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Cinema

La ghignante realtà del potere

Suggestioni dello sguardo tra Videodrome di David Cronenberg e Fahrenheit 451 di Francois Truffaut

Immagine articolo Fucine MuteMax Renn, interpretato da un convincente James Woods, è il proprietario di una piccola emittente televisiva che trasmette filmati e immagini pornografiche. Un giorno, un collaboratore di Renn pare intercettare alcuni filmati strabordanti di sadismo e violenza. È il segnale Videodrome. Si snoda a partire di qui una vicenda che modificherà radicalmente la stessa percezione della realtà di Max. Il segnale, infatti, non rappresenta qualcosa di neutro, ma fa sviluppare, a coloro che vi sono esposti, un tumore al cervello e nel caso specifico di Max lo trasformano in un automa programmato per uccidere. Questo è quanto accade nel film, tuttavia la tematica che intendo esporre in riferimento alla questione del potere così come viene rappresentata da Cronenberg è qualcosa che non può non trascendere ogni nostro eventuale progetto di sinossi. La forza di Videodrome si trova, io credo, tra le pieghe del film, è nel mare sempre procelloso delle sfumature che siamo chiamati a muoverci. Seguendo una simile linea interpretativa, nel film s’incontrano alcune battute che sembrano essere sintomatiche dell’atmosfera entro la quale si muoverà l’intera vicenda: “Diamo alla gente ciò che la gente chiede”. “Cerchiamo l’eccitazione per l’eccitazione” confessa candidamente Max davanti alle telecamere di un talk-show al quale era stato invitato a partecipare. È questo uno dei punti chiave del film, dal momento che dall’altra parte dello schermo, apparentemente collegato dal suo studio, si trova un certo prof. O’blivion, che in seguito scopriremo nel ruolo di vittima illustre del segnale Videodrome.

Lo schermo televisivo, nelle parole del prof. O’blivion, si viene a caratterizzare come l’unico vero occhio della mente umana. O’blivion è un nome di fantasia, ma tra non molto, profetizza in termini ragionevoli, tutti avranno nomi di fantasia. Eppure, oltre ad essere un nome di fantasia, O’blivion, è un nome che allo stesso tempo intrinsecamente suggerisce l’intima appartenenza di questo personaggio ad una vita mass-mediatica, nella quale ognuno rappresenterà se stesso come posto all’interno di una video-arena, un video-circo, la gabbia dorata di Video-drome. Considerando tali termini pertanto, pare legittimo postulare che la connessione strettissima e perversa che Cronenberg ha di mira è quella tra spettacolo e realtà, ma con quale diritto di precedenza dell’un termine sull’altro? Senza alcuna precedenza, sarei tentato di rispondere, dove, piuttosto, si assiste ad una disorientante trasfigurazione senza requie dell’uno sull’altra e, per converso, della seconda sulla prima in un moto di sostanziale circolarità. O’blivion fa a tal punto parte del turpe baraccone mass-mediatico di Videodrome, pur restandone vittima, che la chiesa da lui fondata si definisce catodica.

Va, inoltre, considerato che lo stile del film sembra suggerire sin dall’inizio come possibile chiave di lettura il grande tema della massificazione dell’industria culturale. L’impressione è quella di assistere ad una rappresentazione che avverte il bisogno di spersonalizzarsi al fine di affermare se stessa. Intendo dire, che Cronenberg pare dotare ciò che rappresenta di un formato visivo che solitamente appartiene al genere del telefilm seriale classicamente statunitense. L’intera società americana si trova, qui, più che messa alla pubblica gogna, posta di fronte ad uno specchio, che tragicamente le rimanda la propria immagine. In questo itinerario interpretativo può inserirsi anche un aspetto spesso affrontato da certa cinematografia particolarmente critica verso i cosiddetti poteri forti ossia il problema della feticizzazione assegnata agli oggetti.

La televisione, mercificatrice e resa feticcio di una società infantilmente retrocessa ad uno stadio magico della coscienza, non è più soltanto un oggetto che veicola contenuti ad essa estrinseci, ma, al contrario, i contenuti vengono ad essere una sorta di metafora delle idee che appartengono agli individui umani, mentre la televisione assume sempre più i connotati di ciò che generalmente siamo soliti definire corpo in un’accezione fisica. È a questo livello che, a mio parere, possiamo individuare la perversione lungo la quale scorre tutto Videodrome: la televisione è l’altare sul quale il potere recita i propri sermoni. Il vero dramma è che l’altare come il corpo sta in piedi anche senza idee ed anche senza sermoni. La televisione è il solo, vero ed unico feticcio che la società rappresentata da Cronenberg è capace di venerare. Ne consegue — per adottare una forma lessicale acutamente fatta abusare al prof. O’blivion — che la lotta per il possesso delle menti sarà combattuta attraverso il mezzo-vivente della tv.

