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Musica

Sitting in an English garden (IV)

The Beatles: forme espressive del linguaggio Pop

3  –  L’elemento musicale: formula della comunicazione Pop

Sin da quando cominciarono a scrivere materiale proprio, puntando sul contributo delle proprie sensibilità personali, i Beatles produssero una musica che, pur affondando le radici nel passato, apparteneva completamente al presente, era rappresentativa del periodo in cui vivevano: più di ogni altro songwriter, e alla pari di musicisti quali George Gershwin o Cole Porter nel periodo precedente il secondo conflitto mondiale, catturarono lo spirito e il ritmo di quei tempi, convogliarono lo stato d’animo della loro generazione in una materia musicale che emanava luminosità e seduzione.

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Una musica influenzata dai precursori, eppure assolutamente unica e rivoluzionaria sin dalle origini, e per di più destinata a divenire “classica”, ovvero degna di studio e analisi, nonché elevata a modello dai musicisti contemporanei e delle successive generazioni.
Per tutta la durata del decennio, chi faceva musica non poteva evitare di confrontarsi con loro e di aderire, indirettamente o meno, alla formula magica scoperta e costantemente corretta o aggiornata dai quattro di Liverpool.
Una formula talmente ricca di ingredienti da poter essere usata anche  solo parzialmente; i Procol Harum, ad esempio, presero dai Beatles il senso della melodia, il gusto per le orchestrazioni, un modo di arrangiare che non disdegnava la presenza di elementi di chiara matrice classica, dal sapore barocco, ad accompagnare testi a volte leggermente surreali (A whiter shade of pale)[1].

Prendendo spunto dalla metamorfosi stilistica dei Beatles di metà decennio, i londinesi Kinks passarono da un pop affilato ed asciutto, eminentemente “britannico” (You really got me), a composizioni meno aggressive che, attingendo dal cabaret e dal music hall, disegnavano felici quadretti di piccola vita quotidiana nell’Inghilterra middle-class (Dedicated fellowers of fashion e Sunny afternoon)[2].

Anche negli Stati Uniti, dopo l’ondata causata dalla “British invasion”, molti musicisti rimasero stregati dal fascino della loro musica, basti pensare a Roger McGuinn e Brian Wilson: il primo, leader dei Byrds, la risposta di Los Angeles ai Beatles, rimase talmente colpito dalle soluzioni armoniche della chitarra a dodici corde di Harrison da decidere di farne il tratto distintivo del suono-Byrds; il secondo, egocentrico compositore ed arrangiatore dei Beach boys, ingaggiò tra il 1965 ed il 1967 un vero e proprio duello artistico con Paul McCartney: i quali, influenzandosi reciprocamente, composero brani in cui i testi, per nulla superficiali, venivano ampiamente valorizzati da superbe soluzioni negli arrangiamenti, da complesse e curate armonie vocali e da una strumentazione sofisticata (God only knowsFixing a hole)[3]; i due diedero fra l’altro l’importante dimostrazione che il bassista (lo erano entrambi nei rispettivi gruppi) non era obbligato ad eseguire la nota fondamentale di un accordo, ma poteva altresì tesservi attorno una sua melodia, autonoma rispetto al ritmo imposto dalla batteria, ma anche alla trama melodica fornita dalla chitarra ritmica.

Neppure i loro presunti rivali, i Rolling Stones, poterono dichiararsi esenti da qualsiasi influenza; soprattutto agli inizi, quando l’avvento dei Fab Four nello show business provocò “uno spostamento d’aria così forte da  scaraventarli improvvisamente al centro della scena musicale”[4].
I Beatles furono tutto sommato anche un modello di organizzazione sociale: per comporre la loro musica non avevano bisogno di altri (il produttore George Martin rientrava di diritto nel combo), mentre i primi turnisti sarebbero entrati in sala d’incisione soltanto dalla seconda metà del decennio; l’immagine visiva e sonora del gruppo, una solidarietà ben rappresentata dall’alternarsi al microfono o dal condividerlo, conquistava il pubblico di adolescenti alla pari del modo giocoso e spregiudicato con cui parlavano di sentimenti nei testi.
La loro affermazione segnò pure una svolta nella produzione e nella distribuzione musicale, accelerando fra l’altro una trasformazione  irreversibile dell’industria culturale e dei sistemi mediatici; non interpreti raffinati di canzoni altrui, ma autori delle proprie canzoni, con un look ed un sound inconfondibili, una storia, una personalità e un’evoluzione proprie, i Beatles divennero un veicolo perfetto per la multinazionalizzazione della discografia: Sgt.Pepper’s lonely hearts club band, una raccolta di canzoni nuove e uguale in tutti i suoi aspetti (dalla copertina alla successione delle canzoni) in tutto il mondo, uscì ovunque nella stessa settimana di giugno nel 1967[5].

Sgt.Pepper’s lonely hearts club band

Eppure questo fu l’importante risultato di un processo graduale: da quando fu introdotto nel 1948 fino al 1963, l’Lp (long-playing a 33 giri)[6] di musica leggera rimase come raccolta di successi, tutti, o quasi, già editi in altro formato: i Beatles degli esordi aderivano solo parzialmente a questa prassi, dato che raramente introducevano nella sintassi del disco brani preesistenti, nell’intento di articolare un discorso più ampio e di dare un senso alla sequenza e all’aura ideologica del gruppo.
Tra il 1963 ed il 1966 poi, il rapporto fra singolo e album si invertiva definitivamente: l’Lp diveniva il vero “prodotto”, o comunque l’occasione per lanciare nuove canzoni, al quale poteva far seguito l’edizione di uno o più singoli tratti dallo stesso (come Eleanor Rigby/Yellow submarine, ma solo dopo l’uscita di Revolver, che già li conteneva): uno schema rimasto inalterato fino ad oggi.


3.1  –  Un nuovo sound dallo stile inclusivo

La musica dei Beatles nasceva da uno straordinario cortocircuito tra esperienze musicali apparentemente lontane, andando poi a percorrere l’intero spettro della musica del Novecento: per questo si può definire “inclusivo” il loro sound.
Da un lato il rock’n’roll americano degli anni cinquanta, depurato degli aspetti ed elementi più vicini alla musica negro-americana (che saranno invece un tratto distintivo dei Rolling Stones), dove però il ritmo fungeva non tanto da elemento sensuale e trasgressivo, quanto da tessuto connettivo o sfondo caratterizzante ed omogeneo che non escludeva possibili contaminazioni con esperienze musicali diverse, quali ad esempio la marcia militare o la musica indiana; dall’altro gli echi di una musica popolare inglese[7] e, forse più precisamente, di area celtica[8], le cui tracce si trovano anche nella musica classica britannica, dai madrigalisti di epoca elisabettiana al periodo barocco (Henry Purcell[9]).

