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Scrittura

Antonia Arslan

Hayrenik, la patria che non c’è più

Immagine articolo Fucine MuteNel mese di aprile di quest’anno è stato pubblicato La Masseria delle allodole il primo romanzo di una docente di letteratura italiana dell’università di Padova, Antonia Arslan. Il suo nome, prima conosciuto solo da studiosi o dai pochi armeni che risiedono in Italia, è rapidamente apparso, prima nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello 2004 (che non si è aggiudicata per due voti) e poi sugli scaffali delle librerie di mezzo milione di italiani che hanno fatto sì che il suo libro diventasse un best seller. Abbiamo incontrato la scrittrice che ci ha parlato di sé e del suo popolo travolto dalla storia.

Il canto del pane: Daniel Varujan

Io ho sempre scritto, e ad un certo punto della mia vita, la parte armena di me, che naturalmente era molto chiusa, ghettizzata, dimenticata, poiché la mia educazione era totalmente italiana e mio padre mi parlava solo in italiano, ha cominciato a farsi sentire come senso di una mancanza, come nostalgia per i racconti che sentivo da bambina. Quando hai una parte di te, che in questo caso è di matrice orientale, ma non hai fatto scuole in questa lingua, non hai letto gli autori di quella cultura, evidentemente provi la sensazione di possedere qualcosa di misterioso che dovresti conoscere. Naturalmente apprendi qualche informazione a partire da una serie di dettagli apparentemente secondari, per esempio dai cugini che vengono a trovarti dalla Siria, dall’Egitto o dal Libano, dal fratello del nonno che vive a Boston e ti fa pensare che i tuoi compagni di classe hanno i parenti che abitano ad un paese di distanza e invece i tuoi arrivano da parti del mondo che nemmeno conosci. Oppure, ancora, la zia che minaccia di fuggire da un suo cugino che sta a Beirut se si è cattivi con lei e poi questo zio compare, ti fa assaggiare cibi strani e ti racconta le storie del paese perduto. Queste sono le sensazioni che si sono depositate nella mia mente e nel mio cuore quando ero ancora bambina, dopo, inevitabilmente, ci ho messo sopra tutta la cultura, gli studi, la laurea, la vita che ho fatto. Ad un certo punto per una fortunata serie di circostanze, mi chiedono di partecipare ad un convegno su un poeta, Daniel Varujan, perché, giustamente, il professore di armeno a Venezia mi disse che anch’io ho queste origini. Seguo la conferenza, leggo due delle poesie che lo stesso docente aveva tradotto e rimango travolta dall’incontro. Sapevo del genocidio di cui è stato vittima il mio popolo, però una cosa è sapere, un’altra è sentire in profondità. La lettura delle opere di questo poeta di trent’anni, una delle voci più potenti del novecento, non conosciuto come Garcia Lorca o Erza Pound solo perché appartiene ad una cultura minoritaria, e la sua voce che racconta il canto del pane mi hanno commossa. Quando lui è stato ucciso nell’agosto del 1915 aveva in tasca le poesie che stava scrivendo ed erano tutte gioiose, portatrici di vita. Raccontavano la semina, la crescita del grano, la raccolta, come si faceva il pane. Ma non le aveva finite, perché ne aveva scritte ventinove su trentacinque previste, e al momento dell’arresto aveva in tasca questo quaderno. Quando è stato ucciso e poi hanno buttato via il suo cadavere, lo hanno spogliato, come si fa in quei casi, ma la sua giacca è stata lasciata in un archivio militare turco dove è stata ritrovata da un detective privato cinque anni dopo. Si può dire che i suoi scritti provengono proprio dal regno della morte. Sono riemersi in seguito ad un misterioso susseguirsi di circostanze, per cui invece di buttar via la giacca e sottrarre il contenuto delle tasche è stata semplicemente messa in deposito insieme a tutti gli averi degli altri poveracci che erano stati uccisi. Chiaramente non i beni più importanti, come l’oro, i gioielli, che venivano rubati, ma appunto una semplice giacca di un misero deportato. Allora mi sono appassionata moltissimo a Varujan e tradurlo è stato come rinascere, come capire tutta la realtà della terra d’Anatolia da cui in parte provengo.

