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Musica

Santino Spinelli

Baro romano drom

Immagine articolo Fucine MuteDa qualche tempo, e improvvisamente, la musica è apparsa sui tram e sui bus, nelle piazze. Nelle città con metropolitana, come Londra, Parigi, Milano, il fenomeno dei suonatori di strada che si esibiscono nelle stazioni sotterranee, è ormai abituale… A Trieste Juraj Berky e Tibor Plesko del Berky Cigansky Trio, insieme al fisarmonicista Fabio Zoratti, hanno prodotto un eccellente risultato come il cd Laudari. Berky e Plesko, rispettivamente violinista e chitarrista provenienti dalla Slovacchia, dilettano i passanti con il loro repertorio che comprende musiche popolari della loro gente, czarde ungheresi (danza popolare ungherese in cui a un’introduzione lenta segue un allegro vivace, nda), melodie russe ed ebraiche, temi da film famosi e pure motivi evergreen. Nella cultura rom il rapporto con la musica è fondamentale: “Dotati di un senso musicale dall’incredibile profondità, certamente sconosciuto a qualsiasi altro popolo” scrive Franz Liszt in un saggio del 1859, dopo averli sentiti suonare. Ancora oggi non esiste ristorante o albergo di Budapest che non abbia il proprio violinista, così come in altri territori dell’Est europeo quali appunto la Slovacchia, la Moldavia antichi menestrelli lautari mettono in musica tutti i fatti della vita. In Italia, una delle voci più interessanti e più autentiche del panorama musicale rom è quella di Santino Spinelli, poeta e musicista, fortemente impegnato nella difesa dei diritti del suo popolo. Anch’egli è, in qualche misura, legato alla città di Trieste dove insegna lingua e letteratura rom all’università e dove si è esibito più volte con i suoi musicisti.

Sarah Gherbitz (SG): La musica nella cultura zingara riveste un ruolo fondamentale. Si può dire che la conoscenza musicale consentì ad alcuni gruppi la sopravvivenza in seguito alla diaspora?

Santino Spinelli (SS): La cultura e lo stile di vita della popolazione romaní (dispregiativamente chiamata zingara dai non rom), a causa delle millenarie incomprensioni dovute alla mancata conoscenza delle origini, degli usi e dei costumi da parte della società maggioritaria e delle altrettanto millenarie repressioni, sono da sempre svincolate dai parametri di vita dei Gagé (i non Rom).

