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Percorsi

Universi in quattro giorni: l’Araucania (I)

Foto di Paolo Ghiotto MarinVolare verso la Patagonia, ispirato dai racconti d’un cantore del “cono sur” che non fosse Chatwin, sapeva di felice colpo di coda. Attratti all’unisono da Chiloè, isola nativa di Francisco Coloane, la fusoliera dell’aereo e l’istinto di viandante parevano calamitati dal polo meridionale del mondo. Fuori dall’oblò, il cielo elencava i vulcani dell’Araucania, essenze già lette nei brani dello scrittore cileno: terra, fuoco, neve, e gli sguardi dei boschi d’Arrayanes misti al Canelo, albero sacro degli antichi Mapuches, rivolti a quell’oceano così caro a Neruda.

Davvero un buon auspicio!

Una volta atterrato, di Chatwin, colse solo il patos di lontane architetture anglosassoni, e quel perdere i passi tra i grumi delle case in corteccia di Puerto Montt, ridossate per illusione ottica, al vulcano Osorno. Scricchiolavano al vento come bastimenti alla deriva. Fu li, che una pittrice mezza svizzera-mezza cilena, lo gelò con la notizia sulla presunta morte di Francisco.

– “Impossibile” — rifletté:

Coloane è un brujo, nato in un’isola d’anime naviganti, proprio dove la cordigliera andina e la placca continentale cozzano l’oceano. È cresciuto ascoltando leggende d’orrendi satiri, seduttori di donne bellissime; la Pincoya che tenta d’annegare mozzi e pescatori d’ostriche ingrovigliandoli con capelli di medusa, mentre il Caleuche, mitico veliero fantasma, li trae in salvo tra luci e canti lungo il fosco periplo dell’isola di Chiloè.

Il Caleuche aveva probabilmente salvato anche Coloane, cavaliere benpensante di novant’anni, sopravvissuto a Chatwin lungo il camino Austral… lo stesso di Neruda.

Negli uffici comunali di Quemchi, Teolinda, nipote d’una compagna di giochi di Francisco, lo sollevò: -“No! Don Pancho vive a Santiago. Vederlo? Impossibile! L’unico contatto praticabile è Virginia Vidal, scrittrice santiaghina, amica della famiglia Coloane, e redattrice delle sue ultime memorie”-.

Foto di Paolo Ghiotto MarinIl giorno dopo, s’imbarcò per Puerto Natales. L’indirizzo mail di Virginia in tasca, e la fotocopia d’una foto con la quale Teolinda immortalò, l’ultima nuotata di Coloane nel mar di Quemchi. L’isola sfilò via sul lato opposto a quello esplorato un tempo da Darwin, sponda di cercatori di sale ed oro. Sfilarono via le chiese di legno simili a carene di navi rovesciate, le orme dei pescatori che consumano vita e marosi a colpi di rete, il profumo di quei miscugli di molluschi e verdure che diviene Curanto, solo dopo che i ciloti l’hanno cucinato per ore, dentro buchi ricavati nelle brughiere.

A bordo del traghetto Magallanes, acciaio che non abbisogna di stringere il vento sulle vele, come tocca al Caleuche, conobbe la fine del mondo:

Ventenni americani, Nikon puntate, il breviario “In Patagonia” tra le mani, a confondersi con le generazioni perdute di Pinochet. Assieme, invasero le lande tortuose e i fiordi del gelo nord, un tempo regno degli estinti Chonos, indigeni capaci di sfidare correnti impossibili su gusci di noci, ben prima di Magellano. Per giorni le retine fissarono i cristalli turchini della laguna San Rafael, tramortita dall’aria color indaco che si spalma sulle surrealiste sculture di ghiaccio, protese al ritiro.

Puerto Natales, è il campo base del brulicante andirivieni per le Torri del Paine, la corona regale di vette che orna la coda di balena sudamericana, prima che divenga Antartide. La vicina grotta del Milodonte, odorante d’urine, è ormai ridotta ad un luogo di tristi rassegne cinematografiche sulla fine del mondo.

Mail in a bottle:

-“Sconosciuta Virginia, la Terra del fuoco è un’esperienza sottile, smarrimento ulissico nel “nulla di speciale” che respiri in certi villaggi minerari abbandonati un secolo fa, abitati da fantasmi. Si va in compagnia d’un paesaggio a pastelli sferzato dal vento, che finisce per somigliare alla dilatazione delle nostre intimità. Amare i luoghi che da Punta Arenas conducono ad Usuhaia, è rendersi conto del “non senso” d’un confine divisorio che fa impazzire solo i viaggiatori. Quaggiù, non esiste frontiera tra lo spirito umano e la strada. In un bar ho saputo di Casimiro Ferrari, re dei ragni di Lecco. Domani risalirò la Ruta 40, poi il Camino Austral. Spero di giungere a Santiago con un racconto sul nulla da barattare con i tuoi… Francisco Colone, Neruda, Valparaiso… Allende!”-