Immagine articolo Fucine Mute

Metz Yehern

Quello degli armeni è il primo genocidio del ventesimo secolo, avviene durante la Prima Guerra Mondiale. È stato definito, raccontato ma ancora oggi la consapevolezza del grande pubblico manca. Questo perché, mentre in seguito agli eventi del genocidio ebraico, la Germania sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, ha chiesto scusa, ha pagato le riparazioni e ancora questo tema pesa sulla coscienza dei tedeschi. Dopo il genocidio armeno la Turchia cambiò regime, spodestando dal governo i cosiddetti Giovani Turchi responsabili dei massacri, ma dal 1922, cioè dal Trattato di Losanna, nessuno ne ha più parlato. L’operazione di maquillage messa in atto dall’attuale governo turco ha avuto un risultato assolutamente eccezionale. Perfetto è stato, per chi l’ha concepito, questo genocidio perché oggi in Anatolia non c’è più un armeno, non pochi, nessuno. Anche Hitler nel 1939 ha pronunciato la famosa frase: “Noi possiamo fare quello che vogliamo, chi si ricorda oggi lo sterminio degli armeni?”. Tra l’altro lo stesso Hitler aveva come collaboratori due o tre di quegli ufficiali tedeschi che durante la Prima Guerra Mondiale avevano aiutato i turchi a organizzare l’uccisone del popolo arneno. Ho usato spesso la parola genocidio non senza un motivo, poiché questo termine è nato nel 1944, non è un termine antico, ma deriva dalla fusione di due parole greche che sono state messe insieme da un giurista Raphael Lemkin che avendo avuto esperienza e informazioni circa lo sterminio degli armeni, individuò subito che quello degli ebrei seguiva la stessa tipologia. La inventò e la rese accettabile per definire, non un massacro, non una strage, ma l’annientamento di una minoranza compiuto dalla classe dirigente di una nazione, quindi un dittatore, nel caso di Hitler o Stalin, oppure un gruppo, come è accaduto con i giovani turchi che erano in tre: il ministro della guerra Enver Pascià, il ministro degli interni Talaat Pascià e il capo dell’armata di Siria Djemal Pascià.
I giovani turchi, sotto uno slogan sinistro che diceva “La Turchia ai turchi”, avevano programmato di eliminare dall’impero ottomano tutte le minoranze: quelle cristiane, rappresentate dagli armeni, dai greci e dagli assiri, e quelle mussulmane costituite dai curdi. La struttura genocidaria è quella di eliminare popoli diversi da quelli turcomanni, quindi tutti i popoli autoctoni di Anatolia, che stavano lì da 2500 anni, come gli armeni che vi arrivano sette o otto secoli prima di Cristo, mentre i turcomanni vi penetrano verso l’undicesimo secolo.