La popolazione romaní vive la musica come espressione profonda della propria esistenza, come mezzo di comunicazione di valori etici e culturali, ma anche come mezzo di decontrazione psicologica, di liberazione dalle repressioni della società esterna. Se questa popolazione esiste ancora oggi come entità culturale, la musica ha svolto un ruolo fondamentale: rappresenta il mezzo di comunicazione, di conservazione e di trasmissione culturale. Attraverso la propria musica i Rom riflettono lo stato d’animo profondo di un popolo che ha fatto del dolore e della precarietà gli emblemi del proprio virtuosismo artistico. Essa è figlia di un lungo travaglio fisico, morale e psicologico e non può non avere tratti dissonanti, malinconici, ribelli, ma allo stesso tempo è una musica viva, briosa, piena di ritmi incalzanti, piena di vita.
L’importanza del bisogno di esprimersi è di gran lunga maggiore del supporto musicale al quale chiede solo di potersi adeguare. La musica per la popolazione romaní è un momento di lirismo, di “liberazione”, di resistenza, di comunicazione e soprattutto di gran godimento.
 Da sempre la musica rappresenta un elemento importante nella trasmissione della cultura della popolazione romaní che, tramandata oralmente, contiene una maggiore carica emozionale e più sapore popolare. Inoltre la musica forma parte integrante dell’interiorità del popolo che la conserva.
La popolazione romaní l’ha articolata in tre ambiti differenziati: l’ambito professionale, l’ambito dell’intrattenimento sociale, e l’ambito familiare.
All’ambito professionale si ricollega l’attività di valenti musicisti che con il loro valore sono riusciti e riescono a superare tutte le barriere sociali e razziali e a godere dei frutti del loro straordinario talento: si pensi a Django Reinhardt, a Demetrio Karman, a Janos Bihari, a Joaquim Cortès, ai Gipsy Kings, a Camarón de la Isla, Carmen Amaya, Ricardo Ballardo detto Manitas de Plata, la Kočani Orkestar, i Taraf de Haidouks, Esma Redzepova, Raissa etc… La loro attività li porta ad essere presenti, apprezzati ed ammirati nei teatri, nelle televisioni, nelle radio.
All’ambito dell’intrattenimento sociale è connessa l’attività di gruppi musicali, di cantori di paese, di intrattenitori che si esibiscono nei locali, nelle piazze, nelle feste religiose e cittadine, dietro remunerazione. Avendo un carattere di svago questo tipo di musica — di sapore popolare — è quello più praticato. All’ambito familiare si ricollegano le filastrocche, le fiabe, i canti infantili, i canti narrativi, ma anche i canti e le musiche di pena (per liberarsi dal dolore), che vengono cantati con melodie improvvisate, nonché gli intrattenimenti musicali per il proprio divertimento (anche danze e canti) all’interno del gruppo in occasione di festività.
Nei primi due ambiti le comunità romanès suonano per gli altri, sono vere e proprie prestazioni, nel terzo ambito, quello familiare, suonano per se stessi, per comunicare, per mantenersi uniti.

SG: Nei loro percorsi i Rom hanno modificato gli stili musicali, anche a seconda dei paesi che hanno attraversato. Quali sono i generi più importanti?

Immagine articolo Fucine MuteSS: Questo è vero solo in parte, in quanto le comunità romanès adattano la loro vita ai modelli di vita della realtà maggioritaria ed hanno adattato anche il loro modo di fare musica. Non dimentichiamo che essendo musicisti di professione hanno avvertito l’esigenza di adattare la musica ai gusti del pubblico. Bisogna premettere che l”Europa, che è un mosaico culturale, è anche un mosaico musicale e ogni popolo è custode di ritmi e di stili che si sono rinnovati attraverso i secoli, grazie anche a influenze esterne, orientali e afro-americane. A questo ricco mosaico culturale europeo anche la popolazione romaní ha dato il suo apporto, con colori e forme particolari che vanno dalla tradizione popolare dei Balcani, al flamenco iberico-francese, allo swing Sinto tedesco e al jazz Manouche francese. Il modo inconfondibile di fare musica della popolazione romaní, con propri ritmi, proprie forme e proprie interpretazioni, ha tratto la sua linfa dalla regione geografica e dai condizionamenti storici e sociali dei paesi ospitanti.

Ma i Rom non hanno solo attinto dalle tradizioni musicale dei paesi ospitanti. La ricchezza di ritmi, melodie e armonie della musica romaní è stata sfruttata da compositori quali Liszt, Debussy e Stravinskij, fino ad oggi Goran Bregovic. Ma alla popolazione romaní non è mai stato riconosciuto pienamente il suo merito.

SG: E per quanto riguarda l’uso degli strumenti?

SS: È chiaro che con la scomparsa degli strumenti originari, i musicisti hanno dovuto adattare la loro musica agli strumenti europei i quali prevedevano un sistema musicale diverso da quello orientale; è logico, quindi, che anche la loro musica sia stata “adattata”. Ma anche la popolazione romaní ha dato tanto alla musica occidentale: si pensi al contributo dato anche nell’invenzione del pianoforte che deriva dal clavicembalo (clavi = tastiera, cembalo = cymbalom) a sua volta ispirato dal cymbalom, strumento che la popolazione romaní ha portato dall’India costruendolo a somiglianza del santur. Un altro strumento introdotto nei Balcani dai Rom è la zurna o zurla da cui deriva l’odierno oboe.

