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Palcoscenico

Franco Però

Quando la sera, ad Alexandria

Che la città di Alessandria d’Egitto fosse “l’emporio più grande del mondo”, il grande centro industriale e commerciale del Mediterraneo, è cosa ben nota e risaputa. Che, verso la fine dell’Ottocento, diventi la meta di centinaia di migranti, in particolare donne, giunte fin lì da Gorizia,Trieste, Lubiana, chi nella speranza di guadagnare, chi di rifarsi una vita lasciandosi alle spalle un’esistenza di stenti è meno noto. Proprio quest’intreccio tra la storia ufficiale e le storie vissute di donne è lo spunto per Quando la sera, ad Alexandria, una coproduzione tra il Mittelfest e il teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia diretta dal regista Franco Però con la drammaturgia di Renata Ciaravino, che debutterà a Cividale giovedì 21 luglio.

Immagine articolo Fucine Mute

Sarah Gherbitz (SG): Qual è il rapporto tra la mitteleuropa e Alessandria d’Egitto?

Franco Però (FP): Da queste terre i rapporti con Alessandria d’Egitto erano di tutti i tipi, commerciali, ad alto e bassissimo livello, uomini e donne che andavano… Ma principalmente nel Goriziano sloveno c’è stata una forte migrazione femminile cominciata nell’ultimo quarto dell’Ottocento ed è andata avanti fino alla fine degli anni Trenta. Prima di tutto era una migrazione di balie, cameriere, cuoche… le balie sono diventare governanti, le cameriere hanno messo su delle piccole sartorie, hanno cominciato altri lavori e c’è stato, non dico uno spopolamento, ma quasi… Chi aveva la famiglia, per esempio le balie, certe volte dovevano lasciare i bambini piccoli qui e andavano ad allattare i bambini delle famiglie ricche egiziane, ebree, italiane, greche e così via. Chi invece aveva semplicemente il marito e non aveva ancora figli andava e poi tornava: poi qualche volta le famiglie si separavano perché le donne cominciavano un’altra vita giù. Chi ci andava molto giovane si sposava con italiani, con greci, quindi poi si sono formate naturalmente delle famiglie nuove che a loro volta hanno avuto dei figli che sono nati già alessandrini. È un fenomeno iniziato da Suez in poi ma s’impone principalmente verso gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento ed è andato avanti fino alla seconda guerra mondiale. Loro sono rimasti giù fino al ’56, l’epoca delle nazionalizzazioni nassiriane, e al più tardi nei primi anni Sessanta sono tornati su quasi tutti, e lì sono rimasti in molto pochi.

SG: Come è nato il suo interesse per queste storie di migrazione?

Immagine articolo Fucine MuteFP: Per quanto riguarda la scrittura, l’interesse per Alessandria era principalmente partito dai rapporti letterari alessandrini, da Fausta Cialente oppure Ungaretti, che scrive nel Carso le prime poesie che partono da Alessandria d’Egitto…Quando ho scelto di concentrarmi su queste storie di migrazione ho cominciato a fare le interviste ai figli, alle ultime alessandrine e così via. Per quanto riguarda la scrittura, volevo fosse una donna a scrivere il testo perché principalmente il lavoro è focalizzato su storie di donne, quindi ho dato le interviste a Renata Ciaravino, una drammaturga milanese molto brava. Il lavoro di ricerca si è basato anche sulla lettura di alcuni libri sull’argomento: quello dello scrittore sloveno Marjan Tomsic, e poi quelli di Dorica Makuc, una giornalista di Gorizia. Poi ho trovato dei documenti alla biblioteca civica di Trieste riguardanti un asilo che prendeva tutte queste ragazze che arrivavano dalle provincie dell’impero asburgico alla ricerca di un lavoro. Quindi tutte queste testimonianze di donne, dei loro figli insieme ai documenti e a frammenti di libri, costituiscono il materiale da cui è stato tratto Quando la sera, ad Alexandria. Si tratta di materiale vasto, con cui si sarebbe potuto fare e si potrebbero fare molti spettacoli. Per quanto riguarda la messinscena, ho trovato l’idea di una semplice serata ad Alessandria negli anni Trenta, in una sala da ballo dove alcune ragazze si ritrovano nel fine settimana con i ragazzi egiziani. Attraverso lo spettacolo m’interessava far emergere dinamiche di rapporti, di storie di lavoro, di nostalgie di casa, d’innamoramenti tra persone di culture e tradizioni diverse: insomma, momenti di vita. La particolarità che mi incuriosiva, che volevo far venir fuori e che speriamo venga fuori, è proprio il cosmopolitismo presente fra le persone appartenenti ad un basso ceto sociale unito alla capacità di rispetto reciproco tra culture diverse: tutti elementi che scaturiscono dalla necessità di vivere insieme per lavoro.