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A questo punto del film, sfiorando il parossismo, Cronenberg, abbatte anche l’ultima roccaforte a difesa del principio di realtà, giacché la televisione assume i connotati della realtà — dice O’blivion, quasi un alter-ego dello stesso regista — e la realtà non può che divenir meno della televisione. L’esito non potrà che essere disumanizzante, le videoallucinazioni create da Videodrome provocano, infatti, tumori al cervello.

In un contesto che sembra risentire di atmosfere cyborg, Cronenberg continua a seguire la traiettoria del film in modo tragicamente coerente fino a dire che l’unico occhio che l’uomo ha a disposizione è lo schermo televisivo. Lontano da ogni sorta d’implicazione a carattere prospettico attraverso la quale ciascun soggetto sarebbe capace di guardare il mondo con altri occhi, l’uomo di Cronenberg può solo accogliere l’ultimo Dio che la società tardo industriale e post-moderna (ed il nesso non è affatto casuale!) gli offre, al punto di arrivare ad implementarlo nel proprio cervello.

La fine del pensiero sembra fare la sua comparsa ad un livello prettamente percettivo, ciò che appare in televisione è la nuda realtà. Una realtà intesa, naturalmente, come video-allucinazione. Qui, tuttavia, il soggetto della regia cronenberghiana non è come potrebbe sembrare ad una prima visione il concetto di realtà. O, per meglio dire, Cronenberg sviluppa l’intero film prescindendo a priori da ogni qualsivoglia interpretazione oggettivistica della realtà vissuta dall’uomo. Sin dall’inizio, pertanto, la realtà di Videodrome, potremmo dire servendoci di un paradosso, non esiste. L’unico piano del reale effettivamente riconosciuto da Cronenberg è quello della percezione. La realtà dirà, infatti, O’blivion-Cronenberg che “altro è se non la percezione della realtà”.

Il soggetto della rappresentazione diviene la morte in presa diretta del pensiero umano, la sua esaltazione, la sua esasperata ed esasperante spettacolarizzazione. È questo un punto estremamente delicato del film e, parimenti, di assoluta centralità. Il pensiero umano, accogliendo dentro di sé la luce del tubo catodico, ne raccoglie ogni contenuto. Il feticcio-tv può essere, giunti a questo punto, venerato con una fede che si colloca al livello del fanatismo con tutti i contenuti che chi gestisce il potere riconosciuto all’oggetto feticcio è in grado di veicolare.

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La metabolizzazione del potere si compie a questo livello del film; il feticismo della comunicazione non ne rappresenterà altro che il fedele e inconsapevole esecutore. Parimenti un simile processo di metabolizzazione coincide anche con la stessa morte fisica dell’uomo e del suo pensiero, perché il segnale Videodrome, come detto, provoca un tumore consistente in una crescita di carne nel cervello. Il rilievo metaforico di queste immagini di Cronenberg è, a mio avviso, straordinario. La carne che cresce nel cervello di O’blivion, Max Renn e di tutti coloro che si espongono al segnale Videodrome sembra voler rappresentare il destino delle società occidentali in generale, e di quella americana in particolare, i cui soggetti sono vittime di convulsioni provocate dall’eccessiva produzione di informazioni che soffoca ogni capacità di giudizio critico, ogni atto che sembri prevedere una scelta in grado di far balzare, chi lo compie, fuori dalla gabbia d’acciaio di weberiana memoria. La carne continua a crescere, e non si assiste, com’era stato nelle aspettative di O’blivion, ad una sincronica crescita del cervello umano, ma, viceversa, alla sua fine. Il problema, tuttavia, è costituito dal segnale Videodrome e non dalle immagini, con la qual cosa Cronenberg puntualizza, prendendo posizione su un aspetto di nuovo centrale. Le immagini, infatti, ci sarebbero comunque, anche senza alcuna forma di potere, le immagini ci sono sempre state e l’uomo non sembra poterne fare a meno.

La perversione, pertanto, si annida nel segnale Videodrome che esprime una forma di potere ed è animato da un grande disegno di conquista delle menti umane. Ciò che il potere ha di mira sembra essere un gigantesco sistema di allucinazioni programmate. Il potere in Videodrome, qui il film di Cronenberg soffoca il proprio potenziale di complessità che, invece, avrebbe meritato un riconoscimento maggiore, prende le sembianze del tutto umane del sig. Convex.

A questo punto del film la narrazione, per non perdere quota, è chiamata a scegliere l’opzione politica. Barry Convex è un grande magnate del settore ottico a capo della Spectacular Optical, industria che incarna perfettamente quel capitalismo rozzamente e brutalmente cosmopolitico di matrice storicamente anglosassone, per cui in ogni quando e in ogni dove “pecunia non olet” e allora giù a fare con la medesima disinvoltura di Convex, appunto, occhiali speciali per il terzo mondo e sistemi di guida per i missili Nato.