Foto di Paolo Ghiotto Marin

Mi risveglio morbidamente e prendo coscienza d’essere risalito da un sogno. Io che non sogno mai! Il viaggio notturno sul “Vagon-cama” Santiago-Pucon, ha impastato il materiale onirico del mio inconscio, complice la comodità di questi sedili reclinabili che permettono l’orizzontalità completa. Meglio che in aereo! Il sogno, già pronto a dissolversi, ha ripercorso nel sonno l’inizio d’un viaggio che intrapresi, più o meno tre anni fa, su queste medesime lande… ma in aereo. L’ouverture d’un viaggio di quattro mesi che avrebbe toccato Cile del sud, Argentina e Bolivia, sorvolò l’Araucania in meno d’un’ora…  (il bus, per percorrere i mille chilometri che separano Santiago da Pucon, è partito alle 22.00 di ieri ed arriverà a destinazione soltanto alle 7.00)…  Bastò quell’ora volante per rimanere affascinato da un rizoma di Vulcani, laghi, boschi ed azzurro. Allora, dell’Araucania non conoscevo quasi nulla, malamente sapevo che c’era nato Neruda, a Temuco, 90 chilometri più a nord di Pucon…  eppure, i vulcani mi provocarono un impatto emotivo ben superiore a qualsivoglia conoscenza od ignoranza…  m’inebriarono d’attrazione fatale, particolari razze montuose di fate morgane! Mi ripromisi che ritornando dalla Patagonia, la ruta quaranta ed il camino Austral, avrei dedicato almeno quattro giorni a quei luoghi…  (soli quattro giorni per un universo di vulcani?)…  Come avrei capito più avanti, i vulcani non sono tipi semplici, non puoi decidere tu se vederli o meno, se salirci su o no…  un’antica leggenda Mapuche — antico e odierno popolo dell’Araucania — avverte che se ad un vulcano non vai a genio, diverrà impossibile avvicinarlo. Farà di tutto perché l’incontro, che davi tanto per scontato, non avvenga, per anni interi, ad ogni reiterato tentativo.

E questo accadde puntualmente! Ritornando dal versante orientale delle Ande, m’infilai nella regione dei laghi senza considerare l’inizio dell’autunno cileno. Per dieci giorni ininterrotti (altro che quattro!) venne giù acqua a valangate, ed i vulcani nascosero ogni traccia di se, in perfetto stile con l’ermetismo di chi popola la regione.

Risvegliandomi dal sogno, dal viaggio mitico, ricarico in memoria le esperienze passate in questi luoghi. Guardo fuori, giusto in tempo per rendermi conto che ci lasciamo dietro Temuco, città natale di Neruda…  auspicio di buon tempo per i quattro giorni che mi attendono?

Ma cos’è l’Araucania, detta anche, regione dei laghi?

Foto di Paolo Ghiotto Marin

È una terra situata molto più a sud di Santiago del Cile, compresa tra il 37° e il 43° parallelo, cioè entro i limiti geografici del fiume Bio-Bio e la costa che affacciata alla grande isola di Ciloè, anticipa il camino Austral ed un mondo di ghiacci eterni. Neruda, nativo di qui, la considerava il cuore del Cile, non a torto. Terra di boschi millenari, vulcani, laghi e fiumi, l’Araucania attirò tribù nomadi dalle pampas argentine nel XII° e XIII° secolo. Provenienti da ovest, al di là della cordigliera andina, queste genti, invece d’imporre la propria lingua, assorbirono quella dei popoli assoggettati, fatto che garantì l’uniformità linguistica dei nativi cileni nei secoli a venire. Ma non fu solo il linguaggio, che è particolarmente musicale e non gutturale, ciò che i nuovi venuti appresero dagli indigeni…  esperti vasai, allevatori, contadini.

Questi nomadi si chiamano Mapuche, “gente della terra” (mapu = terra — che = gente…  N.B. Ancor oggi in Argentina — Che — significa signore). Nome conservato tutt’oggi, evitando il giogo degli Incas, rimasti confinanti a nord del Bio-Bio, sia degli spagnoli capitanati da Pedro de Valdivia, fondatore di città come Santiago, Valdivia stessa, Serena. I mapuches vissero indipendenti sino al 1881, e pur annessi al Cile, rimasero fedeli alle loro tradizioni e culture ancestrali.
Un popolo fiero e guerriero, se si considera che Pedro de Valdivia venne sconfitto ed ucciso già nel 1553 per mano di Lautaro, prima luogotenente dello spagnolo, poi leggendario cacique e comandante della temuta cavalleria Mapuche.
L’Araucano, è popolo totemico, animistico, capace di nutrire grande rispetto per la natura, e di permeare con tale rispetto, fitte relazioni sociali. Non costretto alla guerra, fu popolo mite e tranquillo, come segue essendo ancor oggi. Non si ha notizia, nella storia degli Araucani, di tentativi espansionistici. Coesione ed intelligenza, sia in pace che in guerra, permise loro di conservare indipendenza e nobiltà per lungo tempo, unico popolo a non essere sopraffatto, in America latina, dai re mida spagnoli.
Senza dimostrare eccessivo interesse per la parola scritta, permisero ai missionari d’intessere contatti, d’integrarsi nelle loro comunità, seppur privi dell’appoggio militare spagnolo. I mapuches, mai attirati dalle religioni, permisero ai Cappuccini italiani, Gesuiti tedeschi e francescani bavaresi, di registrare l’esistenza d’un popolo fiero e ricco di tradizioni, quale era il loro, nella memoria del mondo.

Perché la regione si chiami Araucania, è una delle prime cose che uno si chiede: il nome trae origine dall’idioma Quechua degli Incas, che la chiamavano “Promanca”, cioè terra selvaggia dei ribelli (auca=popoli ribelli che non si sottomisero + purun=terra incolta e selvaggia), poi trasformato in “Arauco”, acque di creta (raq=creta + co=acqua). Fu il poeta e conquistatore spagnolo Alonso Ercilla y Zuniga a coniare per primo questo nome, dando titolo ad un poema epico, che pubblicato in due parti (1569 e 1589), venne ambientato tra queste lande: “La Araucana”. Il titolo dell’opera fu ispirato ad Ersilla, dal nome d’un fortino spagnolo costruito, ed in seguito distrutto, a sud del fiume Bio-Bio… l’Arauco.

Viaggio di notte verso Pucon attirato dall’invito di due amici: Armando Zapata, pittore di madonne incantevoli. Fondendo i sincretismi della religione cattolica con il profondo animismo Mapuche, si è inventato uno stile simile a quello delle scuole russe, sognante, naif…  quasi figlio di Chagal.

