


[2] CARATOZZOLO e COLAIACOMO, La Londra dei Beatles, pag. 220.


[3] Cfr. capitolo 4.2.


[4] R.CRIVELLI, Né falchi né colombe: poesia inglese degli anni ’50 e ’60, dal Movement al Group, pag. 319.


[5] P.DEL CONTE in Paralleli: The Beatles, pag. 125.


[6] In un servizio uscito il 15 aprile del 1966.


[7] Nell’estate del 1956 il leader egiziano Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, la rotta storica della Gran Bretagna verso l’Oriente; la confusa reazione del governo inglese portò ad una frustrante catena di eventi che coinvolse Francia, Israele, Stati Uniti e le Nazioni Unite, oltre a diventare una questione politica che divideva l’opinione pubblica.


[8] Look back in anger […] it’s about humanity as a lost cause (Look back in anger […] tratta dell’umanità come una causa persa); P.KAEL, I lost it at the movies-film writings 1954/65, pag. 69.


[9] P.CLARKE, Speranza e gloria: l’Inghilterra nel xx secolo, pag. 348.


[10] R.BERTINETTI, Dai Beatles a Blair: la cultura inglese contemporanea, pag. 9.


[11] R.BERTINETTI, Ibidem, pag. 14.


[12] La data si riferisce ovviamente all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas.


[13] G.DIEZ, Beatles contro Rolling Stones, pag. 70.


[14] (a cura di ) D.FRANZONI e A.TAORMINA, The Beatles – tutti i testi, 1962-70, pag.5; Arcana, Milano, 1992.


[15] “Hollis Brown viveva fuori città /con la moglie e cinque figli, nella sua decrepita baracca ./Cercava soldi e lavoro, la sua strada era dura / i tuoi bambini sono così affamati che non sanno più come sorridere…” da “Ballad of Hollis Brown” (Ballata di Hollis Brown), (B.Dylan) Columbia 1963.


[16] IAN MACDONALD, The Beatles – L’opera completa , pag. 101.


[17] “…i tempi sono maturi per una rivolta di palazzo / ma dove vivo io ci si limita a soluzioni di compromesso…” da “Street fighting man” (combattente di strada), (Jagger-Richards), Decca 1967.


[18] You ask me for a contribution (mi chiedi un contributo), dalla canzone che segue.


[19] “Revolution”: (Lennon-McCartney), Apple, 1968; la seconda versione, Revolution 1, pubblicata sul White Album, riporta la parola “in” dopo “you can count me out”: Lennon, forse risentito per le accuse di “tradimento”, non si considera più del tutto estraneo al movimento rivoluzionario, proclamandosi sia fuori che dentro; forse Lennon non se la sente di dare una risposta decisa ad una delle domande più antiche dell’etica politica, “Il fine (migliore condizione dell’essere umano) giustifica i mezzi (l’uso della violenza sullo stesso essere umano)?”


[20] In un’articolo pubblicato sull’International Times il 6 settembre 1968.


[21] “…ma quando parli di distruzione / non sai che puoi considerarmi fuori?”.


[22] “…tutto ciò che posso dirti è fratello devi aspettare”.


[23] “…dici che cambierai la costituzione / bene, devi sapere che vogliamo tutti cambiarti la testa /mi dici che è l’istituzione (il problema) / bene, sappi che faresti meglio a liberarti la mente.


[24] Revolution in the head, di I.MACDONALD, è il titolo originale del libro da lui dedicato al quartetto di Liverpool, The Beatles: l’opera completa.


[25] Within you without you (Harrison), Parlophone/Emi, 1967.


[26] “Parlavamo/dello spazio che esiste tra di noi tutti/e della gente/che si nasconde dietro un muro di illusione/non intravede mai la verità/…/cerca di capire che è tutto dentro di te/nessun altro può farti cambiare/…/quando hai visto oltre te stesso/allora puoi scoprire che la pace mentale è lì che aspetta/e verrà il tempo in cui capirai che siamo tutti un’unica cosa/e la vita scorre dentro e fuori di te.”