La masseria delle allodole

Il romanzo è la storia di una famiglia, la mia, quindi all’interno del quadro storico che ho descritto si inseriscono i particolari di questo gruppo di persone. L’ho scritto tutto d’un fiato, senza esitazioni, perché evidentemente era depositato dentro di me, e mi sentivo piena di gioia mentre lo facevo. Ci sono molti aneddoti. Parlo dei due fratelli, Yervant, che è mio nonno e risiedeva in Italia, e Sempad che viveva in un paese dell’Anatolia, e ad un certo punto a proposito del primo dico che compra una Isotta Fraschini rossa. Quando il libro è stato accettato dalla Rizzoli mi chiedono se sono sicura che questa macchina esistesse davvero. Rispondo che l’ho scritto, ma non sono certa. Allora siamo ricorsi al Museo dell’automobile di Torino, dove una signora molto gentile ha controllato e ci ha detto che l’Isotta Fraschini nel 1915 esiste, perché si comincia a fabbricare nel 1914 del colore che l’acquirente desidera poiché si fa a mano. Invece un’altra macchina, una Lambda d’argento che avevo inserito più avanti non era corretta perché questa vettura si inizia a produrre nel 1922, quindi stavo per compiere un falso storico. Mentre i due fratelli si preparano per incontrarsi e Yervant prepara la macchina, Sempad restaura la sua casa, che è la Masseria delle Allodole ed è la magione antica di famiglia sulle colline, dove ci sono le cascate e una vegetazione rigogliosa, con delle albicocche speciali. I due fratelli si sentono soddisfatti, si rilassano. Hanno avuto entrambi un certo successo professionale, uno è farmacista, l’altro è medico e si vogliono ritrovare. Mentre loro si preparano e sognano, la grande storia incombe. Nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale, nel novembre dello stesso anno la Turchia scende in campo a fianco della Germania, nel gennaio del 1915 i preparativi del genocidio armeno cominciano. I progetti erano già pronti e la guerra offre la copertura adatta per attuarli, proprio come avverrà per la Shoà. Il 24 aprile del 1915 il genocidio (Metz Yeghèrn) ha inizio con una retata che decapita la popolazione armena dei suoi capi. Tutte le persone importanti che vivevano nella capitale vengono deportate, tra cui Daniel Varujan di cui ho parlato prima. Il 24 maggio del 1915 entra in guerra l’Italia, quindi le frontiere si chiudono, ed è così che i due fratelli non si rivedranno più. Il primo, Yervant, per tutta la vita vivrà con la sofferenza per ciò che è successo a Sempad che viene ucciso nella Masseria delle allodole, evento che ho descritto in una scena piuttosto tragica che chiude la prima parte del libro. Nella seconda parte ci sono le donne, perché ciò che distingue il genocidio armeno è dato dal fatto che gli uomini vengono tutti uccisi immediatamente, mentre donne, bambini e vecchi vengono deportati secondo un calendario preciso e dettagliato che ha inizio con il mese di maggio. Tutte le date ora si incastrano: il 24 aprile c’è la retata a Costantinopoli, a inizio maggio prendono il via le deportazioni partendo dall’est e interessando tutte le comunità dell’Anatolia. Immagine articolo Fucine MuteGli armeni erano circa due milioni, ne sono stati uccisi circa un milione e mezzo. Le donne, a questo punto, devono farsi carico di tutto, devono inventarsi una sopravvivenza. È difficilissimo, però. Accade che in una famiglia di cinquanta persone si salvi appena un bambino, mentre i vecchi muoiono tutti lungo la strada, che tra l’altro è percorsa da bande di predoni che gli portano via tutto ciò che possiedono. Le ragazze spesso vengono rapite, molte sono state uccise dopo essere state violentate, quindi le carovane di deportati arrivano decimate ad Aleppo. Questa città oggi è in Siria, allora anche questo stato apparteneva all’impero ottomano, ma era abitata da arabi, non più da turchi, quindi la presa del governo era meno forte e gli armeni che risiedevano lì non venivano toccati. Ho raccontato a questo punto la storia di come Zareh, lo zio che vive ad Aleppo, riesce a salvare i pochi sopravissuti della famiglia di Sempad. Ci sono poi tre personaggi a cui sono molto legata, sono i tre miserabili che si attivano per aiutare Zareh: uno è un mendicante turco che si chiama Nazim, e che pur avendo tradito all’inizio la famiglia, capisce che cacciare tutti gli armeni non porta a nessun miglioramento del paese anzi, è un modo per togliere una parte della sua storia, poi c’è una lamentatrice greca che si chiama Ismene, ed un prete greco Isacco. Questa scalcagnata compagnia segue i deportati e poi riuscirà a organizzare la fuga dei bambini e della moglie di Sempad dal campo. Molte volte mi chiedono se, siccome ho scritto un libro sul romanzo popolare, questo modo rocambolesco in cui i bambini fuggono nascosti nel doppio fondo di una carrozza sia vero o inventato. Invece è proprio storico, l’ho sempre sentito raccontare così come l’ho descritto. Dopo aver vissuto per un anno in una cantina di Aleppo dove lo zio li nasconde, verranno imbarcati per l’Italia dove Yervant si prenderà cura di loro. Devo dire, poi che queste donne sono sopravvissute anche perché erano tutte alfabetizzate, non esisteva l’analfabetismo femminile nel 1910-15. Molte di loro avevano frequentato la scuola superiore, alcune erano perfino giornaliste o scrittrici, ma anche nelle più lontane campagne di Anatolia, almeno la scuola elementare l’avevano fatta.

Domanda (D): Che ruolo ha avuto la tematica religiosa, ancor’oggi così attuale, nello sterminio degli armeni?

Antonia Arslan (AA): Questa è una cosa importante. Se mi si chiede se il genocidio è nato per cause religiose, dico di no, poiché è stato scatenato da motivi etnici, tanto è vero che ormai oggi il gruppo dominante in Turchia è di etnia turcomanna. A questo gruppo, oltre ai turchi, appartengono anche gli Azeri, i Kazichi, così l’Armenia attuale è schiacciata da questi popoli da tutti i lati. A questa domanda rispondo così. Faccio notare, però, che le minoranze religiose erano quattro, tre cristiane ed una mussulmana, quella dei curdi, sui quali, dagli anni Trenta in poi si è esercitata una pressione molto grave, sia per quanto riguarda la loro eliminazione fisica, però sono tanti quindi non è facile estinguerli tutti, sia per l’annientamento della loro cultura. Sono stati turchizzati, sono stati chiamati turchi della montagna, non possono usare i nomi curdi, è vietato usare la loro lingua, sono banditi i loro riti peculiari. Tuttavia, per facilitare la realizzazione del genocidio entra in campo una manipolazione della gente comune su base religiosa. I capi che lo hanno deciso non erano nemmeno più mussulmani, erano atei. Avevano studiato nelle accademie militari occidentali ed erano progressisti, perché agognavano uno svecchiamento della Turchia. Individuarono questo sviluppo nell’eliminazione delle minoranze. È una visione orribile, ed è la stessa che poi avrebbe avuto Hitler. Spesso quando ci sono delle difficoltà in una nazione si tende a scaricare le colpe su un capo espiatorio. Nel caso specifico, per eliminare gli armeni e qualche anno dopo i greci che sono stati letteralmente cacciati a mare, è stato chiamato a raccolta un po’ di rancore verso queste minoranze più progredite e si è scatenata una jihad. Sapete però quale percentuale di cristiani c’era nella Turchia del 1915? Circa il 23%. Sapete quanti ce ne sono adesso? Lo 0,03%, neanche l’1%.