Evidente nei sofisticati cromatismi di Yesterday e Michelle [10] una certa parentela con le progressioni armoniche ed i contrappunti della musica barocca: il vero punto di forza del gruppo era l’armonia, più complessa rispetto al rigore pedante del rock’n’roll più ortodosso, basato sui classici ed elementari “giri su tre accordi”; ne è un esempio It won’t be long [11], brano di apertura del loro secondo album With the Beatles, in cui certi accordi, fa notare Mark Hertsgaard[12] “non avrebbero dovuto esserci, stando alla teoria musicale tradizionale”, o sarebbe meglio dire, agli standard rock’n’roll dell’epoca[13].
Ci fu in un certo qual senso un inconscio recupero, seppur pilotato dall’esperienza accademica di George Martin, di una componente essenzialmente britannica, di quell’armonia caratteristica di canzoni dagli accordi puliti, semplici (almeno fino agli album Rubber soul [14] e Revolver [15]), organizzati però in modo raramente  banale o scontato, capace comunque di conquistare immediatamente l’orecchio e di dare una straordinaria impressione di novità e soprattutto di freschezza.

3.1.1  —  A tale of two cities

Ancor prima di stabilirsi definitivamente a Londra nel 1963, I Beatles erano già dotati di quelle qualità uniche che avrebbero permesso loro di imporsi nell’ambiente musicale della capitale inglese; doti naturali che ogni singolo membro del gruppo possedeva, ma che si fusero in qualcosa di veramente grandioso grazie agli anni di apprendistato nella natia Liverpool e ad Amburgo.

 I Beatles erano nati e cresciuti a Liverpool, un porto battuto da numerosi venti sonori; lo stesso skiffle [16], reso famoso da Lonnie Donegan e suonato dagli ancora acerbi Quarry Men[17], si presentava come un ibrido di folk nero, country and western e jazz tradizionale inglese eseguito da dilettanti con strumenti rudimentali.
Furono dunque svezzati da musiche diverse, dall’aggressivo e sensuale rock’n’roll di Chuck Berry, Little Richard ed Elvis Presley in primis, cui riuscirono a combinare altre forme musicali (sempre in arrivo dagli Stati Uniti), dalla gamma armonica dei gruppi vocali degli anni cinquanta (Everly brothers, Platters e Dell-Vikings) alla vitalità sgargiante delle band di rockabilly (The Crickets): la formula concepita a Liverpool dai Beatles conteneva e allo stesso tempo miscelava le forme dello stesso rock’n’roll, con una varietà, una inventiva degna dei più raffinati compositori della Tin Pall Alley, e una spregiudicatezza mai godute prima: insomma, la loro “esplosione pop” nel 1963, fa notare Giacomo Pellicciotti, fu quella di “un gruppo di rock’n’roll che sapeva combinare gli elementi di una musica che prima tutti erano abituati a sentire a pezzi separati”[18].

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Dunque Liverpool come luogo ideale di concentrazione e rielaborazione degli input forniti dagli Stati Uniti: i passeggeri dei transatlantici provenienti da New York di tanto in tanto portavano con se dischi e si lasciavano sfuggire qualche nome, che veniva raccolto avidamente dai giovani musicisti e poi ripetuto all’infinito nei fumosi club della città, quasi lo si volesse esorcizzare.
Ma la formula, sintetizzata in una miscela aspra e melodica di chitarre sferzanti, fragorose percussioni e voci urlate (abilmente controbilanciate da ballate romantiche), venne ampiamente “testata” durante le varie trasferte ad Amburgo, città cosmopolita e libertaria che più di ogni altra li fece diventare veri professionisti dello spettacolo: la loro ecletticità sul palcoscenico consentì l’accesso ad un maggior numero di locali, e la competizione con le altre band li indusse a scrivere le proprie canzoni[19], le uniche cioè che i gruppi concorrenti non avrebbero potuto interpretare.
Le interminabili notti passate a suonare nei locali della città portuale tedesca si rivelarono determinanti, perché contribuirono a forgiare un elemento di unità, comune e caratterizzante una materia musicale di per sé variegata: quella luminosità presente in tutti i loro brani (comprese le rivisitazioni di canzoni altrui), una sorta di lirico approccio che esaltava, piuttosto che attenuare, il potere ritmico dei singoli pezzi.
Un approccio mai abbandonato, nemmeno nelle ultime pagine, sofferte, della loro carriera: Here comes the sun [20] fonda ancora una volta le basi su una ingegnosa miscela di semplicità, luminosità e raffinatezza; pur essendo strutturalmente sofisticato, l’intreccio melodico non scade mai nell’oscurità, anzi, al contrario, comunica un dolce abbandono, avvolge le gioie universali evocate dai versi di Harrison (il calore del sole, l’arrivo della primavera, il sorriso di un volto umano) e le trasforma in un inno all’innocenza e al conforto dei sensi.

Più di ogni altra cosa agli inizi, era lo stile vocale a rendere la loro musica così coinvolgente e sfavillante: John, Paul e George impararono a cantare con grande abilità e trasporto, offrendo stacchi in falsetto e cori su registri diversi (This boy [21] e If I fell [22] ne sono un chiaro esempio), contribuendo a costruire quell’atmosfera allo stesso tempo gioiosa e malinconica che, specie quando veniva marcata dagli ineffabili urletti (gli yeah — yeah o gli ooos testa a testa), comunicava la stessa giovanile urgenza dei testi, immediati e poco articolati, ma genuinamente spontanei prima di tutto[23].

3.1.2  —  Sinfonie moderne in formato Pop

Gli album Rubber soul e Revolver, usciti rispettivamente sul finire del 1965 e nell’estate del 1966, rappresentarono uno spartiacque culturale (dividendo gli anni Sessanta in due distinte metà) e un giro di boa nella carriera artistica del gruppo, veri  rivelatori di una nuova e curiosa anima, di gomma appunto, malleabile e colorata, che li testimoniò convertirsi da gruppo di intrattenimento giovanile a vero e proprio team di ricerca artistica: da questo punto infatti, l’integrità spensierata e affilatissima del primo rock adolescenziale si stempera in affreschi più diluiti ma temerari e, a volte, eclettici fino all’esasperazione; lavori che accumulano diversi e disparati materiali sonori, brandelli di sensazioni e memorie da qualsiasi pianeta musicale esplorato, dalle suggestioni classiche dei quartetti d’archi in Eleanor Rigby ai rumori subliminali di Tomorrow never knows, dall’esotismo comunicato dal Sitar in Norwegian wood alla spensieratezza degli assoli di corno francese in For no one [24].