[27] STEVE TURNER , La storia dietro ogni canzone dei Beatles, pag. 175.


[28] In realtà, il libro scritto dal guru della Psichedelica, era già di per sé una reinterpretazione poetica dell’antico LIBRO TIBETANO DEI MORTI, il cui concetto fondamentale, quello del “vuoto” e del raggiungimento del medesimo, è lo stesso espresso da Lennon nella canzone in questione e da Harrison in quella precedente.


[29] Spegni la tua mente, rilassati ed abbandonati alla corrente/non è morire, non è morire/Metti da parte tutti i pensieri, arrenditi al vuoto/è risplendere, è risplendere/Che tu possa capire il significato del profondo/è esistere, è esistere.


[30] “The Void” era fra l’altro l’originale working title della canzone.


[31] Marianna Zavagno in From the shelf to the street : Merseysound,la poesia di Liverpool negli anni sessanta, pag.192. Tesi di laurea in Lingue e letterature straniere, facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di Trieste, anno accademico 2002-2003.


[32] Cfr. cap. 3 e 4.


[33] Cfr. cap. 2.3.


[34] Cfr. cap. 2.1.


[35] Quando ero più giovane, molto più giovane di adesso / non avevo mai bisogno dell’aiuto di nessuno in nessun modo / ma ora quei giorni sono andati e non sono così sicuro di me…  “Help” (Lennon-McCartney), 1965.


[36] Ieri, tutti i miei problemi sembravano così lontani / ora sembra quasi che qui stiano di casa / oh, io credo in ieri. “Yesterday” (Lennon-McCartney), 1965.


[37] Penny Lane è nei miei orecchi e nei miei occhi / là sotto cieli azzurro di periferia… “Penny Lane” (Lennon-McCartney), 1967.


[38] Lascia che ti porti con me / perché sto andando nei Campi di Fragole / niente è reale / e niente per cui stare in ansia / Campi di Fragole per sempre. “Strawberry Fields forever (Lennon-McCartney), 1967.


[39] “Golden slumbers” (Lennon-McCartney), 1969.


La ninnananna tradizionale Golden slumbers è invece basata su una poesia dello scrittore e drammaturgo Thomas Dekker (Londra 1572-1632), un contemporaneo di Shakespeare, e pubblicata nel 1603 in The Pleasant Comedy of Patient Grissill.


[40] Crema di materia giallastra / che cola dall’occhio di un cane morto.


“I am the walrus” (Lennon-McCartney), 1967.


La versione originale recita: Yellow matter custard, green slop pie, all mixed together with a dead dog’s eye (crema di materia giallastra / torta di fanghiglia verde / il tutto mescolato assieme all’occhio di un cane morto).


[41] Uno, due, tre, quattro / posso averne ancora un po’ ? / cinque, sei, sette, otto, nove, dieci / ti amo / a, b, c, d / posso portare il mio amico per il tè ? / e, f, g, h, i, j / ti amo. “All together now” (Lennon-McCartney), 1968.


[42] “Good morning, good morning” (Lennon-McCartney), 1967. Così recitava il jingle: Good morning, good morning, the best to you each morning, sunshine breakfast, Kellog’s cornflakes, crisp and full of fun (Buongiorno, buongiorno/il meglio per voi ogni mattino/la colazione del sole, cornflake Kellog/croccanti e divertenti.


[43] “Happiness is a warm gun” (Lennon-McCartney), 1968. Cfr. Cap. 2.3.


[44]”She’s leaving home” (Lennon-McCartney), 1967. Se ne sta andando di casa dopo aver vissuto da sola per così tanti anni/…/il divertimento è la sola cosa che il denaro non può comprare/qualcosa dentro che è stato sempre negato per così tanti anni.


[45] Le abbiamo dedicato gran parte della nostra vita/sacrificato gran parte della nostra vita/le abbiamo dato tutto quanto il denaro poteva comprare.


[46] “A day in the life” (Lennon-McCartney), 1967.


[47] Così E. Lucie-Smith , in difesa dei poeti di Liverpool, tra cui Adrian Henri, Roger McGough, Peter Brown e Brian Patten, “rei” secondo l’underground di aver accettato la stessa logica dei canali commerciali degli idoli Pop, e riconosciuti dal Group solo in quanto fenomeno di Low Culture: “…ammiro le poesie contenute in questo libro perché, essenzialmente, non hanno la pretesa di essere invulnerabili e perché mi sembra siano scritte da persone assai più legate alla vita che alla letteratura”. E.LUCIE-SMITH, The Liverpool Scene, pag 8. La citazione è presa da pag. 258 del libro Né falchi né colombe di R.CRIVELLI.


[48] Sono parole che stanno bene assieme.


[49] La vita continua.


[50]Il lessico e il modo di usare le parole al giorno d’oggi sono stati condizionati ed arricchiti dai versi delle canzoni dei Beatles, […] , Lennon e McCartney hanno dato un notevole contributo all’uso idiomatico del nostro linguaggio, una caratteristica (questa) condivisa da un numero ristretto di compositori. RAY CONNOLLY, “The Beatles complete-an introduction” , pag. 9.


[51] Tra le più diffuse in suolo inglese: NME, Melody Maker, Q, Mojo ed Uncut.


[52] (Uno, due, tre, quattro)/Beh, lei aveva solo diciassette anni/sai cosa voglio dire/ed era al di là di ogni paragone/Perciò come potevo ballare con un’altra/oh, quando l’ho vista lì? “I saw her standing there” (McCartney-Lennon), 1963.


[53]”Please please me”, Parlophone/EMI, 1963; il disco era stato preceduto dai singoli Love me do/P.s. I love you e Please please me/Ask me why.


[54] Una tipica espressione di Liverpool, a detta di Steve Turner, che consentiva una volta tanto di “evitare gli americanismi dei quali erano farciti i brani rock ‘n’ roll dell’epoca” (La storia dietro ogni canzone dei Beatles, pag.30).


[55] M.HERTSGAARD, A day in the life, pag. 42.


[56] Lei non avrebbe ballato con un altro/oh, quando l’ho vista lì/Beh, il mio cuore stava scoppiando/quando ho attraversato la stanza/e le ho tenuto la mano nella mia.


[57] P.COLAIACOMO – V.CARATOZZOLO, La Londra dei Beatles, pag. 253.


[58] MacDonald sottolinea come si fosse palesemente “smorzata” la ventata antiortodossa del rock ‘n’ roll a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, come gran parte delle sue figure dominanti fossero “fuori combattimento”: Elvis Presley aveva indossato la divisa da militare nel 1958 e l’avrebbe tolta solo nel 1960, per indossare i panni dell’attore; nello stesso anno la carriera di Jerry Lee Lewis precipitò dopo il suo tanto contestato matrimonio con una quattordicenne; Buddy Holly e Ritchie Valens morirono in un incidente aereo, mentre Chuck Berry e Larry Williams vennero arrestati per reati non analoghi. Cfr. The Beatles – L’opera completa, nota 6 a pag. 17.


[59] Cfr. cap. 4.1.1.


[60] “Apple scruffs” (Harrison), 1970; canzone presente nel primo suo lavoro solista dopo lo scioglimento della band, “All things must pass”, Apple/Emi,1970.


[61] Siete rimasti nei paraggi per anni/mi avete visto sorridere e piangere/quanto ne è passato di tempo/e quanto siete stati presenti nei miei pensieri, miei Straccioni della Apple.


[62] Sei stata buona con me. “Thank you girl” (McCartney-Lennon), 1963.


[63] “From me to you” (McCartney-Lennon), 1963. Lato A di un 45 giri il cui lato B era la sopra citata “Thank you girl”.


[64] La si può ascoltare nell’antologia “The Beatles – Live at the BBC”, (Apple/Emi), 1994.


[65] Ho tutto ciò che vuoi/come un cuore così sincero/basta che mi chiami e te lo manderò/con amore, da me a te.