SG: Chi sono i Lautari?

SS: La popolazione romaní è divisa in cinque grandi gruppi: i Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals, suddivisi a loro volta in moltissimi sottogruppi che spesso prendono il loro nome a seconda della professione svolta principalmente dal gruppo. Ad esempio i Rom Kalderasa sono i Rom dediti alla lavorazione del rame o del ferro e alla fabbricazione di pentole o utensili di metallo; il termine kalderas deriva dal rumeno caldera che significa appunto “caldaia”; i Rom Ursari, sono i Rom ammaestratori di orsi nelle regioni dell’Est Europa, e derivano il termine dal rumeno ursi che significa appunto “orso”. Poi ci sono i Rom(a) Xoraxané o xoraxané romà, di religione musulmana (xoraxai significa “turco” e per traslazione “musulmano”); Sinti Eftavagarja , che derivano il loro nome dalla composizione di due termini: dal romanès efta che significa “sette” e dal termine tedesco wagen che significa “vagone, carrozzone”: costituito originariamente da sette famiglie (sette fratelli) provenienti dalla Germania, si sono insediati in Italia all’inizio del ‘900 soprattutto nel nord est e nei territori del Friuli Venezia Giulia). I Rom Lovara , allevatori e commercianti di cavalli, dal termine che in ungherese significa “cavallo”; 
Il Termine Rom Lautari sta ad indicare il gruppo di Rom musicisti di professione che suonano principalmente nelle occasioni festive civili e religiose e nei vari intrattenimenti sociali nei territori della Romania, dell’Ungheria e della Repubblica Ceca; il termine deriva dall’arabo (attraverso i turchi) aloud che significa letteralmente “legno” (in lingua provenzale lëut, da cui deriva anche l’italiano liuto).

SG: Come si è sviluppata in Europa e in Italia la produzione musicale romaní negli ultimi anni? C’è stato un maggiore riconoscimento della vostra cultura musicale?

SS: Negli ultimi anni grazie ai numerosi festival di musica etnica e world music la musica romaní è stata sicuramente maggiormente diffusa in Italia, ma soprattutto in Europa.
Bisogna far attenzione alle tendenze musicali e alle mode che tendono ad imitare e banalizzare i contenuti profondi dell’arte romaní. Esistono gruppi musicali di Gagé che si spacciano per gruppi autentici, che non hanno nessuna valenza artistica né culturale, ma sono semplici speculatori: questi gruppi danneggiano gli ascoltatori ignari, che sono privati, così, del diritto alla conoscenza della vera espressione culturale ed artistica del popolo romanó.