Eppure, nonostante la varietà musicale sperimentata e manipolata, anche le opere del secondo corso godevano delle stesse caratteristiche (ora chiaramente amplificate) di quelle del primo periodo: senza nulla togliere all’orecchiabilità della melodia, schieravano una quantità impressionante, ma mai sovraccarica, di elementi ornamentali, più livelli di ascolto, una maggiore strutturazione[25] e nuove dimensioni di suoni, spesso inconsueti, come il mélange di archi e sintetizzatore che fa partire in modo così lugubre I am the walrus [26] o lo stridente accordo di chitarra a dodici corde all’inizio di A hard day’s night [27] (che, ripreso ed arpeggiato per la vorticosa dissolvenza di fine brano, avrebbe anticipato certe soluzioni elettroniche del periodo psichedelico).

Ciò che legava insieme tutta la loro produzione e ne rendeva tanto peculiare e riconoscibile il sound era in realtà un approccio per così dire sinfonico al materiale musicale; ruolo fondamentale ebbe in questo il produttore George Martin, che, oltre a dare un giudizio preliminare sulle composizioni e a servire da “cassa di risonanza” per le loro idee (determinante l’esperienza con Peter Sellers e i Goons, che gli lasciò in eredità una particolare abilità nello sfruttare al meglio le pazzie traboccanti dal ribollente calderone beatlesiano), li incoraggiò a strutturare canzoni pop che prendessero a prestito le forme grandiose e le tecniche delle sinfonie, senza però sacrificare l’immediatezza e la semplicità tipiche del rock’n’roll: canzoni come A day in the life, Happiness is a warm gun o You never give me your money [28] (così come alcune future composizioni di McCartney quali Uncle Albert/Admiral Halsey [29]) riuscivano a trasmettere in quattro minuti “il tipo di esperienza musicale e di emozioni che cento anni prima venivano comunicate in un’ora[30].
Sono composizioni tutto sommato ben orchestrate, divise in più tempi: ognuna di queste costituisce un articolato e complesso armonico di elementi vari che sostengono un impegno intellettuale e compositivo contro ogni carattere di “musica da intrattenimento” ravvisabile in gran parte della produzione precedente.
Con Beethoven la sinfonia classica[31] diventava il genere per eccellenza destinato ad essere veicolo di messaggi di vasta portata, come l’appassionato appello alla fratellanza universale (l’Inno alla Gioia di Schiller, che trova in All you need is love [32] una meritevole discendente) a chiusura della sua Nona e ultima Sinfonia: così le comedy songs dei Beatles, articolate in più momenti, ma mai sviluppate e dilatate fino agli eccessi come faranno i futuri musicisti progressive inglesi[33], abbracciano un impegno comunicativo che procede parallelo ad un volontario percorso di ascesa intellettuale (e, soprattutto nel caso di Harrison, spirituale).

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Martin aveva in comune con i Beatles una stessa “mozartiana“ ampiezza di vedute, un desiderio senza pregiudizi di esplorare nuove idee e mezzi espressivi non convenzionali; in più era dotato di un ineccepibile bagaglio classico[34],  parzialmente condiviso da McCartney, e di una singolare competenza nel saper tradurre in suono gli stessi concetti affrontati nei testi delle loro canzoni, anche i più disperati, problematici o visionari; un buon esempio è l’intermezzo strumentale presente su In my life, da lui stesso suonato al pianoforte e raddoppiato poi in velocità  in fase di missaggio, in modo da ottenere un suono simile ad un nostalgico clavicembalo, un effetto barocco che risaltasse il senso di rimpianto per una fanciullezza finita troppo presto presente nel testo della canzone[35].
L’ineguagliabile originalità dei Fab Five (così dovremmo rinominarli almeno in ambito strettamente musicale, data la cruciale importanza della mano di Martin negli studi di registrazione) stava dunque non soltanto nella prima fase del processo creativo, frutto della brillante  intuizione di menti davvero talentuose, ma anche in una seconda fase, nella rielaborazione di quel materiale grezzo; la stesura finale di una traccia infatti dipendeva da come la stessa veniva gestita dai cinque in studio di registrazione: come venivano arrangiati ed elaborati i singoli momenti di un brano; quali strumenti venivano usati e dove, come e quando; come venivano strutturate le melodie e le armonie vocali; quali effetti speciali venivano aggiunti (e, come vedremo, grossolanamente inventati di sana pianta forzando i confini della tecnologia di allora); infine come questo amalgama di suoni veniva trasferito su nastro e mixato sulle copie master che a loro volta davano origine ai dischi.

Ascoltando alcune versioni “spoglie” delle loro canzoni presenti nella collezione The Beatles Anthology [36], ci si rende effettivamente conto di quanto fosse fondamentale la fase di rielaborazione del materiale di base ai fini di convogliare immagini e fotogrammi mentali messi a fuoco dai testi su nastro: in una traccia-tipo come I am the walrus, la profonda e rombante parte orchestrale riproduceva la stessa percezione liquida ed espansa del tempo e dello spazio, quella visione cosmica-surreale presente nel testo di Lennon (cfr. cap. 2.2), sottolineandone l’ampiezza di scala in modo così preciso da far apparire al confronto inconsistente la sola sezione ritmica; una quantità rilevante della produzione dei Beatles, se ascoltata priva delle orchestrazioni o degli accorgimenti studiati in questa seconda fase creativa, dà l’idea di “un attore di talento che recita con i vestiti di tutti i giorni invece che con i costumi di scena; la sostanza della recita è sempre la stessa, ma viene meno parte della magia che quegli abiti riescono a evocare”[37].

3.1.3  –  Avanguardia e casualità

Tomorrow never knows è un palese esempio di opera d’arte moderna racchiusa in poco meno di tre minuti di suono continuo: fonde insieme un numero estremamente elevato di sperimentazioni a tutti i livelli (non ultimo, come si è già visto, a livello testuale), nel tentativo di annullare le distanze da certa musica d’avanguardia colta.
A testimoniare che la musica indiana era entrata fortemente nella loro esistenza, la mancanza di modulazione (visto che la canzone poggia praticamente su un unico accordo).
Poi una vigorosa base ritmica, assoli di chitarra incisi al contrario e la voce eterea di Lennon, filtrata attraverso l’altoparlante oscillante del Leslie dell’Hammond.
Ma il sound del brano trova in realtà la sua forza in un devastante collage di suoni  analogici, alcuni dei quali improvvisati, altri meticolosamente studiati, e in ogni caso  irriproducibili: una cacofonia di strani rumori che “appaiono e scompaiono […] e sembrano materializzarsi dal nulla per poi ripiombare nel vuoto (the void era il titolo originario del brano) da dove erano provenuti”[38], e che si sovrappongono al resto, come i pensieri dissociati dell’inconscio, lasciando un’eco tonante e “vibrazioni rimbombanti, palpitanti, oceaniche[39].