[66] Ho labbra che desiderano baciarti/e di mantenerti soddisfatta.


[67] Erano costretti a pubblicare, per contratto, due 33 giri e quattro singoli all’anno. In più, Lennon e McCartney scrivevano per altri artisti, in gran parte dell’entourage del loro manager Brian Epstein.


[68] M.LEWISOHN, The Beatles: Recording sessions, pag. 8.


[69] “She loves you” (Lennon-McCartney), 1963.


[70] Sai che spetta a te/penso sia la cosa più onesta da fare/L’orgoglio può far soffrire anche te/chiedile scusa.


[71] “A hard day’s night” (Lennon-McCartney), 1964. Il titolo della canzone è contributo dell’arguzia involontaria di Ringo Starr, un gioco di parole entrato a far parte del linguaggio del gruppo (e non solo) e destinato ad avviare l’uso, negli anni sempre più frequente, dei nonsenses; Lennon, che apprezzava lo humour dell’amico, inserì lo stesso “Ringoismo” nel racconto Sad Michael del suo primo libro.


[72] E’ stata la notte di un giorno duro/e ho lavorato come un cane/…/Quando sono a casa/sembra andare tutto bene.


[73] Non voglio nessuno che mi parli/…/andatevene, lasciatemi solo, non mi scocciate/…/ora non ho tempo da dedicarvi/…/non vi avvicinate, state alla larga da me.


[74] “Don’t bother me” (Harrison), 1963.


[75] “Don’t pass me by” (Starkey), 1968.


[76] Cfr. David Quantick a pag. 117 di Revolution: the making of the Beatles’ White album: “While the actual lyric is a simplistic plea for romantic acceptance, its intent has been seen by some commentators as a request to not be ignored in the Beatles”.


[77] Aspetto che bussiate, cari, alla mia vecchia porta/non sento niente…/significa che non mi volete più bene ?


[78] Il passaggio da strofe in La minore a sezioni mediane (middle eight – cfr.cap.3) in toniche di La maggiore, stabiliva un intrigante modello di contrasto, stridente e drammatico, che i Beatles avrebbero messo in evidenza negli album successivi, e portato agli estremi con brani come “A day in the life”, ai cui policromi contenuti sarebbe stato applicato tale escamotage.


[79] “Things we said today” (Lennon-McCartney), 1964.


[80] Dici che mi amerai se me ne dovrò andare/mi penserai, lo saprò in qualche modo/un giorno in cui sarò solo/sperando tu non sia tanto lontana/allora ricorderò le cose che abbiamo detto oggi.


[81] “If I fell” (Lennon-McCartney), 1964.


[82] Se mi innamorassi di te/mi prometteresti di essere sincera/e di aiutarmi a capire?/Perché sono già stato innamorato/ed ho scoperto che l’amore era di più/che tenersi semplicemente la mano.


[83] I due si erano sposati nel 1962 all’età di 22 anni, dopo aver scoperto che Cynthia aspettava un bambino e prima che scoppiasse la Beatlemania.


[84] Se ti faccio dono del mio cuore/devo essere certo fin dall’inizio/che mi ameresti più di lei/…/Così spero tu comprenda/…/che lei piangerà/quando avrà scoperto che stiamo assieme.


[85] Cfr. Cap.2.3.


[86] “I’ll cry instead” (Lennon-McCartney), 1964.


[87] Non voglio piangere quando c’è gente/divento timido quando inizio a fissare lo sguardo/andrò a nascondermi lontano/ma un giorno o l’altro tornerò/E quando lo farò è meglio che nascondiate tutte le ragazze/ho intenzione di spezzare cuori in tutto il mondo/si li spezzerò in due/e vi mostrerò cosa il vostro caro è in grado di fare/fino ad allora invece piangerò.


[88] “Getting better” (Lennon-McCartney), 1967. Cfr. Cap. 2.2.


[89] J.ROBERTSON, L’arte e la musica di John Lennon, pag. 43.


[90] “Misery” (McCartney-Lennon), 1963.


[91] “There’s a place” (McCartney- Lennon), 1963.


