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Cinema

La critica metacinematografica di Billy Wilder

Lei — “Di solito cena solo?”
Lui — “No, no…a volte con Eisenhower, Billy Wilder…”

Questo botta e risposta recitato da Jack Lemmon e Shirley McLaine nel film premio oscar L’appartamento (1960) riassume in una battuta tutto il sarcasmo e l’ironia che il regista Billy Wilder ha inserito nei suoi film trattando la tematica del metacinema.

Immagine articolo Fucine Mute

Per metacinema si intende quel genere cinematografico che tratta esplicitamente tutti i meccanismi che regolano la settima arte. Anche se non c’è una vera e propria tradizione il solo fatto che quasi tutti i più grandi registi della storia almeno una volta hanno affrontato questo argomento lo rende un interessante spunto di riflessione. L’universo di espressione del metacinema è così ampio che i livelli di analisi sono molteplici: si sono realizzate pellicole che riguardano la direzione di un film (Effetto notte di Truffaut 1973, Hollywood ending di Woody Allen 2002), pellicole sull’impossibilità di realizzare un film (Il disprezzo di Gordard 1963, Lo stato delle cose di Wenders 1982), pellicole su un regista che non sa come girare il proprio film (8 ½ di Fellini 1963, Stardust Memories ancora di Allen 1980) e pellicole che hanno analizzato l’ambito pornografico del cinema (Boogie Nights di Anderson 1997, 8 mm di Schumacher 1998). Queste sono solo alcune tipologie di classificazione ma ce potrebbero essere molte altre da portare all’attenzione, basti pensare che già negli anni ’20 Vertov con L’uomo con la macchina da presa e Keaton con Il cameraman si erano soffermati a riflettere sull’argomento.

Billy Wilder è tra i registi che hanno dato i toni e le sfumature più interessanti a questa tematica. Wilder è considerato unanimemente dalla critica uno degli autori più prolifici ed importanti della storia del cinema. Emigrato dalla Germania giovane, dopo una breve gavetta come sceneggiatore per importanti autori hollywoodiani (ha firmato gli script di L’ottava moglie di Barbablù, 1938 e Ninotchka, 1939 per Lubitsch e di Colpo di fulmine, 1941 per Hawks), Wilder si è da subito imposto all’attenzione di tutti come uno dei più versatili registi in circolazione, dirigendo in pochi anni commedie come Frutto proibito (1942) e drammi come Giorni perduti (1945), film con il quale tra l’altro ha conquistato la sua prima statuetta come miglior regista. Oltre a queste due, tra le sue pellicole indimenticabili possiamo ricordare Scandalo internazionale (1948), Viale del tramonto (1950), Stalag 17 (1953), L’appartamento (1960), Irma la dolce (1963) e Prima pagina (1974). In ogni suo film Wilder ha lasciato sempre un’impronta molto personale, adattando le sue tematiche principali alle situazioni dirette, lavorando con attori poliedrici in grado di esaltare tutto il suo talento visivo. Jack Lemmon e Walter Matthau, una delle più celebri coppie del cinema americano, proprio sotto le direttive di Wilder hanno costruito la loro leggendaria affinità, e sempre grazie a lui attrici emergenti come Marilyn Monroe e alla fine della carriera come Marlene Dietrich hanno ottenuto il massimo del loro successo. Quasi tutti i grandi interpreti della Hollywood classica hanno collaborato con lui, da James Stewart a Humphrey Bogart, da Kirk Douglas a William Holden.

La citazione da L’appartamento con la quale ho incominciato questo mio saggio porta il discorso a riflettere su quello che è lo spirito di fondo che aleggia in tutte le opere di Wilder: il sarcasmo. La sensazione a tratti cinica e grottesca di vivere una storia, dramma o commedia che sia, sempre al limite della farsa, rende unico il lavoro del regista. La sua attenzione ai particolari della sceneggiatura ha costruito un nuovo impareggiabile stile registico, per cui la macchina da presa non necessariamente deve comandare i personaggi e dominare la scena ma spesso può fungere solo da spettatore, da statico mezzo di fruizione scenica. La macchina da presa per Wilder è solo uno strumento per raccontare meglio una storia, l’unica vera anima dell’opera cinematografica. Ai virtuosistici movimenti di macchina di molti suoi colleghi, lui ha spesso preferito approfondire l’ambito recitativo, soffermando l’attenzione sulle sfumature interpretative più che su quelle prettamente tecniche. Questo non ha impedito a Wilder di costruire immagini suggestive (una su tutte la scena iniziale di Viale del tramonto dove William Holden è ripreso morto affogato in acqua, mentre incomincia a raccontare la storia della sua fine disgraziata), ma certamente non è attraverso queste che il regista ha posto i fondamenti della sua messinscena.