Tutti questi rumori, sedici tape loops [40] che entrano ed escono in continuazione dal mixaggio, furono prodotti con dei pezzi di nastro incisi molte volte fino alla totale saturazione del suono, a dimostrazione che i Beatles erano sempre alla ricerca di nuovi ed insoliti modi di creare suoni, non disdegnando le tecniche del cutup (scomposizione e riassemblaggio) e del collage, già esplorate dalle avanguardie pittoriche (si pensi a Richard Hamilton), e trovando loro una applicazione nell’ambito della musica pop: applicazione che raggiunse il suo apice con Revolution 9 [41], un dramma sonoro composto da frammenti di dialogo, porzioni di musica orchestrale e nastri di varie tipologie, mescolati e sovrapposti l’uno all’altro secondo il metodo del collage; il brano tuttavia rappresenta una eccezione nella produzione dei Beatles (andrebbe piuttosto attribuito al binomio Lennon-Ono, data la palese vicinanza con i dischi sperimentali da loro pubblicati fra il 1968 ed il 1969), ben lontano dal Beat canonico del gruppo.

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La sostanziale differenza con certa musica sperimentale di John Cage o Karl Heinz Stockausen, stava proprio nell’impiego dei nastri: in essa avrebbero rappresentato l’intera opera; mentre sarebbero stati adattati dai Beatles alla forma-canzone, inseriti ad esempio come assolo in luogo di una chitarra, o come tappeto sonoro a sostegno degli strumenti musicali e della voce umana.
E proprio una voce umana, quella di Lennon, sarebbe stata al centro di una importante mutazione: grazie all’invenzione di un congegno chiamato ADT (Artificial Double Tracking), che simulava l’effetto di due suoni separati partendo da un’unica fonte sonora, essa diventava strumento stesso, seducente tanto quanto un assolo di violino e marchio di fabbrica del suo cantato.
Va sottolineato che ogni contaminazione con forme musicali insolite avveniva senza che la loro musica perdesse quella orecchiabilità che l’aveva resa tanto popolare: il felice incontro di convenzionalità e avanguardia è sempre stato il motivo fondamentale dei maggiori risultati creativi del gruppo, anche quando per avanguardia intendiamo la valorizzazione di episodi casuali e incidenti di percorso.
Perché non tutti gli innovativi paesaggi sonori furono frutto di scrupolose indagini: se un articolo letto da un giornale, un poster, frammenti di conversazione, pubblicità televisive o altre piccole realtà tratte dalla vita di tutti i giorni potevano essere fonte di ispirazione per i testi, così i suoni incidentali rientravano di diritto nel repertorio ornamentale della loro arte: così la sveglia che annuncia il ricordo dei giorni di scuola nella parte centrale di A day in the life affidata a Paul, oppure il profondo fremito di feedback di chitarra (una vera e propria fanfara elettronica) che mette in moto I feel fine, e ancora, il tintinnio di una bottiglia di vino provocato dalle profonde vibrazioni dell’organo Hammond alla fine di Long long long [42] o il frammento di una trasmissione dal vivo della BBC del King Lear di Shakespeare[43] casualmente intercettato da Lennon e inserito nella dissolvenza di I am the walrus [44].

I Beatles ricorrevano talvolta al caso anche quando volevano inserire nei dischi dei suoni che non  erano facili da riprodurre in studio; così la carnevalesca miscela sonora che in Being for the benefit of Mr. Kite [45] trasporta l’ascoltatore in un mondo illusorio appartenente al passato, si ottenne tagliando un nastro (sul quale erano stati trasferiti alcuni nastri di archivio contenenti il suono della Calliope[46]) in piccoli frammenti per poi sistemarli in ordine casuale,  creando così una caotica massa di suoni che sottolineavano l’atmosfera da circo in completa aderenza con i versi di Lennon.
Ora sarebbe un compito assai impegnativo e, almeno in questa sede, non irrimediabilmente necessario, dare un elenco di tutte le innovazioni stilistiche o formali introdotte dai Beatles nella musica popolare.
Basti solo pensare alla quantità di nuovi strumenti impiegati, dal sintetizzatore Moog (introdotto in Here comes the sun) al mellotron (esordì in Strawberry fields forever), un apparecchio elettronico capace di imitare sia gli strumenti a fiato che a corda.
O la molteplicità di varianti ritmiche: dal regolare tamburellare sulle ginocchia di Ringo in I’ll follow the sun [47], al tempo in valzer di Norwegian wood [48] tipico di alcune canzoni folk irlandesi; dall’andamento frastagliato e martellante della batteria in Ticket to ride [49], che solleva “una tempesta di energia primaria ed eccitante”[50], al tempo in cinque quarti che accompagna l’assolo in Within you,without you [51].
Per non parlare dell’ormai famosissimo trucco dei nastri al contrario, che divenne caratteristica fondamentale del sound beatlesiano tra il 1966 e il 1967 (Rain e I’m only sleeping [52]).
A tal riguardo basterà ricordare che le stratificazioni sonore nelle loro composizioni erano per la maggior parte frutto di una “creazione” e non tanto di una più semplice “scelta”; anche George Martin era di questa opinione: “Il troppo affidamento sulle macchine e sulla tecnologia ha tolto umanità a molta della musica popolare di oggi. Tutti i suoni che creavamo in quel breve periodo ora li puoi ottenere premendo un bottone. Così la gente sceglie invece di creare, nessuno suona, è soltanto un assemblaggio di informazioni digitali, ed è tutto molto sterile”.[53]

Conta evidenziare ancora una volta, invece, il carattere atemporale della ricerca stilistica, che arrivò ad annullare in un solo “quinquennio geniale” (tra il 1964 ed il 1969) i confini fra classico e rock’n’roll, avanguardia e mainstream; soluzioni tanto contrastanti se prese singolarmente, alcune che guardavano ai futuri anni Settanta (la causticità di Helter skelter [54] o i continui cambi di tempi e tonalità, seguiti dal vorticoso rumore di statica, in I want you, she’s so heavy [55]), altre che ripercorrevano i sentieri battuti dalle bande di paese e dai circhi equestri o che, nell’interesse di approfondire le proprie radici espressive, strizzavano l’occhio alla goodtime music degli anni Venti (Honey pie [56]) o al vecchio music hall inglese (When I’m sixty-four [57]).

