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Scrittura

Jadelin Mabiala Gangbo

Personaggi senza identità

Immagine articolo Fucine MuteTiziana Carpinelli (TC): Ci troviamo, con Fucine, davanti a Jadelin Mabiala Gangbo, rivelazione letteraria 2003 della Feltrinelli, con il romanzo Rometta e Giulieo. Qual è la tua impressione sulla prima edizione di Sguardo Meticcio a Monfalcone?

Jadelin Mabiala Gangbo (JMG): Ci tengo a ribadire l’utilità dell’evento come mezzo di confronto con gli altri, tuttavia auspico sempre — come mi è capitato di dire anche per altre iniziative — che il fenomeno della letteratura migrante, con l’aumento degli autori, possa essere a tal punto assorbito dagli altri generi narrativi da non doversi più rendere indispensabile il ricorso a simili iniziative per sensibilizzare la gente.
Naturalmente eventi di questo tipo sono importantissimi perché stimolano le persone ad aprire gli occhi non solo su di un determinato tipo di letteratura — quella migrante — ma anche su quelli che sono alcuni aspetti dell’attuale vita collettiva. Si evidenziano così le altre forme di espressione: quelle del vissuto quotidiano di coloro che non sono solo stranieri, o migranti, ma sono invece fautori dell’espressione intesa come ricerca e modo di vita.

TC: Qual è la tua esperienza di scrittore migrante?

JMG: Io sono un ibrido, perché ho vissuto in Italia fin dall’età di quattro anni senza essere mai realmente italiano, a causa dei tratti somatici o della mia pelle. Negli anni dell’infanzia ero l’unico ragazzino di colore della classe ed ero naturalmente considerato“straniero”; lo stesso però accadeva in Africa, dove venivo invece considerato “italiano”. Mi sono spesso sentito come un osservatore alla ricerca di un’identità e credo che questa condizione si sia riversata in toto nella mia scrittura, costellata di metafore e linguaggi contaminati. Non è un caso che i personaggi delle mie storie non abbiano un’identità precisa e, in ultima analisi, forse non l’avranno mai.

TC: La nostra cultura nasce anche dall’ambiente in cui viviamo. Tu provieni dal Congo, Brazzaville, però sei venuto in Italia da bambino: che tracce rimangono, nella tua scrittura, della cultura africana?

JMG: Qualcosa ho certamente assimilato. Credo che nel nostro DNA non vengano tramandati solo i dati fisici, ma anche quelli culturali, quindi è inevitabile che in me ci siano tratti della scrittura africana. Io l’ho notato trasversalmente, nel senso che gli altri me lo hanno fatto notare per primi: ho cominciato, allora, a leggere i libri degli scrittori africani — che prima non avevo mai scorso — e ho notato che alcuni passaggi dei miei testi corrispondevano ai loro modi di rielaborare certe soluzioni narrative; oppure c’erano analogie sull’uso delle metafore o su certi tipi di descrizioni…

TC: E per quanto riguarda il contesto magico?

JMG: Sì, anche e specialmente quello: nel mio primo romanzo questa tipologia di contesto emerge moltissimo e pregna, ad ogni modo, tutte le storie che scrivo.
La magia e l’idea di un’identità suprema che sovrasta i fili narrativi ci sono sempre e, a volte, ciò quasi mi infastidisce, perché mi pare di essere incapace di scrivere della realtà più bieca.
Proprio in questo periodo sto cercando di condurre un esperimento con me stesso: riuscire a tratteggiare un viaggio quotidiano con la mia penna; non un sogno o una realtà onirica, come mi è capitato fino ad adesso: vorrei riuscire a scrivere un romanzo che parla di persone che fanno cose reali, quotidiane appunto. Però mi rendo conto che spessissimo prevale questa mia tendenza a prendere le ali e lasciarmi trasportare dalla fantasia.

Immagine articolo Fucine MuteTC: Come ti è accaduto con Rometta e Giulieo? Pare che in questo caso la “fuga fantastica” ti abbia portato in realtà molto successo, visto che sei stato la rivelazione letteraria 2003 della Feltrinelli: come è nato questo libro?

JMG: A quel tempo stavo con una ragazza ma non riuscivamo mai ad incontrarci per via degli impegni di entrambi: quella situazione è stata l’imput “primordiale”. Poi, è maturata, invece, l’idea di scrivere un qualcosa in cui i ruoli fossero capovolti o stravolti: all’inizio Rometta e Giulieo doveva essere una storia di gay o di lesbiche, sì, insomma, un qualcosa di decisamente diverso rispetto alla celeberrima tragedia. Era mio intento partire da Shakespeare per arrivare ad una conversione paradossale.
Ho iniziato allora ad annotare qualche idea, soprattutto stimolato dalla possibilità di poter intervenire nel mio romanzo: se nel famoso dramma shakespeariano chi ostacola l’amore di Romeo e Giulietta era la famiglia, nel mio, ad ostacolare l’amore di Rometta e Giulieo doveva essere l’autore. E, in verità, io non vedevo l’ora di scrivere per “disturbare” i miei personaggi.
Così si è sviluppato tutto il progetto: in definitiva è stato più quest’ultimo aspetto a catalizzare la mia attenzione piuttosto che lo scrivere di una storia d’amore o di una parodia, anche se ci tengo a precisare che la mia non è affatto partita come una parodia

TC: Parliamo di linguaggio: in Rometta e Giulieo c’è una forte contaminazione linguistica, i critici parlano di pastiche

JMG: Sì, c’è la frase aulica immediatamente seguita da una descrizione iper-moderna e da una commistione, appunto, di termini che provengono da più strati sociali e culturali.
In tutto ciò, però, esiste una logica: c’è un parlare, quello aulico, che è proprio dei personaggi del romanzo che lo scrittore sta scrivendo e poi c’è quello contemporaneo che entra con prepotenza nel tessuto narrativo.

TC: Puoi spiegarmi invece come è nata la copertina del libro? Si tratta di una tua idea? Perché questo primo piano dei piedi sul davanzale della finestra?

JMG: Semplicissimo: innanzitutto l’icona del romanzo di Shakespeare è il balcone, quindi la finestra richiama proprio quest’idea perché anch’essa si sporge verso l’esterno.
In secondo luogo perché lo scrittore ha con la sua casa un rapporto particolare: lui non esce mai, scrive alla finestra e guarda il mondo dall’alto, come un dio. Lui osserva, crea, e la finestra è il suo palco.
I piedi rappresentano la pulsione a spiccare un passo verso l’esterno, spingersi oltre il varco della finestra, in un’altra dimensione.

TC: All’inizio mi hai detto che la tua esperienza di migrante ha influito sul tuo modo di scrivere, come ha condizionato i personaggi di Rometta e Giulieo?

JMG: Con l’assenza di un’identità precisa nei personaggi o con la sua modifica nel corso della storia; più in generale, con una commistione e ciò a partire dal gioco di parole che dà il nome ai protagonisti, ma anche dal fatto che Giulieo è un cinese, oppure dalla circostanza che, se nella trama c’è un gatto, questo è storpio, cioè imperfetto.
La scrittura migrante deriva dalla mia vita: io scrivo così perché sono nato così. Se fossi rimasto in Africa, probabilmente scriverei in maniera diversa.
Il mio orgoglio da un lato non vorrebbe che i miei testi rientrassero in questa sorta di “ghetto” della letteratura di migrazione, però è inevitabile.

TC: La mancanza dell’identità nei tuoi personaggi dipende dal fatto che tu stesso senti mancare un “pezzo” della tua esistenza?

JMG: Sì, e forse mancherà sempre. Io sono cresciuto senza i genitori al mio fianco e per molti stranieri che vengono in Italia è lo stesso, a meno che non arrivino qui da adulti. I genitori alimentano la cultura originaria: la spiegano ai bambini e così la tramandano; a me è mancato anche quest’aspetto, per cui è come se mi mancasse un piedistallo.
Da questo punto di vista è importante il rapporto che si instaura, in queste manifestazioni, con gli altri scrittori migranti: in questo modo riesco a reperire uno strumento in più per la ricerca di una mia identità.

TC: Credi che almeno i tuoi personaggi avranno un’identità, prima o poi?

JMG: Quando la troverò io, sì.

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