Immagine articolo Fucine Mute

Sicuramente la musica è un linguaggio universale che arriva al cuore prima che alla mente. La musica romaní, carica di pathos da un lato e sorretta da ritmi incalzanti dall’altra, è un mezzo importante per entrare nella sensibilità e nella cultura di un popolo pressoché sconosciuto poiché il mondo romanò è filtrato solo attraverso stereotipi negativi. Fenomeni sociali sono ingiustamente elevati a modelli culturali e l’errore del singolo porta alla condanna di intere comunità fra loro diversissime. Ciò impedisce la vera conoscenza di un patrimonio umano, artistico, musicale, letterario, linguistico e culturale nelle sue diverse tradizioni, e che appartiene all’intera umanità. La musica, superando qualsiasi barriera linguistica e razziale, è un veicolo di conoscenza straordinario. Se poi la musica romaní è ascoltata e relazionata con la storia e la cultura del nostro popolo, la conoscenza diventa veritiera. Il ventesimo secolo è stato segnato profondamente, a livello musicale, da artisti del calibro di Django Reinhardt (1910-1953), chitarrista inarrivabile, precursore del jazz Manouche in Francia e originalissimo solista che ha realizzato una perfetta fusione del linguaggio musicale romanò con quello dello swing. Egli fu uno dei pochi jazzman europei ad aver influenzato la musica nera americana, fece anche parte dell’orchestra di Duke Ellington; il suo nome è venerato nei club jazzistici di tutto il mondo, moltissimi musicisti, rom e non si sono ispirati a lui ed ancora oggi gli sono dedicati festival e rassegne di livello internazionale. El Camaron de la Isla (1950-1992) è stato il più importante interprete del flamenco contemporaneo. Fra gli artisti geniali di oggi, va sicuramente annoverato il chitarrista Sinto francese Bireli Lagrene, ma anche altri musicisti Rom, Sinti, Manouches, Romanichals e Kale sono eccellenti creatori di arie, melodie e ritmi apprezzati e imitati in tutto il mondo in quanto artisti appartenenti alla popolazione romaní. Per quanto riguarda la mia produzione artistica, a parte le opere giovanili, è sempre stata caratterizzata dalla ricerca degli stili musicali tradizionali romanès e dalla contaminazione con tradizioni musicali romanès diverse e con altri stili. Durante i concerti cerco di far comprendere che dietro un Rom esiste un mondo trasnazionale e paradigmatico, una ricchezza umana, artistica e culturale che è un patrimonio a disposizione di tutti. A me interessa che l’opinione pubblica possa esercitare il diritto alla conoscenza, ciò che gli stereotipi negativi non permettono di fare. Il patrimonio artistico e culturale romanò non deve essere solo rilevato ma anche diffuso e rispettato. Come si può rispettare ciò che non si conosce o si conosce malissimo? Inoltre cerco di informare l’opinione pubblica sulle discriminazioni e sulla segregazione razziale di cui i Rom sono vittime. Tutti partono dall’assunto errato che i Rom vogliono vivere nel modo in cui in realtà sono indotti o costretti a vivere. L’opinione pubblica a sua volta è una vittima, perché non è informata correttamente.

SG: Nel suo spettacolo “So me sinom” (letteralmente: “Ciò che sono”, nda) si registra una fusione tra musica e danza. Qual è l’idea alla base dello spettacolo?

SS: Il mio è un seminario-concerto, un viaggio musicale che ripercorre la rotta storica seguita dai miei antenati dall’India del Nord verso Occidente per arrivare nel sud dell’Italia. Cerco di spiegare, musicalmente e antropologicamente, chi siamo e come ci siamo evoluti nelle varie aree geografiche. Spiego i tratti culturali essenziali che ci caratterizzano, le diverse realtà romanès esistenti e tante altre informazioni per dar l’opportunità a chi non ci conosce di comprendere la complessità del nostro mondo, purtroppo filtrato e appiattito dagli stereotipi negativi. Il tutto con l’ausilio della musica. Parola e suono hanno la stessa importanza. La musica svolge un ruolo di coesione sociale all’interno delle famiglie romanès. I concerti servono a comprendere e condividere le atmosfere che i rom respirano nelle proprie famiglie. Tuttavia nel momento in cui il pubblico sostiene i brani ritmicamente con il battito delle mani o canta in lingua romanì i nostri refrain, o quando ancora qualcuno si alza e danza alla propria maniera, la musica svolge un ruolo di condivisione sociale e promozione di interculturalità. La parola interculturalità, oggi, è usata in maniera molto ambigua e spesso è sinonimo di mera conoscenza dell’esistenza di un’altra realtà culturale. Interculturalità, invece, ha un significato profondo e consiste essenzialmente nel “vivere” un’altra cultura. Solo “vivendo” una cultura diversa ci permette di arricchire il nostro bagaglio umano e allargare gli orizzonti culturali. L’interculturalità è una risorsa che allontana lo spettro dell’appiattimento del genere umano. Per vivere un’altra cultura e promuovere effettivamente l’interculturalità non ci vuole molto. Pensiamo alla musica, un linguaggio che ci permette di dialogare con il “cuore” prima che con la “mente” e di superare le barriere linguistiche e razziali e al canto in modo particolare: cantare tutti assieme in una lingua diversa, comprendendo il significato delle parole, è promuovere interculturalità. I risultati sono sorprendenti quando c’è il giusto rispetto e la giusta conoscenza. Ora bisogna riflettere su quante opportunità ha l’opinione pubblica di “vivere” realmente la cultura romaní, nella sua ricchezza e nella sua complessità espressiva. È un sacrosanto diritto di cui l’opinione pubblica è privata. Non tutti devono per forza ballare né tanto meno suonare come suoniamo noi, neanche nelle famiglie romanès durante una festa non tutti suonano ma tutti contribuiscono a creare l’ambiente e l’atmosfera. La coesione sociale non si ha con lo scimmiottamento di ciò che noi facciamo ma con la condivisione e il trasporto emozionale. Credo che questo sia sempre ben presente nei miei concerti.