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3.2  –  La funzione narrativa della musica

Una canzone pop o rock mette generalmente in gioco due categorie di linguaggio che, in un lasso di tempo ridotto rispetto ad altre forme musicali (come ad esempio la Lirica), possono interagire in infiniti modi: possono assecondarsi, contraddirsi, oppure risultare indifferenti l’una all’altra.
E’ opinione comune tra i critici musicali[58], che i Beatles pensassero alla forma canzone come ad una integrazione di parola e linguaggio musicale in una forma consistente ed efficace, in una configurazione sonora alla quale le parole potessero contribuire senza assumere il ruolo dominante (il che avveniva ad esempio nelle lunghe ballate politico-ideologiche di Bob Dylan); in I am the walrus la funzione del testo non è soltanto narrativa: i versi expert texpert choking smokers, don’t you think the joker laughs at you? [59], ritmicamente modulati (come i versi di apertura) sul suono bitonale della sirena che si sente all’inizio del brano, creano piuttosto una trama sonora giocata tutta sull’assonanza.
Simmetricamente l’elemento musicale aveva una sua funzione narrativa, doveva possedere la peculiare capacità di preparare la scena, di indugiare, di dire poco lasciando intuire che comunque qualcosa di importante stava per succedere (come il lugubre e distorto rintocco di campane che apre in maniera  brutale il primo lavoro solista di Lennon[60], anticipandone così il clima cupo delle liriche) o era appena successa: doveva insomma, se possibile, creare stati d’animo o istantanee mentali nell’ascoltatore; come l’accordo assordante alla fine di A day in the life (preceduto dal vorticoso crescendo orchestrale e seguito da un minuto di riverbero in graduale dissolvenza), che può solo “far venire in mente il pauroso silenzio di un fungo atomico in espansione”[61], una Wasteland provocata da una distruzione termonucleare cui vengono fatti culminare i cattivi presagi enunciati precedentemente nel testo[62].

Franco Fabbri, musicologo presso l’università di Torino e autore dell’opera già citata nell’introduzione al capitolo[63], fa risalire all’articolazione interna della canzone, alla successione di ogni sua parte “funzionale”, la capacità di “mettere in scena” una situazione; le parti (o segmenti) di una canzone si succedono in effetti con funzioni paragonabili a quelle delle parti di una sceneggiatura (sono fra di loro relazionate, sostenute e interpretate dalla giusta combinazione di musica e parole) ed hanno dunque “a che fare con tattiche e strategie dell’attenzione e della convinzione”[64].
Ottenere l’attenzione dell’ascoltatore, farsi ricordare: sono gli obiettivi minimi di ogni canzone pop (che possono anche non avere a che fare con un loro presunto valore estetico o poetico).
Fabbri associa due particolari strategie dell’attenzione e della fascinazione molto diverse ad altrettanti schemi formali (in verità, i due più diffusi) riscontrabili nella popular music, definendo poi il secondo come punto forza del repertorio beatlesiano.

Il primo dei due, basato sull’alternanza strofa-ritornello ( S-R-S-R-…) e radicato in diverse tradizioni nazionali (anche in Italia in modo particolare), è discorsivo, coinvolgente e finalistico: nel senso che in esso il piacere (la bella melodia, l’inciso accattivante, un verso trainante ed indimenticabile, che generalmente corrispondono al ritornello) è la “conseguenza di un percorso, viene ripetuto al termine di ogni fase preliminare (la strofa) […] è la conclusione di una vicenda appassionante”[65]: è basato dunque sulla crescita emotiva che porta dalla parte narrativa della strofa all’esplosione del ritornello: un caso emblematico è la canzone Like a Rolling Stone [66] di Bob Dylan, nella quale il ritornello, dopo essere stato introdotto da una prepotente rullata di batteria e dal celebre how does it feel ?, strappa un coro che è anche, insieme, “sospiro di sollievo collettivo[67], per poi culminare con il titolo.

 Nelle canzoni basate invece sul secondo schema, chorusbridge [68] (C-C-B-C-B’-C), il meccanismo del piacere e dell’attenzione resta legato alla privazione e alla memoria, al contrasto del middle eight (altro nome per definire il bridge [69]) e ai brevi riaffioramenti del chorus; è uno schema distaccato e sottrattivo, orientato all’inizio piuttosto che alla fine (in antitesi, dunque , con lo schema strofa-ritornello), il piacere è immediato, ma la sua fonte, dopo essere stata rivelata in tutti i suoi aspetti (nel primo chorus) e ripetuta per una migliore assimilazione (nel secondo), viene sottratta e sostituita da una frase incidentale intermedia (il bridge B, magari ripresentato poi nella versione strumentale B’).

Canzoni basate sulla struttura chorusbridge fondano le radici in un vissuto musicale che precede il rock’n’roll (musical e music-hall di origine teatrale) e si ricollega nel nostro caso, all’ambiente di Liverpool, a quell’atmosfera popolare e piccolo-borghese che si manifesta soprattutto nelle composizioni di McCartney; esse appaiono immediatamente nel repertorio dei Beatles (raramente invece nel repertorio di autori Rock  a loro contemporanei quali Kinks, Who o Rolling Stones), e  nonostante l’incredibile evoluzione stilistica del gruppo negli anni, ci restano fino alla sofferta gestazione di Let it be [70].

Così Love me do [71] e The long and winding road [72], agli estremi della loro produzione discografica, antitetiche da un certo punto di vista (suonata in diretta e priva di effetti la prima, mentre la seconda è il risultato di un elaborato lavoro di orchestrazione e di sovraincisioni), eppure quasi identiche a livello strutturale (non fosse per la breve introduzione strumentale di Love me do):

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N.B.  La segmentazione, ovvero la suddivisione nelle varie parti indicate in legenda, coglie più in profondità i valori funzionali dei momenti di una composizione.[73]