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Il potere, nell’opera cronenberghiana, è strettamente avviluppato ai meccanismi di funzionamento della società. Esso è un intero sistema, un gigante acefalo, un liquido capace di insediarsi ovunque. Il sistema di potere ha le sembianze di un’infernale macchina che non si può distruggere in quanto non la si afferra mai. Cronenberg sembra lasciar aperta la via dell’interpretazione del potere, ma non quella di un suo sovvertimento violento, come prefigura il personaggio di Montag in Fahrenheit 451, a cui dovrebbe far seguito la palingenesi della società liberata. Tuttavia, ritengo che su questo punto sia necessario chiarire ulteriormente per non incorrere in perigliosi fraintendimenti.

Nel film di Cronenberg non manca il disegno alternativo al potere, esso anzi è più manifesto rispetto a quanto si trova in Fahrenheit 451, impersonato dalla figlia di O’blivion prima e dallo stesso Max Renn poi. La resistenza fatta da Max al potere si traduce in un duplice assassinio, tra cui quello di Convex, ma culmina nel suicidio dello stesso Max; mentre la resistenza della figlia di O’blivion non è altro che di natura passiva. Essa conserva le cassette girate dal padre prima di morire, continuando in questo modo a tenerlo in vita e apre gli occhi a Max nel momento in cui gli rivela la sua ossimorica condizione di “automa cosciente”: “La possono programmare come un videoregistratore”. La resistenza che la figlia di O’blivion fa al potere di Videodrome si sostanzia da ultimo in queste azioni. Intendo dire, che mai si ha la prefigurazione di un progetto di natura sociale alternativo. Entrambi, Max e la figlia di O’blivion si ribellano, ma scegliendo due strade terribilmente funzionali al potere. Quanto detto può risultare plausibile facendo riferimento anche ad un altro ordine di motivi.

Il potere in Videodrome è un sistema, ciò significa che non è mai riferibile soltanto al singolo individuo, ma lo trascende, il segnale Videodrome è destinato a diffondersi trovando ogni volta nuovi Barry Convex. Ciò accade proprio perché la struttura è stata metabolizzata assieme ai contenuti, a livello capillare, come sintomaticamente rappresenta Cronenberg nel momento in cui Convex inserisce nella pancia, ossia, nella parte molle del corpo di Max, la videocassetta che contiene nuovi filmati Videodrome. Il sottotesto qui evocato sembra essere l’avvenuta metabolizzazione della visione della realtà come frutto di una videoallucinazione programmata.

Max è ridotto allo stato di cosa, egli è divenuto un contenitore, un ibrido che in un barlume di coscienza umana trova il coraggio di riscattarsi. E pure è un riscatto che ha la durata di un attimo e che lo condurrà non ad una fuoriuscita dal sistema, bensì alla decisione più drastica, la cancellazione di se stesso dal sistema. Un sistema, quello del potere, presentatoci come labirintico, al punto che si potrebbe anche parlare di poteri, e, al tempo stesso, capace di farsi portatore di un proprio progetto al quale puntare.

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Cronenberg non mette in bocca un tale progetto a Convex, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma all’assistente traditore di Max. È lui, infatti, a fingere di captare il segnale Videodrome per la prima volta e a mostrare il contenuto a Max. Pertanto Cronenberg sembra scegliere un manovale del potere il quale tuttavia incarna alla perfezione quei caratteri che rendono il potere diffuso e vincente: “L’america è debole e il resto del mondo aggressivo. Dobbiamo essere puri e anche forti”. Lungo questa via, il regista canadese riesce ad individuare, rappresentandocelo, il vero ganglio del potere, quel cittadino medio americano il cui indifferente lasciarsi vivere pare costituire il concreto presupposto per la sua segregazione tra le pareti del fun all’interno delle quali, ormai da troppo tempo, istericamente si dimena.

Fahrenheit 451 di Francois Truffaut è un film che risale al 1966 e al primo sguardo non sembra un film direttamente riconducibile al maestro della Nouvelle Vague. La poetica di Truffaut impiega un po’ a decollare, inizialmente sopraffatta dal taglio politico imposto dalla narrazione di Ray Bradbury, l’autore del romanzo Gli anni della Fenice, dal quale è stato tratto il film.