Carlos Gray Aguirre, scrittore e poeta, ha dalla sua studi di canto al conservatorio. È assessore alla cultura nella municipalità di Pucon. Uomo gentile e raffinato nei modi, ricco di humor, un vero gentleman. L’ho conosciuto, neanche una settimana fa, allo stadio italiano di Santiago… no!… Non è uno stadio!… Chiamano così, il circolo fondato nella capitale cilena dai primi emigranti italiani, ora frequentato dai loro discendenti o presunti tali: campi da calcio, tennis, atletica, bar ristorante, ufficiali dei carabinieri in alta uniforme, una fitta attività culturale che spazia dalle mostre di pittura (li ho potuto apprezzare per la prima volta i quadri di Armando), ai concerti di musica da camera, recital di poesia, libri dappertutto.

Immagine articolo Fucine Mute

Carlos presentava — accompagnato al pianoforte — un racconto di tangheri cileni… no, no… non tangheri in senso di ribaldi, ma di ballerini cileni innamorati “del” tango. Un vibrante, agile racconto colmo di umorismo e sentimenti, incentrato sulla figura d’un ballerino, sfegatato veneratore di Gardel, che all’apice della sua carriera, tra funambolismi e milonghe, gli tocca perdere una gamba.

Al recital mi trascinò a forza la mia madrina cilena, Virginia Vidal, carissima amica di Carlos. Gray mi garbò subito, di primo acchito, anche perché dopo la lettura, ci deliziò con abili traiettorie e scarti danzerini, ispirando l’ilarità generale per via di certe smorfie e mimiche di ribrezzo, tanto era braccato ed idolatrato da nugoli di donne… over sessanta! Un assessore alla cultura di Pucon, terra fiera e magnifica, costretto a proporre le sue cose a Santiago? Ebbene Si! Il fatto rende perfettamente l’idea, quanto in Cile, tutto graviti attorno a Santiago, tutto deve passare per Santiago! Ecco perché un terzo della popolazione di questo paese lungo 7000 km, vive nella capitale dalla quale sono fuggito!

Armando e Carlos, amici per la pelle, vivono assieme alla periferia di Pucon, in una casa che “vede” il vulcano Villarrica. In riva al lago, e all’ombra del vulcano, Pucon è meta turistica di tutto rispetto in qualsiasi periodo dell’anno, luogo di villeggiatura definito la Svizzera del Cile.

06.12.04 — Pucon- I° giorno

Quando il taxi, alle sette e un quarto del mattino, mi scarica nei pressi di una casa bassa, tipicamente cilena, più di legno che di pietra, ad accogliermi in un’atmosfera piuttosto sonnacchiosa, è un cocker color biscotto. Oltre lo steccato, piroetta e fa le feste nell’erba alta del giardino trasandato selvaticamente.

È Isolina, parte integrante della famiglia, e terrore delle imprudenti galline dei vicini di casa. Funziona meglio del campanello, visto il casino che fa.

Un viso mezzo addormentato si affaccia alla finestra, poi esce ad aprirmi cercando d’ammansire inutilmente l’entusiasmo di Isolina: -“È un pessimo cane da guardia ed un ottimo cacciatore di galline… praticamente un disastro, ma è talmente… umano?”-

Immagine articolo Fucine MuteÈ così che conosco Armando, il madonnaro! Viso gentile e mite, occhi liquidi e capelli lunghi ad ornargli i lineamenti, quasi figli delle stesse madonne ammirate allo stadio italiano. Una volta in casa butta su l’acqua per il caffè e pane tostato, parlando e sorridendo con dolcezza ad Isolina e ad Abelardo, il gatto di casa, come se fossero fratelli… i due sguinzagliano certi sguardi! Gli manca solo la parola! Ciarliamo di Santiago, di Virginia e le sue fisse, d’amici comuni… Neruda.

Casa semplice ed accogliente, le pitture d’Armando si mescolano a maschere fatte di legno, lana di pecora e penne d’uccello, e ad un gran bazar di libri e dischi alla deriva in un disordine quasi… letterario?

Di fronte al solito nescafè e al latte in polvere, mi viene da chiedergli perché in Cile, nonostante l’abbondanza di vacche, sul mercato interno il latte naturale sia pressoché inesistente… trovi solo quello finto. -“Dicono che succeda per accordi economici con l’Argentina, il latte fresco è quasi tutto argentino”- Si? Vale la pena ribadirgli che ad est delle Ande, ti dicono la stessa cosa? Che il latte fresco proviene solo dal Cile e che in Argentina ci si cucca solo latte in polvere? Chissà chi mette in giro queste voci? Puzza tanto di raggiri multinazionali… o delle multinazionali?

Con la scusa del latte, Armando mi offre un punto di vista sul golpe del 1973 differente da quelli che mi sono stati offerti fin qui: “Sono sempre stato apolitico. I ricordi terribili del Cile che mi rimangono impressi, sono legati ai tempi che precedettero il colpo di stato di Pinochet. Avevo dodici anni, e mi mettevo in fila alle quattro del mattino per il pane ed il latte (ogni persona durante il governo Allende, aveva diritto ad un litro di latte giornaliero.) Quando verso mezzogiorno giungeva il mio turno, il latte era sparito, nemmeno l’ombra d’una goccia. Questa era la gestione delle derrate che ne facevano i “companeros”, e vivevamo a Valparaiso, dove la cosa — si dice — funzionasse bene. Bambino, mi toccava lottare con gente adulta, priva di scrupoli per quel litro di latte. Ho assistito a molte discriminazioni subite da coloro che non la pensavano, o meglio, che non erano allineati al pensiero politico di Allende. Il Cile viveva nel caos totale, condannato alla povertà più cruda. Poi, certamente non è andata meglio, anzi, abbiamo pagato un prezzo durissimo per quell’ordine, a partire dalla totale mancanza di libertà, sia personale che civica… fu così che inizio l’interminabile periodo del latte in polvere e… della giustizia in polvere!”

Verso mezzogiorno usciamo nel sole, lasciando Isolina a difendere il territorio dalla possibile invasione delle galline dei vicini. Attraversiamo la città piana, intessuta da lunghe vie ortogonali, giungendo al lago. Ci mettiamo a passeggiare sulla spiaggia di ghiaia vulcanica che costeggia la città… è ancora deserta.

Foto di Paolo Ghiotto Marin

Armando confessa di non amare molto i turisti cileni. Lui, nato a Valparaiso, è convinto che siano i suoi compatrioti, i veri stranieri d’Araucania. -“Vi è un’infinità d’europei che ama questa terra, più della nostra stessa gente”-. In questa spiaggia, delimitata da alberghi, lui non ci viene mai. Da buon artista, ha un suo posto segreto che pochi conoscono, un’ansa dove il fiume Pucon (ma chiamano tutto alla stessa maniera da queste parti?) si riversa nel lago Villarrica. Tornando sui nostri passi c’imbattiamo in un altissimo eucalipto:

-“Ha centocinquant’anni e la circonferenza d’otto uomini a braccia aperte. Pensa! Qualche fesso dell’amministrazione comunale, s’era messo in testa di “traslocarlo”, radici e tutto. Motivo? Infastidiva la zona alberghiera! Se non è mancanza d’amore questa, cos’è? Grazie a ribellioni e furor di popolo, è rimasto dov’è nato centocinquant’anni fa, partorito dai mapuches prima che esistesse il Cile”-

-“Be’… e questo? Non ti sembra un grande atto d’amore?”- gli rispondo.
Armando sorride timido.

-oO0Oo-

Sono giunto in città, il giorno dopo che è stato rinnovo il mandato al sindaco. Nella sala comunale colma di gente banchettante, Carlos mi riserva un’accoglienza inattesa, presentandomi a tutti, sprecando titoli che non merito… scrittore, giornalista, poeta, italiano (macché, mi piacciono i dolci, questo si!… e se ne accorgono tutti!). Dietro a questa apologia, sospetto ci sia lo zampino di Virginia Vidal, comune amica, ed unica giornalista cilena che presenziò a Stoccolma, nel 1971, la consegna del nobel a Neruda.

I volti che sfilano nel centro politico dell’Araucania, sono destinati all’olvido di tutti i nomi che vi corrispondono. Una stretta di mano dietro l’altra finisce per approdare immancabilmente nei dintorni del sindaco: Carlos Barra… uomo di mezza età e mezza altezza, annoiato e stanco dalla stessa festa organizzata in suo onore.

Al dottor Barreto, che fregiato di tale titolo lo è anche di fatto, chiedo notizie sull’interazione, nei mapuches, tra medicina convenzionale e tradizionale:

– “Vi sono stati momenti e periodi di scontro. In queste terre il Machi, l’uomo di medicina Mapuche, è da sempre considerato figura potente della società. La tradizione lo vuole predestinato, non si sceglie di divenire Machi, si è prescelti sin da giovanissimi. In passato, essere Machi, contava anche in un sistema giuridico altamente etico, pur costituendone per assurdo, il punto debole. Basti pensare che la semplice dichiarazione del Machi contro una persona, poteva costituire motivo accusatorio piuttosto grave. Oggi la Machi, visto che in maggioranza sono donne, si limita alla cura delle malattie. Da sempre, i mapuches, pensano che l’autoguarigione sia facoltà sapiente dell’uomo, del malato stesso. È sufficiente saper richiamare a se l’anima, catturata e allontanata dagli spiriti del male.

Immagine articolo Fucine Mute

Le Machi, tramite scongiuri e cure con piante medicinali, di cui sono formidabili esperte, facilitano quel ritorno, ma è indubbio che la magia ancestrale, assuma un ruolo determinante. Ho lavorato spesso con i Machi, direttamente sul campo, quotidianamente, gomito a gomito. Tale sincretismo, ci aiuta a valutare le soluzioni più svariate… a volte c’è bisogno del Machi, altre del medico, in tutti i casi resta valido il principio di Ippocrate: la guarigione del 90% delle malattie, null’altro che manifestazioni del corpo, dipendono dalla fede del paziente. La voglia di riappropriarsi di un’anima sana, dipende dal suo motore mentale…

-“E l’altro dieci percento”- chiedo al dottor Barreto.

-“L’altro dieci, dice?… Be’, sulla fede del medico!

Le Machi, dispongono d’infinite conoscenze riguardanti i medicamenti naturali, le erbe, l’analisi delle urine… è sapienza ancestrale, viva da secoli, potente perché dettata da una curiosità per l’altro che determina una diagnosi proiettata alla soluzione del problema!”-

Ascoltare Barreto è come assistere ad un simposio sull’effetto placebo a doppio senso alternato! L’infermiera che lo accompagna, indica nella tubercolosi, la malattia più diffusa tra i mapuches, dovuta ad abitazioni chiuse, spesso senza finestre e quindi poco ventilate, umide.