La voce solista enuncia subito il titolo nel chorus; dopo la ripetizione di questo, compare una nuova unità strutturale, un inciso contrastante per melodia e armonia (il bridge); seguono due chorus divisi però dal bridge in versione strumentale (in particolare il middleeight della seconda canzone, fotografa con un climax orchestrale allo stesso tempo solenne e decadente la reale situazione del gruppo, sull’orlo del collasso, e il senso di abbandono e impotenza nei versi di Paul); a chiudere, una coda.
Effettivamente la presenza di canzoni a struttura ChorusBridge si dirada a cominciare dall’esplosione del loro stile compositivo verso la fine del 1965, in particolare con il passaggio da canzoni di due minuti e mezzo ad altre con una più grande varietà di forme e di respiro molto più ampio (senza dimenticare, però, il volontario innesto nei dischi di brani dalla durata eccezionalmente breve, tra cui Wild honey pie, Her Majesty e Dig it [74]): passaggio segnato in primo luogo dalla maggior valutazione del testo implicita nel concetto di Comedy song [75] dove l’intento narrativo poteva trovare limiti nel restringimento di spazi tipico della forma chiusa ChorusBridge.
Un caso limite è Happiness is a warm gun, dall’album più frastagliato e privo di rigore del gruppo (The Beatles): in essa la forma è dilatata, il disagio personale e i perversi giochi di parole di Lennon si specchiano in battute dispari e strofe irregolari, le quali non si ripetono, anzi si avvicendano fra loro:

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In secondo luogo dalle numerose sperimentazioni col sound, in particolare dalla sua capacità, spesso sottolineata, di creare ambienti e di affiancare nuovi elementi alle risorse del testo verbale: così il significato “globale” di A day in the life dipende anche dalla strategica posizione dei due tumultuosi glissandi orchestrali, al termine di ciascuna delle due sezioni cantate da Lennon: il primo culminante nel ritratto incisivo della frenetica e ripetitiva vita in città offerto dai versi di McCartney, il secondo che si annulla nell’incubo post-atomico dell’accordo finale in dissolvenza, negando l’ultimo barlume di speranza implicito nel I’d love to turn you on:

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Eppure “una strategia essenziale del fascino (non solo di una canzone), sembra proprio quella di negarsi, almeno per un po’.”[76]
Mentre si procede dall’inizio verso la fine di una canzone dei Beatles  si ha quasi sistematicamente una riduzione delle ripetizioni e un’accelerazione della varietà: in luogo della tensione statica prodotta dall’euforica iterazione strofa — ritornello, si avverte una tensione per così dire “dinamica”[77], una coscienza della trasformazione e del movimento, e la percezione che la canzone nella sua globalità rappresenti una macchina scenica in sé.
Strutture più o meno dinamiche basate sul montaggio cinematografico di parti (o sequenze) funzionali, le canzoni dei Beatles giocano dunque con la nostra percezione del tempo, con o senza l’apporto di grandi risorse narrative o poetiche.

4  –  Immagini / arti visive

“Se ci furono anni ’60 ribelli, lo si deve soprattutto all’Inghilterra, così capace di esprimere la trasgressione-da-esportare. La forza del Regno Unito, e, se per questo, del potere kennedyano, ha saputo trastullare lo scontento giovanile come un gatto sornione aspetta al varco il topolino-preda. L’ha mutato in folkloristico business.”[78]

Prima che il 1963 cambiasse per sempre il mondo della musica, l’Inghilterra aveva già un business Pop: la moda.
La gente usciva da venti anni di carestia e improvvisamente cominciava a guadagnar soldi, ma soprattutto i giovani, con il loro inaspettato potere d’acquisto, reclamavano il bisogno e la ferrea volontà di spendere e vestire a proprio piacimento.
E questo bisogno venne intuito da gente come Mary Quant[79], cui venne conferito il premio Sunday Times per aver scosso la Gran Bretagna facendole abbandonare il suo atteggiamento convenzionale riguardo i vestiti; il suo Look, coronato dallo stile pratico e sexy che Vidal Sassoon diede ai capelli, venne trasformato in vera e propria icona da fotografi quali David Bailey, Terence Donovan e Brian Duffy, ponendosi come unica autentica manifestazione del Pop negli anni tra l’archetipo Rock’n’roll  dei ’50 e l’esplosione dei Beatles nel 1963.

I futuri imprenditori del Pop-Rock fiutarono queste novità e le applicarono all’allora acerbo mondo della musica leggera: capirono che la stessa voglia di sperimentare e lo stesso giovanile entusiasmo che tanto caratterizzavano le soluzioni estetiche proposte dalla Quant o da Biba, avrebbero potuto rinnovare il linguaggio della forma canzone.
I Beatles non inventarono dei vestiti e nemmeno un taglio di capelli.
Piuttosto, furono i “catalizzatori” di un generale mutamento di costume; anticipati dai divi anni ’50 , Elvis Presley e James Dean fra tutti (i primi e non ancora celebri Beatles vestivano in pelle nera e portavano i capelli all’indietro alla Dean), dettarono i termini di appartenenza al giovane mondo Pop.
Indossare la divisa alla Beatle, lo stile adottato nei primi anni sessanta, sarebbe infatti divenuto un vero e proprio lasciapassare per ottenere credibilità nella società e soprattutto successo nel mondo dello Showbusiness.
Tra il 1963 ed il 1966, la maggior parte dei gruppi (tanto inglesi quanto americani) che comparivano in trasmissioni televisive quali Ready, steady, go, Top of the pops o Ed Sullivan show palesavano nell’immagine una totale aderenza al loro marchio di fabbrica: un Look omogeneo, condizionato dalle intuizioni estetiche della fotografa Astrid Kirchherr[80]: capelli a scodella pettinati in avanti, alla francese (o secondo lo stile esistenzialista amburghese tra il 1960 e 1962), senza brillantina, e completi in mohair confezionati da Pierre Cardin, giacca senza colletto e profilatura in pelle.

Le case discografiche si trovarono veramente in affannosa ed imbarazzante rincorsa sui quattro di Liverpool, per ridursi a sfornare band quali Byrds e Monkees, che, oltre ovviamente al Look, presero a prestito la brillante idea di scegliere come nome quello di un animale[81]  “storpiato”, morfologicamente parlando, mediante la variazione di una vocale:

beetle (scarafaggio)  –  beatle
monkey (scimmia)  –  monkee
bird (uccello)  –  byrd

I Beatles furono anche i principali garanti della liberazione dei costumi nella seconda metà degli anni ’60, in cui si produsse una specie di incrocio, o ibridazione fra culture diverse e nostalgici recuperi di costumi appartenenti ad epoche più lontane.
Non solo tuniche orientali in luogo di giacche attillate, ma anche un gusto particolare nel mescolare tradizione e stravaganza, che riguardava tanto giacche e cravatte (simboli borghesi ad indicare l’uomo perbene), quanto le macchine anche più lussuose: Lennon fece camuffare la sua Rolls-Royce (una Phantom v) da sogno psichedelico, con fregi e motivi floreali su un caramelloso fondo giallo (come il famoso sottomarino…) e rosa; soluzioni zingaresche, kitsch, che evocavano alla pari di alcune canzoni di quel periodo (Being for the benefit of Mr.Kite [82], per fare un esempio) una generale atmosfera da luna park.
Liberazione dei costumi, non senza una liberazione dei sensi.