William Holden

Proprio Viale del tramonto, forse la sua pellicola più famosa, ci permette di analizzare l’estetica metacinematografica proposto da Wilder. Il suo cinema, che in due parole potrebbe essere definito semplicemente triste e divertente, in quest’opera raggiunge la sua punta massima, unendo cinismo, ironia e nostalgia in una costruzione narrativa sottile e delicata. Il film racconta la relazione alla fine degli anni ’40 tra uno sceneggiatore hollywoodiano senza futuro (Joe Gillis) e una grande diva del cinema muto (Norma Desmond). Quest’ultima, proponendo un lavoro al giovane scrittore, riesce col tempo a trasformarlo in un mantenuto a tutti gli effetti. La storia termina drammaticamente con il tentativo di fuga dall’oppressiva trappola d’oro in cui il protagonista è costretto a vivere, e con la sua uccisione da parte dell’attrice, innamorata del giovane e disperata per la fine incondizionata della sua carriera.

Il personaggio della diva dimenticata Norma Desmond è interpretato da Gloria Swanson; questa scelta può essere identificata come il primo tassello di un mosaico narrativo che fa del metacinema una delle tematiche principali del film. Gloria Swanson, infatti, è stata realmente una delle dive più importanti del cinema muto americano e nel 50, quando Viale del tramonto è stata girato, si era ritirata dalla scena già da diversi anni. L’attrice riesce a costruire l’immagine della vecchia diva, legata al suo successo, ai modi e alle abitudini che caratterizzavano le grandi star di Hollywood in maniera perfetta. La psicosi che contraddistingue il suo personaggio è resa autentica dalla somiglianza che la Swanson aveva con il personaggio che interpreta. La stessa attrice ha più volte detto di ritrovarsi molto negli atteggiamenti eccessivi da diva di Norma Desmond, discostandosi invece da lei per il fatto di non essersi rinchiusa in un castello terminata la carriera, ma di aver proseguito a lavorare nell’ambito dello spettacolo aprendo una casa di produzione e lavorando in radio per diversi anni.

Un altro personaggio fondamentale del film è il maggiordomo Max, interpretato da Eric Von Stroheim. Anche quest’ultimo, come la Swanson, è stato nella Hollywood degli anni ’20 una personalità influente; un regista considerato dalla critica mondiale tra i più grandi innovatori della storia del cinema. Autore di opere come Femmine folli (1921) e Sinfonia nuziale (1926), Stroheim ha realizzato nel 1926 uno dei film più famosi del cinema muto Greed-Rapacità. Quest’opera non solo rappresenta un capolavoro assoluto, ma può anche essere definita la prima pellicola maledetta di Hollywood, per le liti furibonde legate alla sua distribuzione e soprattutto per il prosieguo della carriera del regista. La sua durata originale era, infatti, di oltre sette ore, ridotte poi a tre dai produttori, ma anche se mozzato Greed resta un film magnifico che a causa dei diverbi sulla lunga e costosa produzione hanno impedito a Stroheim di dirigere opere altrettanto personali. Hollywood si è rifiutata di collaborare lui, relegandolo così ad una sorte di comprimario, prima come regista di film su commissione e poi come attore. Proprio in questo ruolo però Von Stroheim ha avuto la sua rivincita sulle major, proponendosi come interprete poliedrico in film celebri come La grande illusione di Renoir (1937) e I cinque segreti del deserto (1943) dello stesso Wilder. Quest’ultimo, ammiratore dell’opera del grande regista ha voluto celebrare la sua figura anche in Viale del tramonto. Il maggiordomo Max, infatti, se per quasi tutto il film si mostra solo come assistente personale di Norma Desmond, alla fine si scopre essere stato regista di film muti e marito dell’attrice, il suo amore verso di lei però lo ha portato a rinunciare a tutto pur di starle accanto, accompagnandola nei suoi ultimi anni di paranoia e depressione. In questo modo cinico e assolutamente rivoluzionario Wilder celebra il mito e la sorte beffarda di Von Stroheim, regalandogli un personaggio tremendamente simile a lui e allo stesso tempo dandogli ancora una volta la possibilità di mostrare a tutti il suo talento unico.