SG: Come si è avvicinato al teatro? Quali personaggi hanno influenzato di più la sua carriera?

FP: Ho cominciato a Trieste, c’era una scuola di teatro dove insegnavano attori più giovani, chi lavorava già allo Stabile e così via, qualche regista della Rai, Ugo Amodeo, Spiro Dalla Porta Xydias… Come succede a molti, non sapevo se preferivo recitare o volevo passare dall’altra parte del palcoscenico. Finita la scuola ho cominciato subito a lavorare come attore, prima allo Stabile di Trieste, e subito dopo allo Stabile di Torino. Poi ho lasciato, mi sono laureato, ho fatto il servizio militare, fino a capire che la strada che più mi interessava era quella della regia. Quindi, grazie alle minime conoscenze che ho avuto tramite questi lavori, ho cominciato a fare le prime assistenze, con Giorgio Pressburger. E poi c’è stato un incontro con Aldo Trionfo, ci avevo lavorato come attore proprio alla mia seconda esperienza professionale. Sono stato suo assistente e da lì, tramite l’Emilia Romagna Teatro, ho conosciuto Gabriele Lavia che doveva fare Il gabbiano. Lavia aveva bisogno di un assistente e con lui ho lavorato quattro anni, fino alla prima regia che poi è nata proprio nell’ambito del Teatro Eliseo dove lavoravo come assistente fisso per due, tre anni. In realtà se devo dire qual è stato l’incontro fondamentale non lo so: da una parte ho cominciato anche molto presto, quando andavo ancora a scuola, e facevo la comparsa al Teatro Verdi di Trieste. Per altri versi ho finito la scuola, ho cominciato il teatro, l’ho lasciato per laurearmi, quindi è stato lungo il percorso per scegliere la regia… per cui non ho avuto un solo maestro. Sono stati molti, e posso dire che i primissimi insegnanti, come Ugo Amodeo e Spiro della Porta Xidias in realtà mi hanno dato altrettanto di quello che può avermi dato Aldo Trionfo che sicuramente ripensando a quello che mi ha insegnato anche involontariamente mi ha dato molto. Sicuramente i quattro anni con Lavia, anche se molte cose ci separavano dal punto di vista tecnico, sono stati importantissimi. Mi ricordo anche un lungo spettacolo quand’ero assistente all’Eliseo, la preparazione di uno spettacolo fatto con George Wilson, regista e attore francese, e sicuramente mi ha dato molto. E così ogni persona, ogni spettacolo visto: mi ricordo che proprio qui, allo Stabile Rossetti, venne uno spettacolo, anzi due: L’alfabeto dei villani e La guerra degli zanni per la regia di Giovanni Poli, un regista veneziano che ha lavorato molto sulla commedia dell’arte che poi ha lasciato il teatro professionale per insegnare in quella piccola scuola che si chiamava l’Avogaria a Venezia. È stato uno degli spettacoli che più mi ha coinvolto e più mi è rimasto nella mente come un punto importantissimo della mia formazione. Così come L’Orlando furioso di Ronconi visto in Piazza Unità: sono tante piccole cose, tante persone che hanno dato…certe volte anche le persone più lontane. Per esempio, Aldo Trionfo, dopo aver fatto le prime regie, mi chiamò una volta per chiedermi se non mi offendevo della proposta che voleva farmi di firmare in due una regia. Lui stava un po’ male ed era uno spettacolo  molto lontana dai miei gusti, un testo contemporaneo. Però accettai con molta gioia, e mi piacque molto lavorare con lui di nuovo, ad un altro livello: anche questo mi diede tantissimo. Quindi non c’è una persona ma sono tante persone, tante situazioni, tanti spettacoli ai quali ho “rubato” qualcosa, e ognuno dei quali mi ha dato qualcosa.