Il pompiere Montag in un’ipotetica e inquietante società futura dove tutto, a partire dalla metro, risulta rovesciato, ha l’ordine di bruciare ogni libro che “infesta” le case di privati cittadini e di imprigionare tutti coloro che vengono scoperti esserne in possesso. Egli è un perfetto pompiere, ormai vicino ad una prestigiosa promozione che ne farà un uomo potente e, agli occhi della gente, di successo. Ma la vita ordinata e levigata di Montag è destinata a sgretolarsi in seguito all’incontro con la professoressa Clarissa grazie alla quale il diligente Montag abbandonerà la propria sicura razionalità, rompendo un tabù che lo porterà a scoprirsi un appassionato ed insaziabile lettore.

Da questo punto in poi Truffaut ci pone davanti al potenziale di drammatica ambivalenza che è connaturato da sempre all’essere umano, mentre il film sembra trovare la spinta necessaria per poter correre lungo i binari delle emozioni e della memoria. Montag si ritroverà a passare dal ruolo di inquisitore a quello di vittima sacrificale. Il potere non può sopportare defezioni in grado di metterlo in crisi, Montag, braccato dai suoi stessi colleghi, si rifugerà in un bosco nel quale vivono gli “uomini-libro”, una setta che impara i libri a memoria, così da mantenerne per sempre il ricordo, per poi distruggerli a loro volta.

Immagine articolo Fucine MuteIl film di Truffaut non appare complesso come il cronenberghiano Videodrome e pertanto le sue traiettorie di significato appariranno, in questa sede, più facilmente intelligibili. Qui la tematica del potere può esser fatta risaltare attraverso due centri che emergono nel corso della narrazione, quello più specificamente connesso ad una dimensione politica e, l’altro, riferibile alla sfera emotiva dei personaggi rappresentati.

Sul versante politico va detto che i neri guardiani del potere compiono le loro operazioni in modo apparentemente soft. È come se ogni volta ci trovassimo di fronte a dei veri e propri movimenti chirurgici; il potere in Fahrenheit 451 non si muove mediante azioni brusche, irruenti, ma, come dire, tutto risulta tradotto nei termini di una grammatica che non ha, in ultima istanza, da risultare comprensibile a coloro che subiscono un tale stato di cose. Siamo lontani dalle plateali e miopi scene di un qualsivoglia fascismo trionfante che per legittimare se stesso ha bisogno di dare un’immagine sempre più totale, totalizzante e, manco a dirlo, totalitaria del potere. Truffaut intelligentemente limita la presenza fascista nel film ad una semplice Ausdrucksform del potere, alle divise, alla struttura militare che fa da sfondo alle azioni del soldatino Montag. In realtà, fatta eccezione per alcuni episodi, non assistiamo mai a rotture violente, frantumazioni, insomma, non vi è alcuna notte dei cristalli a far da sottotesto al film. Questo, a mio avviso, costituisce il punto archimedeo sotto il profilo narrativo. La domanda che ne discende potrebbe esser formulata in questi termini: quale potere sta qui effettivamente rappresentando Truffaut?

Io credo che il potere a cui fa riferimento il regista francese non sia solo quello che appartenne ai regimi totalitari dei primi decenni del ’900 ma in misura più cospicua sia quello espresso dai regimi parlamentari seguenti al crollo degli stessi regimi totalitari.

Non sarà inutile ricordare che è tutto l’ambiente francese del periodo a portarsi sulla scena in Fahrenheit 451; questo film risale, infatti, alla seconda metà degli anni ’60, gli anni del Maggio francese, e, sempre di lì a qualche anno Michel Foucault avrebbe pubblicato quel testo che, assieme a Microfisica del potere, costituisce uno degli affondi più decisi del pensiero filosofico contemporaneo alle “democratiche società liberali occidentali”: Sorvegliare e punire. Uno dei grandi temi che attraversano il testo foucaultiano è proprio quello connesso all’intrinseco telos perseguito dal potere volto a normalizzare i contesti di vita degli individui.

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In Fahrenheit 451 questo sembra essere l’obiettivo di coloro che detengono il potere, la patologica e cieca volontà di appiattire la capacità critica dei soggetti che abitano la società. Questo è evidente nella risposta data da Montag alla domanda di Clarissa sul perché avesse scelto di fare il pompiere: “[…] è un lavoro come un altro”, e, al tempo stesso, rende maggiormente comprensibile il primo rogo al quale si assiste nel film che solo formalmente ha un carattere violento, piuttosto l’effetto che la scena ha sullo spettatore è di desolante freddezza. L’impressione che si avverte non è quella di un’“esecuzione pubblica” della cultura, quanto un processo di omogeneizzazione delle coscienze, una normalizzazione, appunto, che dovrà tradursi in un rinnovato slancio democratico, che in questo caso sarebbe da definirsi come una tirannia della maggioranza. Ciò che Truffaut vuol sbatterci davanti agli occhi, pertanto, è la rappresentazione del processo di razionalizzazione che ha investito le società e le coscienze occidentali dalla fine della seconda guerra mondiale. Quale immagine del potere si connette a questa razionalizzazione? