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Cinema

La televisione nell’epoca di Fellini (II)

La Tv è un rito funebre travestito da music hall
Federico Fellini

2.3 Fellini in Tv: gli anni Settanta 

Immagine articolo Fucine MuteIl rapporto di amore/odio fra Fellini e la tv è stato più volte ripreso sia dall’autore, in numerose interviste, sia da biografi e studiosi che ne hanno seguito i passi e ricostruito le vicende. In Fare un film il regista si confessa sulle capacità tecniche ed espressive del mezzo, confidando in una maggiore malleabilità del formato per i suoi intensi e continui lavori sull’immagine. Entriamo qui in una nuova dimensione, quella che seguirà l’ultima fase del lavoro di Fellini di cui vedremo in dettaglio E la nave va, Ginger e Fred, Intervista e La voce della Luna.

Ma prima di giungere a questo, riassumiamo il pensiero dell’autore che, come già ripetuto, considererà negativa la sua esperienza con la televisione, tanto da tornare a dedicarsi esclusivamente al cinema, rappresentando sullo schermo il decadimento morale e culturale della società tutta. Ma dopo I clown, non passeranno molti anni e Fellini si ritroverà a fare i conti con quella realtà ripudiata — ma mai rimossa — tanto da attirare le critiche di studiosi e analisti di cinema. In Ginger e Fred metterà in mostra l’inconsistenza di un programma televisivo, anticipando di un anno le sue prime pubblicità per la Campari, realizzando i famosi fegatelli (pellicola girata e mai inserita nel film), in cui si cimenterà nella creazioni di false pubblicità, ricalcando quelle vere con stile e destrezza.

Cominciamo col parlare della televisione stessa. Inizialmente tentato da questo mezzo, Fellini ne rimase così deluso che affermò non solo la mediocrità del mezzo, ma anche l’impossibilità di lavorare contemporaneamente sia nel cinema che nella tv. La platea televisiva è differente da quella cinematografica. Banale affermazione, ma dai risvolti molto importanti. La sala cinematografica svolge una funzione ritualistica, quasi religiosa, mentre l’entrare nelle case degli spettatori pone in una prospettiva svantaggiosa. Con chi si comunica? Si chiede il regista, con quale messaggio? Mentre al cinema vige una sorta di rispetto, di sacralità nelle case, al contrario, lo spettatore si sente padrone del mezzo. E così facendo bisogna snaturare i propri stilemi tanto da impoverire la narrazione stessa. Al cinema non c’è la paura che il pubblico possa cambiar canale, far chiasso, distrarsi, in televisione invece è il regista a dover far chiasso, attirando l’attenzione come un saltimbanco, economizzando sul tempo della fruizione. Verrebbe da dire che il senso della fruizione fra un film cinematografico ed uno televisivo si capovolge: al cinema vince la battuta finale, in televisione quella iniziale, capace di coinvolgere appieno i sensi dello spettatore.

Per quanto riguarda la tecnica, invece, l’impossibilità dei campi medi e lunghi impediscono una spontaneità nella sintassi, cambiandone il senso del racconto e riducendolo ad una serie di quadri. Inoltre lo spettatore può iniziare a guardare il film in ogni momento (come i primi fruitori delle sale cinematografiche parigine, che entravano a film iniziato, o le compagnie teatrali elisabettiane nell’Inghilterra settecentesca, in cui gli elementi principali della narrazione ricorrevano continuamente!), impedendo al regista di creare quadri troppo lunghi in modo che non si perda il filo del discorso. Infine, qualità portante del cinema felliniano è la luce, che da espressione si riduce a mera illustrazione dell’immagine.

Seppur breve, questa sintesi non può non far notare le affinità elettive del regista Fellini, con molti degli studi sul medium cinematografico che studiosi della comunicazione e semiologi affrontavano in quegli stessi anni. E dopo queste due esperienze prettamente televisive, ci avviamo ad affrontare l’ultima parte del nostro lavoro, dividendo gli ultimi film carichi di vere e proprie pubblicità, da quella particolare e breve narrazione filmica che Fellini adottò per girare, tra l’ottantasei e il novantadue, sei spot televisivi contravvenendo solo idealmente alla promessa che mai più si sarebbe accostato a quel mondo.

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Capitolo III

3.1. L’ultima fase

Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe/ accesero la televisione e ci guardarono cantare/
Per una mezz’oretta/poi ci mandarono a cagare/
La domenica delle salme non si udirono fucilate/il gas esilarante presidiava le strade/
La domenica delle salme si portò via tutti i pensieri / e le regine del tua culpa affollavano i parrucchieri/
La domenica delle salme
[1]

Il testo riportato in esergo è di Fabrizio De Andrè, tratto dall’album Le nuvole (1990) in cui il simbolismo del cantautore genovese si fa aspra critica contro la società dei potenti e, ancora una volta, contro la strapotenza/strafottenza della televisione. È qui che nelle passeggiate domenicali, l’uomo massificato, lo spettatore disilluso, si aggira per le strade con l’andatura di un morto.
Non appaia questa una forzatura, se rapportata a quel Fellini degli ultimi anni, — di cui già abbiamo abbondantemente riproposto il pensiero — le cui immagini tanto ricordano la musicalità e la poeticità di questo testo.
Citazione a parte, siamo arrivati al punto in cui tre importantissimi film quali Ginger e Fred, Intervista e La voce della Luna, rimandano a quella parte della produzione felliniana in cui la pubblicità non è più solo un abbellimento stilistico del paesaggio, bensì si sveste, si mette a nudo, entrando a pieno titolo nella narrazione filmica.
Sono dunque cambiati i termini del paradigma. Il rapporto di causa/effetto è ormai mutato, non è più il cinema ad ospitare la pubblicità all’interno dei suoi schemi, piuttosto il contrario, in un continuo rimando di interferenze e ridondanze enunciative.
In un mutamento di prospettiva possiamo azzardare lo schema seguente:

Cinema > Pubblicità   } paleotelevisione

Pubblicità > Cinema    } neotelevisione

Come già abbiamo asserito, ciò che radicalmente cambia è il rapporto esistente fra cinema e pubblicità. Mentre nel cinema degli anni cinquanta la pubblicità viene rappresentata come richiamo all’immaginario socioculturale — le sue affichés colorate, lo star-system hollywoodiano — con l’avvento della società dello spettacolo l’immagine pubblicitaria invade totalmente non solo il testo filmico, ma l’intero apparato su cui esso si basa, mettendone in crisi l’estetica e il valore. Ed è per questo che ci soffermiamo, prima di analizzare i film citati all’inizio di questo capitolo, ad analizzare un film che è un po’ il manifesto della crisi, per molti versi inventata, del cinema di quegli anni: E la Nave va… 

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3.2 E il cinema va…

 Di quella crisi strutturale che affronta il cinema negli anni successivi all’avvento della televisione, è materia già ampiamente discussa, e talvolta travisata, che non staremo ad affrontarla in questa sede[2]. È pur vero comunque, che dopo l’ingresso di ogni nuovo medium nel villaggio globale, i vecchi medium si ridimensionano, cambiano di posto, quel tanto che basta a riequilibrare il sistema.
In quest’ambito E la nave va rappresenta l’ennesima dichiarazione d’amore che Fellini fa al mondo del cinema. Tutto è metafora e simbolo. Il regista cinematografico si rivolge ad un pubblico che non c’è più, ad una sala deserta, ed il naufragio rappresenta questa catastrofe.
Che cos’è E la nave va, se non il Cinema? O meglio, il cinema come metafora?
La prima scena del film è in bianco e nero, un omaggio agli esordi, al cinema muto. Subito dopo arriva un bianco e nero sbiadito, un color seppia tipico dei vecchi film. A seguire c’è l’avvento del cinema sonoro con l’arrivo nella nave dei cantanti dell’orchestra, infine il technicolor. Ma dove sta andando tutta questa bella gente? Si chiede Orlando il protagonista del film[3] .Già, dove va?
Forse segue quel percorso tortuoso, su un terreno vieppiù franabile, in cui naviga il cinematografo. E dove va a finire? Va a finire nel mare magnum degli spot. E, per giunta, cos’è quel mare magnum se non la televisione stessa? L’ultima scena è quella del giornalista Orlando (Fellini?) solo sulla sua zattera che, ormai naufrago, confessa allo spettatore: “Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte? ” , svelando che ci troviamo all’interno di un set cinematografico, con il rumore della macchina da presa che finisce di girare.
Come non notare anche stavolta, le strette analogie esistenti tra il cartellone pubblicitario dell’Anitona, con il latte di Orlando, stavolta frutto di un rinoceronte?
Quando chiesero a Fellini del latte di rinoceronte, non rispose. Non diede spiegazioni. Se poi quel latte sia la nostra ultima àncora di salvezza, lo straniero che irrompe nel consueto, il diverso che corre a salvarci, o semplicemente il nostro io che, all’interno della tragedia imminente, si ricongiunge col suo lato più irrazionale ed inconscio, non resta a noi che deciderlo. L’importante è non aver paura di berlo.

Capitolo IV

4.1.Ginger e Fred: ed ecco a voi!

Il film è datato 1985, proprio l’anno in cui il Parlamento italiano trasforma in legge un decreto dell’anno precedente — a firma del governo Craxi — che permette alle televisioni private dell’attuale Presidente del Consiglio di continuare a trasmettere le proprie trasmissioni. Incubo di Fellini sono non tanto le pubblicità in sé, quanto il loro ruolo disfattista nell’interrompere la linea narrativa dei suoi film. E Ginger e Fred altro non è che un manifesto, una parodia, un pastiche, dell’aberrante ruolo rivestito dalla televisione di quegl’anni. Con questo film, lo sguardo sulla tv — vista dal dietro le quinte di un fantomatico varietà — si fa ricco di cinismo e satira al contempo. Il paragone con il teatro e il cinema è lampante: il varietà non fa che mettere in mostra il peggio dei nostri istinti, denunciando una disparità di trattamento persino con i suoi ospiti, un tempo amati e acclamati dal proprio pubblico. La trama narra l’incontro di due ballerini di varietà degli anni cinquanta Ginger/Masina e Fred/Mastroianni che per ottocento mila lire decidono di riunirsi per partecipare ad un orrorifico varietà. Anzi, a dire il vero, quello che ricostruisce Fellini, non ne è che la parodia. Non certo, comunque, quel genere di avanspettacolo che tanto lo aveva affascinato in gioventù.

Quello che appare in tv è bieca pornografia, il cannibalismo pure e semplice venduto ad una massa insignificante e indistinta di pubblico. Basti osservare i personaggi che popolano il grande show per farsene un’idea. Un travestito porta l’amore nelle carceri, un ingegnere da “guinness” dei primati che detiene il record incontrastato di giorni passati in mano ai rapitori, una donna che lascia la famiglia perché innamorata di un marziano, un santone che ingravida le donne con lo sguardo, un pentito tenuto a braccetto dalla polizia, e venticinque ballerini nani. Troppo facile dialogare su questi lapalissiani segni del decadimento culturale nell’era della società dello spettacolo. C’è poi una serie di “sosia” di personaggi famosi che stanno a rappresentare non solo “l’operazione profondamente anticulturale” messa in opera dalla tv — come afferma lo stesso Fellini — ma anche il tema del doppio, di qualcosa che vorrebbe assomigliare a qualcos’altro: come la tv che vuol essere simile al “al cinema, alla cronaca, alla realtà ”[4].

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Ma non basta. L’appiattimento che opera la tv è segnato anche dalla continua invasività dello spot che invade sia lo schermo che il personaggio.
E qui non c’è che l’imbarazzo della scelta, essendo il film intriso di una miriade di piccoli e grandi spot. A partire dall’arrivo di Ginger alla stazione Termini( di nuovo?!) ove uno Zampone, gentilmente offerto dal Cavalier Fulvio Lombardoni( non suona familiare?), invade e involgarisce il paesaggio. Poi c’è la pasta che permette di perdere peso a chi la mangia e il creatore di mutandine commestibili ai gusti più disparati.

Ma lo spot più creativo è quello degli orologi Betrix, dove un Dante in miniatura decanta la terzina iniziale della Divina Commedia, trasfigurata in uno spot d’orologi per chiunque si fosse smarrito nella selva oscura. Come scrisse Kezich: “per chi non l’avesse ancora capito, siamo nella barca di Caronte ”.[5] A differenza del viaggio dantesco con evidenti tratti salvifici però, qui è il consumismo sfrenato che adotta un capolavoro della letteratura per meri fini propagandistici.

4.1.2 I fegatelli: le false pubblicità

I “fegatelli” di Ginger e Fred, molti dei quali non inseriti nella stesura definitiva del film, rappresentano tutti gli spot pubblicitari che appaiono durante lo show, negli schermi, nelle strade, per tutta la durata del film. Di nuovo qui, sembra evidente il ricorso al passato cinematografico incapace di sopravvivere perché colpito al cuore dalla tv. Numerosi sono i segni che il regista ci lancia per tutto il film: il black-out nel bel mezzo del varietà permette ai due ballerini di guardarsi in torno, di riflettere, mentre al riaccendersi della luce ciò che resta sono solo le pubblicità del cavalier Lombardoni; oppure la scena in cui Ginger si specchia, tirandosi la pelle, non nasconde il nostalgico desiderio di tornare ad un passato ormai scomparso? Citerò qui di seguito alcuni esempi di pubblicità inseriti nel film:

1.      Stazione Termini: nell’ingresso della stazione affollata si leggono slogan come:

Anche tu più bello più forte più ricco se userai…

2.      All’interno del pulmino, come già citato, appare nelloschermo la marionetta di Dante intenta a vendere un orologio con tanto di bussola: nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai per una selva oscura/che la retta via era smarrita/ma la geniale macchina celai sotto la mussola/un portentoso oriolo fornito con la bussola/prodezza del creato/il sentiero perso è tosto ritrovato.

3.      Affianco a cumuli di immondizia si legge la scritta: Roma pulita!

4.      Ginger facendo zapping nella sua camera d’albergo, vede un uomo con la testa crivellata da colpi di pistola, seguita dallo spot pubblicitario di un risotto e di una pizza

5.      Lo spot sprizzugo, presente anche nella gara all’interno del varietà, in cui alcune casalinghe si sfidano a riconoscere i sapori inconfondibili del pomodoro.

6.      Si susseguono spot di porchette, polente, spumanti e mortadelle tutte offerte dall’aziend ache sponsorizza il varietà: azienda Lombardoni

4.2. Intervista

Immagine articolo Fucine MuteCon Intervista(1988) Fellini riduce apparentemente il campo d’azione, girando una sorta di film nostalgia in cui la Cinecittà degli anni quaranta lascia ormai il posto ad un edificio scevro di magia e poeticità che Fellini aveva idealizzato. Come ricorda in Fare un film, una delle prime immagini che colpirono la sua fantasia, fu quella di vedere Blasetti issato su una piattaforma con “un elmo in testa, e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti appesi al collo ”[6].
Ma Cinecittà non è più la stessa di un tempo, quella in cui il regista aveva lavorato e vissuto, bensì un posto invaso dalla televisione, che gira continuamente al suo interno spot pubblicitari.
Nella primissima scena del film c’è una troupe giapponese che osserva una gigantesca macchina da scrivere su cui danzano dei ballerini. Un giornalista chiede dunque a Fellini se quella è una sua creazione, un suo disegno. E lui, laconico: no, deve essere pubblicità! [7].
Durante tutto il film assistiamo ad un conflitto tra presente/passato dove si dipanano due istanze enunciative sul piano narrativo: nel film che Fellini cerca di girare — L’Amerika di Kafka — viene ripercorso tutto il suo passato, con i personaggi, i luoghi, i tempi, che popolano il suo mondo; ma il sogno si interrompe quando ci si accorge che è oramai tutto spento, vuoto, deserto. Il cinema non esiste quasi più. A metà film è Mastroianni/Snaporaz che porta una folata di ottimismo apparendo da una finestra vestito da Mandrake. Fellini ed il suo alter ego sia si salutano calorosamente, ma Mastroianni altro non fa che girare uno spot, reclamizzando un detersivo sbiancante. Federico intristito confida a Marcello che, a lui, la pubblicità non gliela fanno più fare.
La magia sembra tornare in maniera effimera quando, in piena campagna, i due si presentano al casolare di Anita Ekberg, dove tentano di riproporre la scena del bagno nella fontana inserita ne La dolce vita. Ma è solo un ricordo.
L’ultima scena è emblematica e chiarificatrice. Costretta dalla pioggia, la troupe si ritira sotto una tenda di plastica e, tutt’intorno, decine di indiani a cavallo brandiscono antenne televisive — in luogo di frecce — tentando l’ultimo assalto al cinematografo.