Carlos, invece, scoperchia un nuovo tema:

-“Il male del Cile, regioni centrali comprese, è l’assenza totale dei giovani nella vita sociale. Fermenti e passioni sono quasi estinti; e con tali prospettive, gli anziani perdono facilmente energia e voglia di fare. Sono responsabile della vita culturale di Pucon e dell’intera regione, ma la cosa non dovrebbe ridursi ad organizzare la banda cittadina. Quest’anno, a cent’anni dalla nascita di Neruda, abbiamo indetto un concorso di poesia. Il primo premio è stato assegnato ad una ragazza di diciassette anni che si firmava “Federico”. Era ovvio che non voleva essere riconosciuta, lo si è capito interagendo con i versi delle sue poesie… uno stile di rottura capace d’esprimere la voglia che aveva di godersi un uomo fino a bersene il succo, fino a sfinimento completo. Bene. Quando abbiamo comunicato il risultato della giuria al rettore del liceo, per poco non gli prende un colpo! Comincia a guardarci storto… Si aspettava, e non si sa chi l’avesse assicurato in tal senso, che il premio sarebbe stato assegnato ad un altro studente, ad uno che aveva composto versi in onore della propria nonna! Comprendi?

Foto di Paolo Ghiotto MarinQuest’energia giovane, per quanto grezza sia, è continuamente stroncata da un moralismo che è figlio delle contrazioni d’un golpe tremendo! Anche gli argentini subirono simili situazioni, ma al contrario di noi, hanno sempre avuto dalla loro una forte energia morale, che li ha portati a combattere colpo su colpo, a manifestare, per Dio!… Si è perso il conto delle sfilate solidali organizzate durante i regimi militari. Al di là delle Ande, riuscivano a mettere assieme fino a quarantamila persone, quarantamila candele accese in un sol colpo, protestavano per la “desaparicion” d’una sola persona.

Qui, nel nostro piccolo, tentiamo azioni di rottura culturale, proponendo del nuovo, situazioni che rappresentino i giovani (mi viene in mente il recital di poesia allo stadio italiano che ha preceduto la performance di Carlos, una settimana fa… un settantenne ci ha rifilato una poesia di tre pagine dedicate alla sua maestra di scuola!?!)… ci proviamo, ma il lavoro è immane!

-oO0Oo-

Il museo mapuche si trova all’interno d’un hotel di Pucon, allestito con anni di lavoro dal proprietario d’origine tedesca, uomo pervaso dal prometeico fuoco della passione per questo popolo affascinante e misterioso. Tra didascalie e silenzio mi chiarisco le idee sulla cosmogonia Mapuche:

Ngenechén, era considerato non tanto una divinità, quanto un’entità animistica poderosa, androgina, centro del bene e del male che si credeva risiedesse in una casa d’oro o nei vulcani dell’Araucania. Immagine quasi shivaita dello spirito, non venne mai adorato quanto un Dio, cosa che probabilmente decretò il mancato riconoscimento da parte del Mapuche, d’una maestà ispanica e del suo Dio cristiano. Il figlio dell’androgino spirito Ngenechén — Mareupuantu — è considerato il creatore dell’uomo e della terra, sorta di sole luminoso che indirizzò ad Est i luoghi dove orientare le rogative, liturgie con offerte e sacrifici atti ad ottenere prosperità, abbondanza, lunga vita. I mapuches non chiesero mai alcun tipo di perdono alle divinità supreme, né la felicità d’una vita ultraterrena, escludendo il bisogno di sacerdoti intermediari. Furono i missionari ad abbinare la figura del Dio Cristiano a quella di Ngenechén con successi più o meno interessanti. Il senso del bene, nei mapuches, si permeò nella necessità del vivere sereni all’interno delle comunità, regolate da un sistema giuridico che rifletteva un senso della convivenza sociale raffinatissima. Il mondo vegetale abbonda di presenze animistiche… esistono le divinità del frumento, dell’acqua, la dea della salute, completamente indipendenti dall’influsso di Ngenechén o Mareupuantu. Quando il Mapuche cucina o gode di qualsiasi bene ricavato dalla natura, ne offre un po’ alla terra, simile al rito d’alimentazione della PachaMama (madre terra), presente in Perù e in Bolivia tra le popolazioni di radice Quechua ed Aymara.

Calendario mapuche

Altre due divinità fondamentali per i mapuches, sono costituite da Pillan e Huecufu.

Pillan è responsabile dei drammatici e catastrofici fenomeni della natura, eruzioni vulcaniche, tempeste e inondazioni, nonché presenza alquanto affascinante dell’olimpo Mapuche. Viene considerato, infatti, protettore del corpo umano, perché del corpo e dell’anima umana ne è parte integrante. Il nome Pillan è composto da due parti, Pellu e Am. Pellu significa la grande anima, di cui tutti gli uomini fanno parte. Am, significa sempre anima, ma quella individuale d’ogni essere umano. Quando una persona muore, Am resta attorno al cadavere, fa festa con parenti ed amici, ne invade i sogni, per poi ricongiungersi con Pellu (che coincidenza con il libro tibetano dei morti!). La ricongiunzione delle due entità, vive tra le nubi del cielo, divenendo il genio, lo spirito totemico dell’intera razza Mapuche. Questo per quanto riguarda le persone comuni. Distinto è il destino dei guerrieri e dei loro capi (Caciques), soprattutto se caduti in battaglia eroicamente. Si narra che le anime d’antiche antenate mapuche si trasformarono in balene, con il compito di trasbordare lo spirito Pillan dei guerrieri, sulla sacra isola di Mocha, posta dove tramonta il sole. La manifestazione di questi spiriti sono i fulmini e le saette. Il Pillan dei caciques più valorosi, o dei patriarchi che fondarono i lignaggi delle varie famiglie mapuches, dimorano nei vulcani, conservando le loro sembianze corporali, anche se invisibili, i gusti, caratteri, mentalità e passioni degli uomini che furono in vita. Dimostrano il loro stato d’animo attraverso le manifestazioni atmosferiche, governano le eruzioni vulcaniche, piogge e siccità, dalla loro volontà dipendono i raccolti, la fecondità o la sterilità degli animali. Non si adorano né come demoni né come spiriti buoni, bisogna propiziarsene l’appoggio con offerte, feste, sacrifici ed invocazioni (le così dette rogative).