[92] C’è un posto/dove posso andare/quando mi sento giù/quando sono triste/ed è la mia mente/e non esiste il tempo/quando sono solo.


[93] Non c’è dolore nella mia mente/non sai che è così?/non ci sarà un domani triste/non sai che è così?


[94] R.CRIVELLI, Né falchi né colombe, pag. 114.


[95] Al momento dell’esplosione della Beatlemania sul finire del 1963, il più “vecchio”, Ringo Starr, aveva solamente 23 anni.


[96] I.MACDONALD, The Beatles – L’opera completa, pag. 30.

Commenti

Non ci sono ancora commenti

Lascia un commento

Fucine Mute newsletter

Resta aggiornato! Inserisci la tua e-mail:


Leggi la rubrica: Viator in fabula

Articoli recenti

Pen Lettori Trieste: Punto di fuga di Mikhail Shishkin

Pen Lettori Trieste: Punto di fuga di...

Doc nelle tue mani 3: che il flashback sia con voi (fino allo sfinimento)

Doc nelle tue mani 3: che il...

Trieste Film Festival 2024

Trieste Film Festival 2024

Lascia che la carne istruisca la mente: Intervista a Anne Rice (II)

Lascia che la carne istruisca la mente:...

Lascia che la carne istruisca la mente: Intervista a Anne Rice (I)

Lascia che la carne istruisca la mente:...

Nel castello di Giorgio Pressburger al Teatro Stabile Sloveno di Trieste

Nel castello di Giorgio Pressburger al Teatro...

Lucca Comics & Games 2023: Incontro con Pera Toons

Lucca Comics & Games 2023: Incontro con...

Lucca (meno) Comics & (più) Games 2023:...

Lucca Comics & Games: Intervista a Davide Barzi

Lucca Comics & Games: Intervista a Davide...

Lucca Comics & Games 2023: Intervista a Matteo Pollone

Lucca Comics & Games 2023: Intervista a...

Il futuro (forse) del fumetto: Martin Panchaud

Il futuro (forse) del fumetto: Martin Panchaud

Femminismo all’ombra dello Shogun: Camille Monceaux

Femminismo all’ombra dello Shogun: Camille Monceaux

Lucca Comics & Games 2023: Intervista ad Andrea Plazzi

Lucca Comics & Games 2023: Intervista ad...

I quarant’anni della “scatola rossa”

I quarant’anni della “scatola rossa”

Trieste Science + Fiction Festival 2023: River

Trieste Science + Fiction Festival 2023: River

Trieste Science + Fiction Festival 2023: cortometraggi

Trieste Science + Fiction Festival 2023: cortometraggi

Il fiore del mio segreto (Almodóvar, 1995): la letteratura come seduzione

Il fiore del mio segreto (Almodóvar, 1995):...

Good Omens 2: amore e altri disastri

Good Omens 2: amore e altri disastri

The Plant: il romanzo incompiuto di Stephen King

The Plant: il romanzo incompiuto di Stephen...

The Phantom of The Opera per la prima volta in Italia

The Phantom of The Opera per la...

Pélleas e Mélisande di Claude Debussy: parodia del 1907

Pélleas e Mélisande di Claude Debussy: parodia...

Prigionieri dell’oceano (Lifeboat) di Alfred Hitchcock

Prigionieri dell’oceano (Lifeboat) di Alfred Hitchcock

Tutto il mondo è un Disco

Tutto il mondo è un Disco

Il commissario Ricciardi 2: quattro puntate di noia profonda

Il commissario Ricciardi 2: quattro puntate di...

Sanremo anche no

Sanremo anche no

Casomai un’immagine

bav-08 Face 2 36 esplosa-02 pugh-09 34 galleria23 galleria17 murphy-16 mis1big s3 notte akroama cas-03 bra-big-06 sir-06 acau-gal-11 a bon_sculture_07 bon_06 thole-15 kubrick-24 kubrick-11 25 24 09 th-23 pck_21_cervi_big mar-16 mar-11
Privacy Policy Cookie Policy