4.3. La voce della luna

Dare voce alla Luna, in un sopravanzare di grilli che gracchiano sempre più forte. Il binomio uomo/natura ridotto a mero consumismo, alla mercificazione dell’infinito leopardiano.
Mi fai rabbia per quanto sei fortunato. Non devi capire, guai a capire! E che faresti dopo? Tu devi solo ascoltare,solo sentirle quelle voci ed augurarti che non si stanchino mai di chiamarti!” [8]
Ivo/Benigni vaga senza meta, cercando di ascoltare i pozzi che gli sussurrano parole incomprensibili, capaci solo di cagionargli grandi mal di testa. È il poema dei folli, dei lunatici, degli incompresi. È in questo discorso che va inteso tutto il film.
Ivo si specchia nella luna che, sempre più, assume i lineamenti dell’Aldina che sembra prenderlo un po’ in giro. La natura è sottomessa definitivamente alle leggi dell’uomo, è incapace di comunicare con l’esterno se non attraverso gli spot. E la pubblicità invade il privato, rompe il silenzio, si tramuta in un infamia del paesaggio. È tutto reale e immaginato allo stesso tempo, parossistico, caricaturale, parodistico.

Ivo e gli altri lunatici se ne stanno lì, sulla soglia, in attesa. Cosa possono fare se non aspettare, in un crescendo di angoscia kierkegaardiana che li confonde? La luna invoca a gran voce: pubblicitààààà!
Ma Fellini ci propone una soluzione. Seguire l’istinto, provare ad ascoltare le voci interiori, di un inconscio che, seppur con qualche difficoltà, solo i matti, i folli, sembrano in grado di ascoltare.
E Benigni, chino su un pozzo, afferma: “Eppure io credo che, se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio…forse qualcosa potremmo capire” [9].
Ma è difficile, fare silenzio. Il medium televisivo è riuscito a portare anche la luna — non a caso intravista solo attraverso lo schermo — sulla terra, piegandola alle leggi dell’uomo. Che cosa volete di più?
E il gracchiare educato dei grilli sembra un monito, uno dei tanti riferimenti alla favola di pinocchio — cui molti fanno risalire la nascita dell’industria culturale italiana — che Fellini fa. Il grillo parlante cerca di dissuadere Ivo/Benigni a cedere alle lusinghe della società dello spettacolo, nuovo e ancor più pericoloso “paese dei balocchi”. Ma si sa la fine che fine fanno gli intellettuali, in questo caso il grillo, che con i loro moniti tentano di pedagogizzare la società, con la loro spicciola morale: finiscono impiccati — come in otto e mezzo — strozzati da quegli stessi principi morali che tentano di diffondere, oramai inadatti e anacronistici. Sciolti, inglobati e metabolizzati all’interno di quella ideologia che tentavano di sovvertire.
Ma facciamo silenzio.