SG: Quali sono state le sue esperienze di regia all’estero?

Immagine articolo Fucine MuteFP: Ho partecipato con i miei spettacoli a festival stranieri negli Stati Uniti, a Teheran e in Francia, ma quando partecipi con gli spettacoli ad un festival straniero il rapporto con quello stato non esiste: vai lì, fai un festival, discuti un po’ con le persone che trovi, ma non capisci come si lavora. C’è stata invece un’occasione, all’inizio un’occasione che poi è continuata in altri due momenti in questi ultimi anni con il Théâtre Populaire Romand della Svizzera francese. Io ho fatto quattro o cinque anni fa una versione di Lo straniero di Camus che ha girato molto in Italia ed è stato anche all’estero ai festival. Il direttore del teatro l’ha visto e mi ha chiesto di farne una versione francese. Poi c’è stata una ripresa, e, sempre per lo stesso teatro, ho fatto anche un adattamento di Uno, nessuno, centomila di Pirandello. Lavorare con una lingua straniera è sempre una cosa molto particolare nel teatro di prosa perché, visto che al novanta per cento si tratta di parlare, anche se tu conosci la lingua, la capisci molto bene e la parli, la difficoltà (anche se lavori su un testo che hai già allestito) è sempre una cosa un po’ delicata. Perché le piccole variazioni, le piccole nuances possono far variare tantissimo la tua linea di interpretazione dei personaggi. In realtà colpisce molto quanto anche in paesi vicini che tutto sommato dovrebbero avere più o meno la stessa cultura della nostra, la differenza si rivela molto grande nel modo di recepire le cose, nel modo di accettare da parte del pubblico uno stesso testo. Tra l’altro è molto curioso quando riesci a lavorare nella tua lingua in un paese, come in questo caso è l’Italia, ed in un paese straniero. È incredibile come le persone con cui condividi l’identico modo di pensare, di vedere e affrontare la realtà reagiscono in maniera completamente diversa di fronte ad un testo in due lingue diverse pur appartenenti a stati vicini e confinanti. È un fatto che affascina non poco, e dimostra come il minimo spostamento culturale determini un risultato molto, molto diverso.

SG: Quali sono i suoi prossimi progetti?

FP: A parte un allestimento che farò subito dopo questo spettacolo, una riscrittura che Masolino D’Amico ha fatto su Vertigo, il romanzo da cui Hitchcock trasse il film La donna che visse due volte e che debutterà quest’estate al festival di Borgio Verezzi, il lavoro più impegnativo che mi attende per l’inverno è sicuramente la versione di Se questo è un uomo che debutterà i primi di gennaio al Teatro Stabile di Palermo con Nello Mascia come protagonista. È una proposta che ho accettato con un certo timore per la complessità, la difficoltà e la bellezza del testo e anche perché una volta trovato l’adattamento fatto dallo stesso Primo Levi, a questo punto sto proprio combattendo tra adattamento e romanzo per la messinscena. Sono molto curioso di capire come un romanzo che è tra i più letti in Europa, e nell’occidente in generale, a tanti anni di distanza possa essere recepito e montato su un palcoscenico specialmente in un momento in cui, anche grazie al romanzo, è iniziato tutto un filone di film, soprattutto televisivi, sulla tragedia dell’Olocausto. È una bella sfida, sicuramente il lavoro più impegnativo per la prossima stagione.

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