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Con l’ingenuità e l’istinto positivo di quei tempi (siamo tra il 1966 ed il ’67, mesi che segnarono il definitivo distacco dei Beatles dalla loro vecchia immagine), Lennon risaliva il caleidoscopio-Lsd per tornare bambino, parlare la lingua surreale dei suoi anni più giovani[83], riscoprire parchi giochi e orizzonti di divertimento, veri e propri tappeti volanti per evadere dalla noiosa e pericolosa routine della Beatlemania; mentre McCartney sfruttava l’onda stimolante degli “additivi” per liberare incursioni nel campo dell’arte, dal cinema di Antonioni e Godard alla musica d’avanguardia di Cage e Stockhausen.
Il clima generale dell’opera Sgt.Pepper’s lonely hearts club band, a cominciare dai colori e dai capricci della storica copertina[84], è quello di una grande parata di misteri e curiosità in cui tutti, anche chi ascolta, sono complici e coinvolti, perché a splendid time is guaranteed for all.[85]

Una ibridazione di culture (nel vivace mosaico di copertina prendono parte Guru indiani, divi di Hollywood e poeti inglesi…) che convive però con una nota di sano nazionalismo (le divise edoardiane indossate dai Fab four).
Il film d’animazione Yellow submarine [86] ha il pregio di mettere allo scoperto, in modo lievemente parodico, i riferimenti all’epoca vittoriana comunque presenti in tutto il flower power britannico: la connessione fra l’estetica Liberty in particolare e la psichedelica inglese appare chiara nei paesaggi e nelle mises di uomini e donne che popolano Pepperland.

4.1  –  Film e video promozionali

I Beatles intuirono ben presto l’importanza di film e fotografia come mezzi di comunicazione: la loro carriera artistica fu dettata da continui e audaci cambiamenti formali e stilistici, e ciò riguarda non soltanto la parte strettamente musicale o testuale, come abbiamo visto, ma anche la veste grafica dei loro prodotti e il rapporto che ebbero con il mondo del cinema.
Costante fondamentale nell’opera dei quattro di Liverpool, che contribuisce al valore delle loro pellicole e di alcune copertine di dischi, è la compresenza di umorismo ed autobiografia: davano informazioni sul loro “stato di salute”, sul modo di rapportarsi col proprio pubblico, specchio delle fatiche (la totale mancanza di spazio proprio) e le meravigliose opportunità derivanti dal fatto di essere un Beatle (la possibilità di lavorare con esponenti della Pop-art, fotografi e registi brillanti); ma senza rinunciare a quel gusto per la battuta e la caricatura (già evidenti nei testi) tipiche della loro personalità.

4.1.1  —  Dick Lester

Il primo film “A hard day’s night”[87] fu il loro maggiore successo cinematografico: debuttò al London Pavillion, presente la famiglia reale, ottenne due nomination agli Oscarâ ed incassi che coprirono dieci volte i costi di produzione.
Era soprattutto di gran lunga superiore al medio prodotto musicale per lo schermo, frizzante, realizzato con un’ottima fotografia e testimone di un periodo ben preciso.
Ricco di gags, è un tipo inedito di musical, una fantasy surrealista in bianco e nero, nutrita di Beatle-pensiero e riferimenti meta-cinematografici; e, cosa importante, evitava i luoghi comuni di tanti film Pop.
Costituiva un passaggio quasi obbligato per una pop star all’inizio degli anni sessanta realizzare un film dopo aver pubblicato una buona serie di successi, sull’esempio di Elvis Presley.
Il cinema, che allora era probabilmente il più diffuso dei media, aveva la capacità di enfatizzare il carisma e moltiplicare la popolarità di un artista; ma rischiava anche di ridurlo, come accadde proprio a Presley negli anni sessanta, da talento straordinariamente selvaggio e originale a mercenario di Hollywood.

I Beatles, che volevano evitare di diventare attori da love story dove la band viene scoperta durante un ballo al liceo, ebbero la fortuna di collaborare con un’ottima squadra composta fra gli altri dallo sceneggiatore Alun Owen, anch’egli originario di Liverpool, e dal regista Richard Lester, un quarantenne cineasta molto vivo nella Swinging London (ma anche al confine con le rivoluzionarie esperienze del contemporaneo Free Cinema [88]), che aveva già collaborato con Peter Sellers e Spike Milligan.
Lo stile di Lester, rapidi tagli e fantasioso uso e posizionamento delle cineprese, riuscì a soddisfare al meglio l’esigenza primaria del progetto, ovvero catturare tutta l’eccitazione e la vivacità del Pop, tradurre in immagini la carica trasgressiva (ma non destabilizzante) del gruppo.
Il regista ed i Beatles volevano in fondo la stessa cosa: “dinamitare in allegria gli ultimi valori vittoriani sopravvissuti, nell’epoca felice in cui si credeva di poter seppellire l’autorità con uno sghignazzo”[89]; riecheggia nel film quell’umorismo da giornalino scolastico, quel dadaismo piccolo borghese presente in molte liriche[90] e già trasmesso dai quadri di Peter Blake e Richard Hamilton, precursori della Pop-art e futuri collaboratori del gruppo.
Un umorismo che sprigiona naturalmente grazie anche alla libertà narrativa e ad un linguaggio che miscela in modo dirompente musica, battute e una cinepresa che assume punti di vista e inquadrature insoliti, legati da un montaggio nel 1964 decisamente creativo.
Anche la scelta di ingaggiare Alun Owen per la sceneggiatura si rivelò pienamente indovinata; pioniere del genere kitchen-sink, ossia quello che rappresenta gli aspetti più sordidi della vita moderna, aveva in precedenza scritto commedie per il Dublin Theatre Festival; i suoi lavori, pieni di realismo e sarcasmo, traboccavano di solidarietà per la classe operaia; fra tutti gli sceneggiatori inglesi del momento era, a detta di McCartney, quello maggiormente in grado di catturare i modelli verbali del gruppo e costruire della band un ritratto convincente, benché romanzato.
Per non correre rischi, dato che nessuno aveva mai recitato prima, Owen optò per una sceneggiatura strutturata sì, ma modellata su di loro, sui loro modi di dire e fare, privilegiando scene d’azione, dialoghi e battute brevi, incisivi e che non richiedessero eccessivi sforzi mnemonici.
E le pagine più divertenti e riuscite del film corrispondono proprio ai momenti surreali o densi di “umorismo del nord” (così lo definisce Paul[91]), come le bizzarre e spiazzanti risposte date ai giornalisti durante una conferenza stampa, mettendo in ridicolo una domanda dopo l’altra…

Interviewer — Tell me , how did you find America?
Lennon — Turn left to Greenland !