Immagine articolo Fucine MuteIl regista nel film, a proposito ancora di Von Stroheim, propone un gioco metacinematografico veramente straordinario. In una sequenza della pellicola davanti ad uno schermo panoramico Norma Desmond mostra al suo giovane compagno un film che nella finzione dell’opera l’aveva resa famosa e desiderata. In realtà l’opera mostrata è Queen Kelly (1928), interpretata da una giovane Gloria Swanson e diretta dallo stesso Von Stroheim, che ironicamente nel film nei panni di Max carica e accende il proiettore. La scelta di utilizzare queste immagini è emblematica, perché la lavorazione del film, per ordine della produttrice Joseph Kennedy (poi moglie di John K.), era stata interrotta per il panico suscitato dall’avvento dei primi film sonori, e la sceneggiatura originale di Stroheim ancora una volta era stata rimaneggiata, ennesimo caso di sopruso da parte dei potenti al quale è stato vittima il regista.

La galleria delle cere, come la definisce Joe Gillis, non termina qui; infatti, in un continuo gioco tra realtà e finzione, Wilder mostra sullo schermo altri grandi personaggi del cinema muto come il regista Cecil De Mille e Buster Keaton. Questa ossessione nostalgica nel presentare grandi star del passato anche in piccolissimi cammei mette in risalto la riflessione che Wilder propone sul cinema del dopoguerra. Il regista critica il motore hollywoodiano che deve andare sempre avanti in un continuo progresso tecnologico ed espressivo, rinunciando così a celebrare i suoi miti e le anime delle persone che hanno permesso a quest’industria di diventare grande. Sono tanti gli attori che con il tempo sono stati dimenticati e hanno dovuto ricercare in contesti diversi un riposizionamento espressivo; Chaplin per esempio, per ragioni ideologiche e politiche, si è distaccato dall’industria produttiva prettamente hollywoodiana autoproducendo gran parte dei suoi ultimi film. Lo stesso Keaton, che appare in Viale del Tramonto durante una partita a carte con Norma Desmond, ha finito per recitare in film mediocri pur di proporre ancora il suo immenso talento che la spietata legge del profitto, con l’avvento del cinema sonoro, aveva deciso di rinnegare.

Gli spunti metacinematografici nel film sono molteplici, oltre che nella scelta degli attori, Wilder celebra i ruggenti anni ’20 anche attraverso i luoghi. Il titolo propone già un riferimento importante: Sunset Boulevard oltre a rappresentare il metaforico viale del tramonto percorso dalle Star dimenticate è anche una strada di Los Angeles, famosa per lo sfarzo delle sue case che la costeggiano fino alle spiagge di Malibù. Proprio su questa via si trova la casa di Norma Desmond, un tipico esempio di eccesso architettonico, simbolo di quell’idea di gigantesco con il quale si misuravano gli artisti del muto. Le Star desideravano uno sfarzo così estremo da risultare di cattivo gusto; di queste ville, infatti, molte sono state rase al suolo per edificare case e palazzi meno appariscenti. La location che più di ogni altra verrà ricordata in questo film è l’ingresso principale negli studi della Paramount, che grazie a Viale del tramonto è diventato un luogo di culto per tutti gli amanti della settima arte, nonostante l’ampliamento degli stabilimenti, infatti, è ancora oggi presente all’interno degli studios a rappresentare la storia della casa di produzione. Il grande merito di Viale del tramonto va quindi rapportato proprio a questo; ha insegnato a non dimenticare e a portare il giusto rispetto per artisti e opere che hanno fatto la storia del cinema.