Huecufù (colui che opera da fuori), invece, è lo spirito malvagio per natura, colui che entra nell’uomo per rubargli l’anima, che lo ammala, una sorta di Satana cristiano che agisce soltanto quando viene istigato da maghi e streghe, mai di sua iniziativa. Così istigato, entra nelle case della gente, nei loro cuori, ed ha come terribile nemico la figura dei Machi.

Esistono altre divinità minori, ma non meno importanti. Il Meulen, anima dei mulinelli a vento, oppure il signore del mare identificato in una lontra. Pozzi e sorgenti sono divinità indipendenti, quanto le dee delle onde, o una sorta di Nettuno che vive nei laghi. Vi è poi Mareupuante, spirito del matrimonio, Epunamun, signore della guerra… nell’antichità si credeva che qualsiasi essere vivente fosse alitato da uno spirito assestante.

Fuori dal museo Mapuche di Pucon, leggo una frase rivelatoria, una sorta d’ouverture a quell’animismo ermetico che lega l’uomo della terra Mapuche ai vulcani della sua regione:

Chi potrebbe dire che un vulcano non possa volare? Che gli manca per farlo?

Foto di Paolo Ghiotto Marin

“Le ali d’un drago” ripeto tra me e me, dando il via alla ricerca avventurosa di quei nessi, che smuovendomi qualcosa nell’intimo, lontano da qui, mi hanno spinto su latitudini di laghi, vulcani, misteri ed alberi antichi quanto dinosauri. Il viaggio parte sempre dall’anima d’ognuno di noi, se pronta a vibrare e librarsi in volo.

Il vulcano, come già visto, è un’entità animistica ambivalente, maligna e benigna allo stesso tempo. Quali tracce vulcaniche troverei in me, se mi mettessi a “sragionare” come un Mapuche? Che significato intimo potrei cogliere, al fine di giustificare l’attrazione che questa grande anima mi contagia?

Il vulcano è un monte di terra (la componente capricorno del mio segno zodiacale) dal cuore di fuoco (il sagittario, domina undici dei tredici pianeti, nel mio cielo natale) ricoperto dall’elemento acqua di nevi e ghiacci (il sincretismo tra l’acqua ed il fuoco sono invece presenti nel mio segno zodiacale cinese, il drago! Un Drago di legno, però, quasi a ricordare le immense foreste che ornano le lande della VII^ e VIII^ regione cilena). Le ali di un drago pronto a spiccare il volo, servirebbero ad un vulcano! Il Villarrica, con i suoi 2847 metri, si staglia nitido, mentre Carlos ed Armando, approfittando di quel mio perdermi in teorie di vulcani draghi e pianeti in sagittario, mi raccontano di come l’antico popolo guerriero dei mapuches, in grado di respingere le invasioni incaiche e spagnole, oggigiorno, stia riprendendo possesso dei territori d’Araucania… Lo stato li ricompra dai privati, restituendoli ai proprietari originari a costi pressoché simbolici. Un tempo, i mapuches non consideravano la terra come mezzo di sostentamento da sfruttare, non erano né allevatori né coltivatori, vivevano in equilibrio raccogliendo i doni spontanei delle terre a sud del Bio-Bio (che significa canto dell’uccello fui fui).

-“Ma come è successo che i mapuches resistettero agli spagnoli, contrariamente a civiltà molto più avanzate e poderose”- mi viene da chiedere a Carlos.

-“La differenza con i popoli Aymara, ed Incas in particolare, stava nel fatto che il loro imperatore si credesse incarnazione divina in terra. Tutti ne erano convinti! Bastava che gli avversari lo catturassero e lo uccidessero per sminuirne l’autorità e garantirsi la cattività del popolo. Gli spagnoli conquistarono il continente con la forza di eserciti dai ranghi ridotti… raramente superavano le cento unità. Con i mapuches le cose non andarono allo stesso modo…

Immagine articolo Fucine MuteCatturare un Cacique (capo guerriero) non significava debellare l’intero popolo, ogni clan ne aveva uno di suo che partecipava ad un consiglio presieduto dal sommo capo, il Toqui. Un po’ come i Sioux! E poi la strategia! Geniali tessitori di una fitta rete spionistica, i mapuches non affrontarono mai gli spagnoli frontalmente, ma con imboscate improvvise. La loro temutissima cavalleria, equipaggiava i lancieri con armi lunghe quattro metri in grado di colpire i nemici evitando il corpo a corpo. Abilissimi con le bolas, le utilizzavano per far franare a terra cavalli e cavalieri avversari.”-

Armando cambia discorso, esponendo una storia recente che mette in luce l’animismo degli Araucani. Nel 1960, durante il terribile terremoto che devastò il sud del Cile, i mapuches sacrificarono un loro figlio per placare le ire della terra. La Machi, figura fondamentale della comunità indigena, che è predestinata sin da tenera età a convertirsi in donna degli spiriti, fu condannata per infanticidio, scatenando scandali, polemiche… eppure, dopo quell’atto, le ire della terra si placarono misteriosamente.

La sera la passiamo a casa di Carlos ed Armando, con alcune amiche… ridicolissima l’idea che hanno della musica italiana. Nicola di Bari, Franco Simone, Gianni Bella, Iva Zanichi, fanno furori. Sono tutti fuori di testa, per le loro canzoni! Tento il rilancio, accennando De Gregori, Paolo Conte, Ivano Fossati, Franco Battiato… De Andrè!… macché! Nessuno sa nulla!