Immagine articolo Fucine Mute

4.4. Gli spot televisivi: Campari soda

Dall’ottantaquattro al novantadue sono in tutto sei gli spot che Fellini gira per la televisione: uno per la Campari, due per la Barilla e tre per il banco di Roma.
Aderendo ad un progetto cui già avevano partecipato grandi firme della regia quali Antonioni, Allen, Zeffirelli — in un’iziativa indetta dall’industria pubblicitaria italiana — lo scopo fu quello di girare spot a fini commerciali senza però rinunciare agli stili e alle espressioni proprie del cinema.
Gli spot di Fellini sono veri e propri corti cinematografici, capolavori intrisi di onircità, lirismo, creati con lo stile solito dell’autore che ricorre, anche stavolta, al proprio immaginario da cui attinge immagini divenute veri e propri tableaux vivents. [10]
Partiamo con la campagna dell’ottantaquattro svolta per la Campari.Una giovane donna è seduta nello scompartimento di un treno, dove assiste annoiata al panorama che le si materializza accanto. Di fronte a lui un uomo, che ricorda il tenore di E la nave va, le sorride ammiccando.
La donna afferra un telecomando, cominciando a cambiare tutti i paesaggi possibili, finche non blocca il quadro su un’immagine che la attrae: la torre di Pisa con affianco una bottiglia di Campari.
Invito esplicito a consumare, ad acquistare la merce, ma al contempo critica implicita al sistema televisivo reo di aver creato uno spettatore annoiato e insoddisfatto; editor di se stesso, capace attraverso lo zapping di creare una propria logicità all’interno del palinsesto. Spettatore attivo, dunque, che assolve i compiti che prima erano prerogativa del solo regista.
Ma come si può conciliare un invito al consumo con la critica al sistema che lo ospita? È qui che secondo Abruzzese avviene un cortocircuito poiché: “l’ideologia dell’autore si confonde con la natura richiesta al messaggio commerciale e fallisce in tutti e due i fronti: lo spot non soddisfa la campagna per il prodotto e non soddisfa l’autore” [11].
Ma il collante che sopperisce a questa mancanza è la musica di Nino Rota che con i suoi jingle ricopre il ruolo di interfaccia con i consumi. E nel gap creatosi fra localismo/metropoli, consumismo/redenzione, c’è l’interezza del cinema con le sue facce e la sua retorica.
Esso mescola all’interno del proprio percorso narrativo passato e futuro, restituendocelo in un presente istantaneo fatto di pura immagine.

Conclusioni

Siamo davvero alla fine, speranzosi di aver restituito al lettore — seppur parzialmente — una fotografia, un ritratto, uno squarcio nella tela, che possa quanto meno ripercorrere le tappe principali di un lungo viaggio durato cinquant’anni: quello del cinema di Fellini.
Convinti che ciò di cui abbiamo narrato le gesta altro non sia che il nostro stesso viaggio. Il viaggio stesso. Come Calvino splendidamente notava al termine della sua Autobiografia di uno spettatore in cui “il film di cui credevamo essere semplici spettatori, è in realtà il film della nostra vita.” [12]
Nella cristallizzazione dei concetti, nei mutamenti prospettici, nel binomio cinema/pubblicità, devo molto agli studi di Paolo Fabbri che, prima e meglio di me, notava: “l’immagine contemporanea non è più trattamento notturno della veglia, ma un trattamento diurno del sogno” [13], esemplificando al meglio il conflitto fra pubblicità citata e pubblicità imposta.
Un altro grazie va inoltre ad Alberto Abruzzese che con Forme estetiche e società di massa ha aperto nuovi spiragli al modo di vedere, studiare e analizzare l’epoca moderna, dove — forse in un eccesso di nichilismo — tutto diventa struttura, tutto è funzionale al sistema che si cerca di abbattere. E una riflessione sul cinema, seppure piccola piccola come questa, non può non tenerne conto. Un gioco delle perle di vetro, un calembour, dove le perle di vetro sono gli specchi di un mondo altro, riflesso dai media, e all’interno di ogni singola perla vi si riversano le nostre passioni, i nostri piccoli grandi stupori, che ci permettono, dopotutto, di continuare a giocare.

Note


[1] De André F., Le nuvole, 1990 Bmg Record, Milano
[2] Basti leggere i numerosi lavori di studiosi come Sorice, Colombo, Aroldi, per farne solo qualche esempio concreto
[3] Il nome Orlando (interpretato da Freddie Jones) venne in mente a Fellini dopo aver visto una pubblicità di gelati all’aeroporto di Fiumicino
[4] Fellini F., Ginger e Fred, 1986, Longanesi, Milano
[5] Kezich T., Fellini, 1988, Rizzoli, Milano
[6] Fellini F., Fare un film, 1980, Einaudi, Torino
[7] Fellini F., Intervista, 1988, trascrizione dal film
[8] Fellini F., La voce della luna, 1990 Einaudi, Torino
[9] Ibidem
[10] Costa A., Il cinema e le arti visive, 2002, Einaudi, Torino
[11] Abruzzese A., memento mori, ibidem
[12] Calvino I., Autobiografia di uno spettatore inserita in Fellini F., Fare un film, 1980, Einaudi, Torino
[13] Fabbri P., Fellini e la madre di tutte le tentazioni, in Lo schermo “manifesto” , 2002, Guaraldi, Rimini

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