Interviewer — Are you a Mod o a Rocker?
Ringo — No , I’m a moka !

Interviewer — What would you call that hair style?
George — Arthur ! [92]

o l’effetto Chaplin[93] impiegato per la scena della fuga dagli studi televisivi sulle note di una prorompente Can’t buy me love.

Nella trama del film (come nella realtà) i Beatles viaggiano in treno, sempre inseguiti dai fans, da Liverpool a Londra dove dovranno tenere un concerto in televisione.
Ogni tentativo di liberarsi dalla pesante tutela di ammiratori ed agenti si rivela invano; confinati in camere d’albergo e assediati all’interno delle Limousine e perennemente gomito a gomito con collaboratori ed assistenti, insomma, mai autenticamente liberi: una situazione che con il tempo sarebbe divenuta ancora più soffocante, ma che per il momento alimentava in seno al gruppo un forte ed inevitabile cameratismo (si rivelò in questo caso “azzeccata” la versione italiana del titolo del film, “Tutti per uno”): soltanto come gruppo saldo e unito i Beatles riescono a resistere alle continue pressioni della Beatlemania.
Ad un certo punto della storia Ringo, istigato dal perfido nonno di Paul, lascia il gruppo, ma ogni sua azione personale si rivela disastrosa ed inconcludente: perde banalmente la macchina fotografica, si dimostra un maldestro galantuomo e viene addirittura trattenuto dalla polizia (verrà liberato naturalmente dagli altri tre…); è questo, inoltre , un momento particolarmente riuscito della pellicola: sulle note di una dolce e strumentale versione di This boy, Ringo passeggia solitario e malinconico lungo il Tamigi e ricorda molto il vagabondo Chaplin[94], in parte epigono di un mondo dickensiano.

Si prova immediata simpatia per Ringo (che più di ogni altro indossava in modo naturale i panni dell’attore), e per il gruppo in generale; perché il film era non solo l’espressione più concentrata, anche se artificiosa, del loro umorismo stravagante, del fascino genuino e del carisma che possedevano; questa infatti era solamente la visione “esterna” del fenomeno.
Rifletteva anche un’altra realtà, anche se in maniera allegra: comunicava il paradosso della Beatlemania e come essa veniva percepita “dall’interno”.
Ad un certo punto del film i Beatles stanno suonando dentro un oscuro recinto, con un gruppo di ragazzine agitate al di là del filo spinato: sono degli ingenui ed innocui animali in gabbia costantemente assediati dagli altri animali che stanno fuori dalla gabbia.

Immagine articolo Fucine Mute

Era pressoché impensabile poter scrivere un seguito all’altezza di “A hard day’s night”; Alun Owen aveva infatti intessuto l’unica trama possibile per i Beatles, una versione leggermente camuffata della loro vita, per la quale aveva lavorato strettamente a contatto con il gruppo, il quale gli forniva, direttamente e non, battute poi utilizzate per i dialoghi.
Non ci fu invece altrettanta collaborazione con Mark Be’m per il successivo “Help!”[95, sempre diretto da Lester.
Lo sceneggiatore si limitò a fornire loro battute preconfezionate che chiunque avrebbe potuto interpretare; si nota benissimo in alcuni passaggi del film il fastidio che provavano i Beatles nel dover pronunciare quelle frasi.
La sceneggiatura originale di Be’m[96, allora ancora intitolata Eight arms to love you, venne in parte riscritta da Charles Wood (un altro collaboratore di Lester) in modo da soddisfare la richiesta dei Beatles (e del loro manager) di continuare a recitare se stessi e non interpretare personaggi fittizi.
Il prodotto finale risultava essere più cauto e meno istintivo del precedente, anche se la libertà nella costruzione dell’intreccio narrativo,  le invenzioni visive di Lester e il gusto delle gag e del surrealismo a sfondo ironico non erano affatto spariti.
I Beatles  interpretano ancora se stessi, lasciandosi però coinvolgere in un feuilleton che li vede perseguitati dagli adepti di una misteriosa setta Indu’, i quali scoprono la sparizione di un anello sacro che (ovviamente!) sta al dito di Ringo.[97]

Sfortunatamente l’anello con il rubino, indispensabile non soltanto agli adoratori della dea Kalì per compiere come si deve i sacrifici umani, ma anche ad uno scienziato pazzo (lo ritiene in grado di assicurargli il dominio del mondo), rifiuta di farsi sfilare dal dito di Ringo: inizia così una caccia in giro per il mondo, tra Inghilterra, Bahamas e piste di sci in Austria.
Una commedia in technicolor felice, a lieto fine, dove i “cattivi” sono comunque dei malvagi-simpatici (come lo saranno i Blue Meanies in Yellow submarine) e nulla lasciano intendere riguardo al difficile e secolare rapporto fra Inghilterra e India; l’impressione complessiva di “Help!” è che abbia comunque ben poco di sostanzioso da dire: voleva infatti giocare ancora una volta sull’ossessione dei fan per il mito beatlesiano, ma si rivela un filmetto facile facile, mancante di un vero dialogo (le poche battute che i Beatles riescono a pronunciare sono artefatte e per nulla divertenti); le caratterizzazioni sono talmente stereotipate da diventare figurine intagliate nel legno: il tipo sexy e bello, quello sarcastico e brillante, lo spilorcio imbronciato e infine quello con il complesso d’inferiorità; fra le poche note significative, il passaggio dal realismo beat in bianco e nero ai colori della Swinging London pre-psichedelica.

4.1.2  —  Bus e sottomarini gialli

Il sodalizio artistico con Dick Lester non andò oltre queste prime due esperienze cinematografiche, salvo una eccezione, la partecipazione di Lennon alla farsa antimilitarista “How I won the war”, uscito nel 1967 ma girato l’anno precedente.
Il loro successivo appuntamento con la macchina da presa si rivelò decisamente infelice: presentato alla televisione britannica erroneamente in bianco e nero, “Magical mystery tour”[98], che assieme a “Yellow submarine” rimane fondamentale proprio per la “cultura dei colori”, ebbe una pessima accoglienza critica, ma venne fortunatamente rivalutato più avanti, quando uscì in versione a colori e senza i tagli che l’ignobile censura della Bbc aveva apportato ad alcune sequenze[99] della pellicola, peraltro del tutto innocue.
Si trattava di un tentativo beatlesiano di fare un film in completa autonomia, partendo da una idea-base di McCartney, la cui trama si sarebbe dovuta evolvere spontaneamente nel corso delle riprese.
Due mo