7.12.04 — Pucon — II° giorno

In una mattina deliziata dal sole, ci dirigiamo fuori Pucon. Destinazione? L’istituto scolastico più importante della zona, frequentato dai bambini che vivono nelle comunità rurali dei dintorni. In questo splendido luogo, immerso nei boschi, Carlos e Ilse Sinpfendorfen, soprano e cantante lirica d’origine tedesca, da tempo curano l’attività del coro dei bambini Araucani di lingua Mapuche. Di fronte alla quasi indifferenza dei politici del posto, fortunatamente — L’Unesco — interessata all’iniziativa, da quest’anno ha deciso di patrocinarla, offrendo un forte impulso per la salvaguardia delle tradizioni locali.

Foto di Paolo Ghiotto MarinI bambini cantori di Carilefu guidati da Ilse, dimostrano un impegno che va ben oltre la naturale timidezza. Il coro è composto da bambini del III° e IV° anno basico. I mapuches lillipuziani consumano i loro canti, alimentando l’entusiasmo del pubblico, composto per lo più dagli stessi compagni di scuola. La festa continua ben dopo la performance, completandosi in giochi, risa e rincorse, sui prati che circondano l’istituto.

Di ritorno, la jeep infila sterrati tra boschi odorosi d’humus ricchi di fiumi, posti dove gli originari tedeschi hanno tirato su villaggi in miniatura, microcosmi dal retrogusto che sembra recuperare le atmosfere della foresta nera… cabanas, caffetterie, agriturismi restano indietro, sparendo nei polveroni alzati dai pneumatici.

Nella zona di Quelhue vive Eduardo, l’infermiere addetto al distaccamento medico che offre assistenza periodica ai villaggi Mapuche. Opera sul limite esatto che separa il mondo rurale da quello di Pucon. Decidiamo di andarlo a trovare.

Edoardo conferma percentuali preponderanti, nei mapuches, di disturbi alle vie respiratorie. La presenza dei Machi, diminuisce l’incidenza delle malattie nelle comunità, cosa che ha stimolato una certa sinergia tra medici e Machi, soprattutto per la cura delle malattie generiche. Un tempo, ogni comunità aveva la propria Machi, pronta ad accorrere, scontato il compenso, si necessitava della sua sapienza. Cambiano i tempi… oggi sono i mapuches che vanno a trovare le machi, sorbendosi lunghi tragitti anche per un semplice consulto.

Ringraziando gli spiriti della terra, questi luoghi, sono ricchi d’erbe. Durante i periodi propizi, i Machi, si riuniscono qui assieme a Eduardo. Raccogliendo segreti e rimedi vegetali, gironzolano per giorni interi nei boschi. “Chi mi colpisce di più — afferma Eduardo — sono i Machi che risiedono lontano da qui, in luoghi meno rigogliosi… ebbene… conoscono alla perfezione tutte le erbe, anche quelle endemiche. Del palo santo, ne conoscevo soltanto le qualità aromatiche, un legno che tagliato a pezzetti ed acceso alle estremità, emana incenso. Profuma le case, ma non soltanto, a sentire Eduardo. La corteccia di questi alberi, messa in infusione, regala una sorta di tè rosso, dolciastro con retrogusto aspro che lega la lingua… aiuta a lenire dolori di stomaco, risolutore nel caso di ulcere, oltre che ottimo depuratore del sangue. Il principio cicatrizzante della rosa mosqueta…  con le bacche seccate si produce un olio che si utilizza per nutrire e rigenerare la pelle. Anche l’aloe vera ha svariate qualità. Gli indigeni la usano per curare ustioni lievi. Si scelgono piante dalle foglie larghe e ben sviluppate che vengono tagliate ortogonalmente. Le fettucce ellittiche, una volta aperte, divengono fazzoletti di gel rinfrescante da applicare dove serve.

Foto di Paolo Ghiotto Marin

Il maqui, invece, è un piccolo albero che produce frutti neri utili per la dissenteria. Il Canelo è la pianta sacra dei mapuches… prova a masticarne le foglie — mi suggerisce Eduardo…  Piccanti!…  Infuse in acqua bollente, vengono usate per gli ascessi dentali.

Dopo la lezione di botanica, si va a trovare un Lonko che abita li vicino. In lingua mapuche, lonko significa testa, o capo. In tempo di guerra il Lonko diveniva Cacique. Entriamo in una casina di legno, la “ruca”. Dalle nostre parti verrebbe utilizzata controvoglia, pure come capanno per gli attrezzi. Io la trovo bella, sa di casa e nido, forse perché riscaldata da una stufa che ricorda uno sparherd alpino.

-“Don Ferdinando — mi spiega Eduardo — soffre d’ipertensione e pressione alta. Lo curiamo con le medicine del distaccamento medico, senza disdegnare i tradizionali rimedi dei limoni e delle foglie di carciofo”-

Visto che sua moglie Elvira sta preparando una zuppa, mi salta in testa di insegnarle la ricetta della jota, la ricetta speciale di mia nonna Ida, quella che rivelo soltanto agli amici più intimi. La ricetta, finisce per innescare l’ilarità generale… i mapuches trovano bizzarro il mio entusiasmo per una minestra di cappucci austro — ungarica.

Mi spiegano che i campi ognuno li lavora per proprio conto, un tempo funzionava diversamente, soprattutto durante la mietitura del grano.

Lonko Ferdinando, non è molto diverso da un vecchino qualunque. Ai quesiti risponde evasivo, come se ciò che gli chiedo non fossero affari suoi! Ad ogni domanda rivolta, guarda Eduardo quasi per ricevere conferma di quello che vorrei sapere. S’imbastisce a mia insaputa una speciale liturgia. Io interrogo il Lonko, che facendo finta di non capire chiede a Eduardo cosa voglio da lui. Alla spiegazione che ne segue, Don Ferdinando farfuglia qualcosa d’incomprensibile che Eduardo mi traduce di santa pazienza… E così via! È come superare una prova, una sorta d’incantesimo, di rito magico… E se non gli stessi simpatico? La naturale estroversione del mio carattere, stavolta non serve a nulla, la chiave è un’altra!

Tra le tante interviste fatte in giro per il mondo, dove chiunque parla a ruota libera, quella con il Lonko si rivelerà tra le più difficili… Eppure, nonostante gli indubbi intoppi, diviene esperienza dell’insegnamento per gradi… poco a poco… Mentre assisto alla lentezza di questa liturgia a tre, mi rendo conto quanto è necessario che viaggiatori ed esploratori d’anime “occidentali” sgretolino il proprio ego di fronte alle culture antiche e ai loro segreti ancestrali. Un giornalista normale perderebbe la pazienza, imprecherebbe per l’inutilità del gioco… Cristo! Tanta strada per niente (ma guarda in che buco sono finito per sentir farfugliare un vecchio!), una sigaretta dietro l’altra di fronte al nulla di fatto!

Immagine articolo Fucine Mute

Tra queste penombre, invece, scorgo l’antico dono dei re taumaturghi, il senso d’una corte dei miracoli, finisco per scoprire qualcosa d’altro, di più sottile ed alchemico.

La comunicazione anziché adagiarsi sul senso logico delle parole, sulla semantica dei dialoghi, sublima e discende su altre dimensioni, fatte di pause, silenzi, giochetti dello gnorri, scioglimenti in veroniche del non detto, in equilibrismi del “non te lo voglio dire… intuiscilo da te, se ci riesci”. Di fronte a Don Ferdinando, che mi nasconde le sorgenti delle sue tradizioni e la storia del suo popolo, mi tocca avvicinarmi, non con la presunzione dell’intelletto, ma come una brocca vuota che si chini con difficoltà sul gretto d’un fiume, al fine di carpire soltanto qualcosa di quell’acqua dove brillano briciole in pagliuzze d’oro. Solo lì, in quei funambolismi invisibili d’un discorso toreato in silenzio, percepisco l’essenza dei mapuches, che sta più nel nascosto che nel rivelato… e ti deve andar bene così, pure gli Incas e gli spagnoli dovettero accontentarsi, in fin dei conti, ben prima che fossi nato tu, ben prima che giungessi da queste parti a bighellonare in giro. Don Ferdinando, capta l’inversione ad u della mia ripredisposizione, e quel nonnulla, finisce per scucirgli un racconto di mezzo sorriso, in surplace tra l’ebete e il beffardo:

La rogativa è una forma di preghiera alla madre terra, le si chiede l’abbondanza dei raccolti, tempo buono. È un rituale fondamentale della società Mapuche che si svolge ogni quattro anni, rispettando l’indicazione degli antichi. Una festa d’aggregazione. Si compie nelle vicinanze di un luogo sacro (ginatun). I giovani della comunità formano, correndo, un circolo di bandiere azzurre e bianche, mentre all’interno si posizionano il Lonko e la Machi. Durante la rogativa, Don Ferdinando monta un cavallo albino… lo vedo brucare in pace a poca distanza dalla casa, dentro un piccolo spiazzo recintato.

Le date scelte per le rogative, sono le più disparate, ogni comunità sceglie la sua…  “Da noi è il ventisei dicembre, ma in altre parti, a soli pochi chilometri da qui, la data è un’altra”… Il Lonko è solitamente l’uomo più anziano dell’assemblea. Don Ferdinando ha 87 anni e desidera vivere altri 87 anni, afferma sorridendo.

Dietro la casa, nel campo vicino, una delle sue nove figlie, sta dissodando il campo, lo prepara — dice — per la semina della lattuga. Nove figlie ed un unico figlio nato per ultimo; Marcelo… purtroppo ritardato, ma non per questo meno amato. Sa scrivere appena, eppure Don Ferdinando si consola citando un certo Ranghileo, antico savio, che tentò di dar vita ad una letteratura mapuche, ma non venne preso molto sul serio. La gente Mapuche, continua a considerare più il “parlato” che la scrittura, e del “parlato”, il senso ermetico. Che sia per questo motivo, che i progenitori Araucani, nel conquistare le lande ad ovest delle Ande, invece d’imporre la propria lingua, acquisirono e fecero propria quella degli indigeni nativi?

Salutando la famiglia ci restituiamo ai campi, in mezzo alla ricchezza d’arbusti ed alberi, ai profumi di finocchio selvatico, mirto e menta. Dopo aver scavalcato a ritroso un paio di recinti, Eduardo, come se leggesse i miei pensieri, mi confida:

“Questi uomini sono degli ermetici, badano più alla pratica che alla grammatica. Don Ferdinando è un Lonko poderoso, sapiente, fonte di consigli e saggezza per i centoventi mapuches della comunità di Quelhue.

Foto di Paolo Ghiotto MarinIn casa di Eduardo provo l’infuso di al palo santo… stranissimo!
Eduardo ha studiato due anni di medicina a Teumuco, novanta chilometri più a Nord di qui. Dopo gli studi, ha scelto il lavoro sul campo, tra la gente rurale, per pura morale ippocratica. Il lavoro, ognuno lo sviluppa secondo la propria natura. Sono abituato e mi piace ascoltare, non soltanto i Machi, la gente stessa. I Machi non si considerano sciamani, ma tecnici del sogno, visionari dell’urina d’ogni paziente… questi sono i canali diagnostici della loro scienza, e la loro conoscenza spesso ci permette di guarire dove la medicina classica non può nulla. Come questo avvenga non ci è dato di sapere. È indubbio che i Machi abbiano uno spiccato senso della responsabilità, quando la loro scienza nulla può, sono loro stessi ad interpellare i medici e la situazione si capovolge… tutto sommato è una gran bella storia lavorare qui, scuola ed esercizio continuo di convivenza e rispetto reciproco.

fine prima parte

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