SG: Oltre che musicista, lei è anche poeta. Qual è il rapporto tra una cultura per tradizione orale e la scelta di comunicare attraverso la poesia?

SS: Con l’opera teatrale Duj furat mulò/due volte morto ho iniziato a cimentarmi con il teatro iniziando un nuovo cammino artistico che mi affascina. Ho scritto anche una commedia Il buchvibbè, o l’elegia dell’onore dei Rom. Come vede i modi di esprimere se stessi e la propria identità sono molteplici. Per quanto riguarda l’utilizzo della lingua romaní scritta bisogna precisare che essa è stata tramandata per dieci secoli e fino a pochi decenni fa solo oralmente, e il recentissimo utilizzo della forma scritta è un dato importante: la forte e sicura presa di coscienza porta gli scrittori Rom, Sinti, Manouches, Romanichals e Kalé a cercare il posto che gli compete nelle moderne società rifiutando lo storico e riduttivo ruolo di “liberi emarginati”, quale riflesso delle politiche di annientamento della cultura romaní. Sono loro i pionieri eroici della “terza via”, ovvero l’altra possibilità di esistere senza dover essere né assimilati, né emarginati, ma soggetti attivi e liberi di esprimere le proprie specificità culturali in seno alle società ospitanti. Lo scrittore romanó si affaccia sulla pagina per specchiarsi, ed è proprio il netto contrasto fra le immagini negative stereotipate esterne e la propria interiorità che provoca incertezza e sbalordimento, ma al tempo stesso determina una maggiore presa di coscienza della propria identità. E l’ostinata ricerca d’identità è al tempo stesso ricerca di una mitologia romaní. Allo specchio della pagina gli stessi letterati chiedono di più di un fedele riflesso. Su di essa si affacciano desideri inespressi, preghiere, incantesimi, volontà di partecipazione che trovano realizzazione nella parola. Ogni pagina, ogni poesia è un diario, una trascrizione di vita, un’epitome di esperienze vissute.

Trasposte sulla carta troviamo alcune caratteristiche peculiari ereditate della tradizione orale come l’immediatezza, dovuta alla necessità di stabilire un punto di contatto con gli altri per comunicare; l’essenzialità del linguaggio, per essere sicuri di non essere fraintesi e per eliminare la frustrazione di non essere capiti; la spontaneità, per sottolineare le proprie buone intenzioni; la semplicità, in cui si riflette la desolazione della realtà circostante e il proprio sereno distacco; l’uso di ritmi e musicalità, dovuti all’esigenza di rilevare un’emozione direttamente
Le opere romanès, così, paiono dar luogo ad una lunga ed ordinaria conversazione per rompere il mortale silenzio, per scacciare la solitudine causata dalla mancanza di comunicazione.
Io personalmente ho pubblicato due raccolte di poesia bilingue romaní /italiano dal titolo Gili Romani (Canto di un Rom) e Romanipé. Purtroppo la poesia, il teatro e la letteratura romaní devono ancora essere pienamente riconosciute e apprezzate dal grande pubblico.

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