Immagine articolo Fucine MuteIl filo conduttore che lega questa pellicola a Fedora (1978), l’altra opera che propone il metacinema di Wilder, si trova nella scelta del protagonista. William Holden, infatti, interpreta sia il giovane sceneggiatore mantenuto Joe Gillis sia il regista indipendente Barry Detweiler protagonista di Fedora. Analizzando prima la figura di Gillis si può notare come sia un personaggio a tratti autobiografico; Wilder, infatti, ha inserito molte sfumature della sua vita in quella dello sceneggiatore. Innanzitutto il regista ha incominciato la sua carriera hollywoodiana proprio svolgendo questo mestiere, che sfortunatamente permette solo ad un piccolo numero di persone di raggiungere il successo. Inoltre deve essere sottolineato come l’immagine di Gillis, comprato da Norma Desmond, ricordi gli anni ‘30 in Francia di Wilder, che, per racimolare qualche soldo in più, lavorava in un locale come gigolo, dividendosi in balli tra diverse signore aristocratiche. La similitudine di carattere è stata fortemente voluta dal regista che desiderava in questo modo portare una critica anche soggettiva all’industria del cinema, che in lui ha trovato un grande interprete ma che ha distrutto anche le vite di molti altri immigrati.

Holden, uno degli amici più cari al regista ed interprete di molte sue pellicole, da Stalag 17 fino a Sabrina (1954), ha dato il meglio di sé proprio in Fedora e Viale del tramonto. In quest’ultimo film è da notare come sia molto interessante sempre in ottica metacinematografica il differente stile interpretativo proposto dai due protagonisti. Alla pomposa recitazione figlia del muto di Gloria Swanson, che attraverso le espressioni fisiche cerca di trasmettere emozioni, si contrappone lo stile sobrio ed elegante di Holden, simbolo di una generazione diversa e di un metodo di lavoro differente, che ha reso famosi attori come Bogart, Cagney e Hayden.

Fedora, realizzato nel 1978, è il penultimo film del regista e rappresenta la sua ultima pungente e cinica critica all’universo hollywoodiano. La storia racconta, attraverso la voce narrante del protagonista Barry Detweiler, la vita e i misteri di una grande attrice del cinema classico, ritiratasi in un’isola greca per lasciare nei suoi ammiratori solo l’immagine di fresca bellezza che la caratterizzava nelle sue pellicole. Anche quest’opera come Viale del tramonto è drammatica, ma ha sfumature molto vicine al giallo e al noir. La sceneggiatura, scritta dal regista con il suo fedele collaboratore I.A.L. Diamond, non si sofferma solo all’analisi della tematica metacinematografica, ma elabora un complesso intreccio narrativo, costruito attraverso continui flashback e inaspettati colpi di scena. Il protagonista Detweiler somiglia molto a Joe Gillis nella caratterizzazione del personaggio ma anche narrativamente, fungendo da istanza narrante attraverso l’uso della sua voce fuori campo.

In Fedora Detweiler rappresenta ciò che secondo Wilder di buono può ancora dare il cinema, rappresenta le lungimiranti prospettive cariche di entusiasmo che molti autori continuano ad avere e che danno linfa vitale ad un’arte sempre più succube del potere immutabile e disinteressato delle case di produzioni. Il protagonista è un regista indipendente che cerca di portare sullo schermo un’ennesima trasposizione dell’Anna Karenina di Tolstoj. La scelta di un soggetto così importante è ancora una volta emblematica, perché si pone in contrapposizione alla rivoluzione nel cinema americano in atto dall’inizio degli anni ’60. Questa è una chiara presa di posizione del regista, legato ancora fortemente ad una concezione classica di cinema, lontano dalle grida rivoluzionarie della corrente europea della Novelle Vague e del New American Cinema. A proposito di Jean Luc Godard, simbolo di questa nuova tendenza artistica, Wilder una volta ha detto “Quanta arroganza per un uomo, ritenere di poter essere capace di improvvisare un film!”. In questo modo il regista ha espresso il suo forte legame con la tradizione, da omaggiare e ricordare, e con la sua mentalità forse troppo conservatrice che lo lega ad una concezione di cinema sperimentale solo all’interno della sua geometrica e precisa grammatica.

Fedora porta con se tutte le caratteristiche tipiche del cinema di Wilder. Innanzitutto la tematica della nostalgia e del trascorrere del tempo. Fedora è un’attrice costruita sul modello di Greta Garbo, troppo bella per essere dimenticata e troppo bella per essere vista invecchiare. Questo è il trauma che porta la protagonista ad architettare un piano perfetto per rivivere sullo schermo attraverso il corpo della figlia. La nostalgia per il tempo passato, fatto di gloria e attenzioni è un’attrattiva troppo forte per non essere perseguita dalla protagonista una seconda volta.
Nel personaggio di Fedora risiede anche l’altra tematica principale del cinema di Wilder: il trasformismo. Gli esempi migliori su questo argomento, il regista li ha dati con A qualcuno piace caldo (1959) e Frutto proibito, ma in ogni sua pellicola l’estetica della maschera ha avuto sembra un valore dominante. In questo caso la maschera ha due funzioni, una per coprire il volto ormai vecchio e sformato dalla chirurgia plastica della Fedora anziana, l’altra per rimodellare la figura della Fedora giovane, facendo risorgere autenticamente un mito del cinema che, come ogni icona/immagine, non dovrebbe mai cambiare. Attraverso questo espediente il regista critica un altro aspetto della mentalità hollywoodiana, quello di non accettare i cambiamenti naturali del trascorrere del tempo. La figura intesa come simbolo deve restare immutata per non dissolvere mai nel pubblico la percezione del personaggio. Per fare un esempio nessuno riuscirebbe ad accettare una Monroe settantenne, e la morte precoce dell’attrice l’ha resa immortale, eternandola nell’unica immagine che ancora oggi viene utilizzata in poster e magliette come un qualsiasi prodotto commerciale.

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Un altro aspetto che ritorna da Viale del tramonto è il citazionismo. Wilder in questo caso ha voluto inserire all’interno del suo film attori nella parte di se stessi, rendendo ancora più (sur)reale la prospettiva metacinematografica. Partecipano nei panni di loro stessi Henry Fonda che come rappresentate dell’Accademy si reca nell’isola delle Cicladi per consegnare a Fedora un oscar alla carriera e Michael York, nei panni di se stesso che in un gioco di finzione davvero grottesco recita con la finta Fedora innamorandosi di lei. Con quest’ennesima variante prospettica del metacinema pochi hanno provato a misurarsi; gli esempi più noti sono certamente il Buster Keaton di La palla n°13 (1924) e Woody Allen con i suoi Provaci ancora Sam (1972) e La rosa purpurea del Cairo (1985). Ho portato questi due casi per mostrare come solamente i grandissimi si sono cimentati con un argomento così difficile da interpretare. Wilder naturalmente in Fedora con il suo indiscutibile talento e il suo personalissimo stile di regia è riuscito a trattarlo con sottile ironia e con grande efficacia scenica, non impedendo alla pellicola di subire eccessivamente il fascino di questa tematica, lasciando invece che la trama noir conquistasse l’attenzione del pubblico.
Wilder in tutta la sua carriera, preponendo all’immagine la parola ha costruito questa combinazione unica di metacinema, dramma e commedia, attraverso la quale è riuscito a realizzare opere che non potranno davvero mai essere dimenticate, anche se avessero la meglio il cinismo e la politica dell’establishment hollywoodiano che lui ha così fortemente attaccato.

La filmografia di Billy Wilder


Frutto proibito, 1942
I cinque segreti del deserto, 1943
La fiamma del peccato, 1944
Giorni perduti, 1945
Il valzer dell’imperatore, 1948
Scandalo internazionale, 1948
Viale del tramonto, 1950
L’asso nella manica, 1951
Stalag 17, 1953
Sabrina, 1954
Quando la moglie è in vacanza, 1955
L’aquila solitaria, 1957
Arianna, 1957
Testimone d’accusa, 1958
A qualcuno piace caldo, 1959
L’appartamento, 1960
Uno, due, tre!, 1961
Irma la dolce, 1963
Baciami stupido, 1964
Non per soldi…ma per denaro, 1966
La vita privata di Sherlock Holmes, 1970
Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, 1972
Prima pagina, 1954
Fedora, 1978
Buddy Buddy, 1981

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