D: Ci sono state delle condanne, al termine della guerra?

AA: Benché la Prima Guerra Mondiale sia finita con la sconfitta degli organizzatori del genocidio, come la Seconda, in Turchia, firmata la pace, i capi sono scappati. Talaat Pascià è stato ucciso a Berlino da un armeno che aveva perduto tutta la sua famiglia in modo orrendo. L’uomo lo ha freddato, è stato istituito un processo, il famoso processo Solomon Tellirian, e la corte d’assise tedesca, organo giudiziario di un paese che era stato alleatolo, lo ha assolto riconoscendo la legittima provocazione. Un altro, Enver, è stato eliminato in un misterioso scontro a fuoco nel 1922-23 in una zona dell’Asia centrale, altri sono stati uccisi in vario modo, e il governo turco attuale non ha niente a che fare con il governo di allora. Eppure, per un orgoglio nazionale spaventoso, ancora oggi nega che sia successo il genocidio. Un intellettuale ebreo, Finkelkraut, ha detto: “Se a noi ebrei fosse stato fatto ciò che è accaduto agli armeni e ancora si negasse ciò che noi stessi abbiamo visto, saremmo tutti pazzi”. Oltre al fatto che sia avvenuta la tragedia anche la sua rimozione è qualcosa di incredibile. Questo ha portato molti armeni dei paesi delle grandi diaspore, come la Francia e gli Stati Uniti, per un’intera generazione a non parlare, a tenere nascosto, a mimetizzarsi, a volte a cambiare il nome, a non parlare la propria lingua. La battaglia è stata ripresa in mano dalla seconda generazione, quella che non aveva le memorie sul proprio corpo, ma possedeva i racconti famigliari.

Immagine articolo Fucine Mute

Michela Cristofoli (MC): Nel 1997 il Parlamento Europeo ha riconosciuto, molto prima di altri stati della comunità internazionale come l’Italia che lo farà solo nel 2000 oppure gli Usa che non l’hanno ancora fatto, il genocidio armeno. Oggi che la Turchia ha chiesto di entrare in Europa, cosa ne pensa la comunità armena?

AA: Tutti noi ci chiediamo come l’Europa stia gestendo le trattative per l’ingresso della Turchia nell’Unione. Prescindendo dalla questione armena, noi ci mettiamo in casa 70milioni di persone in rapida crescita, che diventeranno la nazione più forte. La storia degli armeni è un po’ una cartina di tornasole. L’Unione europea sta gestendo la questione in un modo, a mio parere, squilibrato, perché da un lato si pubblicano articoli sui progressi della Turchia nel campo dei diritti civili e in merito all’abolizione della pena di morte, dall’altro non si accorge che tutti quelli che dovevano morire arrivano lo stesso cadaveri in un modo o nell’altro. Vi racconto a questo punto la storia dell’articolo 503. Poco tempo fa la Turchia stava decidendo di ripristinare il reato di adulterio nel suo Codice Penale. I paesi dell’Unione si sono mossi con manifestazioni e appelli tanto che il governo turco ha ritirato questo articolo. Tutti gli europei sono stati contenti e soddisfatti. Nel frattempo, mentre veniva ritirato il provvedimento sull’adulterio, veniva approvato l’articolo 503 che recita così: “Chiunque sostenga che il cosiddetto genocidio armeno sia esistito o affermi che la Turchia deve ritirarsi da Cipro, è passibile di prigione fino a dieci anni, se poi queste tesi vengono sostenute attraverso i mass-media, la pena è aumentata di un terzo”. Se non è un reato di opinione questo, non so cosa sia. Io, poi, sono convinta che questi episodi, sia il genocidio degli armeni che la cacciata dei greci, fermentano nella coscienza nazionale turca, perché loro sanno che hanno una frattura nel loro passato, sanno di non sapere. Pensate che un turco che insegna in Minnesota mi ha detto che nemmeno noi ci rendiamo conto di quanto siano stati mutilati della loro storia. Secondo lui molti possono avere una nonna armena e non saperlo, infatti c’erano molte unioni miste. Se un turco, come è capitato a questo docente, trova in un baule una lettera di un avo, siccome con la rivoluzione kemalista e con la nuova repubblica turca è stato cambiato l’alfabeto, che non è più arabo ma latino, così come tutte le parole, dato che sono state eliminate tutte quelle d’origine persiana, è impossibile capire cosa c’è scritto. Questo professore ha dovuto rivolgersi ad un docente di ottomano antico dell’Università di Ankara per farsi tradurre le lettere scritte da suo nonno.

È di questo che dovremmo riappropriarci, del passato. Il convegno che c’è stato tra il 28 e il 30 di ottobre alla Fondazione Cini di Venezia ha visto proprio turchi e armeni insieme a discutere ad esempio dei tabù, come il fatto che la parola “armeno” sia stata rimossa. È tutto fluido. L’Unione Europea dovrebbe capire questa liquidità e cercare di usarla per il meglio, anche per il bene degli europei in un certo senso.

MC: Nel romanzo le storie di molti personaggi terminano con i punti di sospensione. Spesso lei utilizza l’espressione “ma questa è un’altra storia…”. Quale sarà allora il prossimo episodio di cui vorrà scrivere?

AA: Vi anticipo che, anche se in questi giorni ho abbastanza impegni e non sto continuando, quest’estate ho scritto le prime cinquanta pagine di un nuovo libro.

D: Ma com’è cominciato?

AA: È cominciato con Ismene e Isacco che sono sulla riva del mare, vedono la nave con i bambini che si allontana alla volta dell’Italia, non hanno più niente da fare e a questo punto eccetera, eccetera.

MC: Com’è stato per lei riscoprire la sua identità armena, quindi anche la lingua che prima ci diceva non essere praticata in famiglia, sia durante la sua infanzia, di cui abbiamo notizia attraverso i racconti che lei ha pubblicato su alcune riviste, ma anche soprattutto dopo l’uscita di questo romanzo che ha riscosso notevole successo.

AA: È stato come ritrovare una parte di me che era atrofizzata e che ha riequilibrato anche l’altra. In un certo modo è come una ricchezza che non sapevo di avere e che ho scoperto. Quindi in questo si può inserire lo studio della lingua, il fatto di sentire le varie sfumature di una parola. Insomma ogni idioma che tu capisci in più è un arricchimento, poi seguono la cultura, le cose, il cibo, le persone, quella familiarità, il sentirsi a casa propria.

MC: Recentemente è stato presentato al Festival di Cannes un film di un autore canadese di origine armena, Ararat di Atom Egoyan, in cui uno dei personaggi principali, un regista interpretato da Charles Aznavour, ad un certo punto parlando con un attore turco della ferita che è stata inferta al popolo armeno dice: “La cosa che ci fa più male è quella di pensare che qualcuno possa averci odiato tanto e che soprattutto ora manifesti ancor di più questo sentimento negando ciò che è successo e cancellando perfino le impronte che testimoniano la presenza armena in Anatolia”. Lei ha potuto vedere queste tracce, vorrebbe tornare laggiù?

Immagine articolo Fucine MuteAA: No, io non voglio tornare in Anatolia, non voglio vedere la distruzione totale che è avvenuta delle memorie e della cultura. Non voglio essere testimone di quello che alcuni studiosi armeno-americani hanno chiamato il white genocide, il genocidio bianco per cui le chiese sono diventate cave di pietra, stalle o qualche volta, le più fortunate sono state trasformate in moschee. Di vedere questo, non ne ho voglia. Mi basta essere andata nell’attuale repubblica d’Armenia, dove ci sono delle bellissime testimonianze e monumenti che mi hanno fatto capire qual’era la grande arte e l’architettura armena.

MC: Un aspetto molto toccante del romanzo è dato dal fatto che entrambi i capitoli dedicati allo zio Sempad e a sua moglie Shushanig siano in realtà dominati dalla figura di suo nonno Yerwant. Com’è stato il suo rapporto con questa figura così carismatica?

AA: È stato fortissimo, perché mio nonno era autoritario ma assolutamente imprevedibile, quindi l’ideale per un bambino, che ha bisogno di regole ma vuole anche qualcosa di inaspettato. Scrivendo tutti i suoi ricordi mi sono tornati in mente.

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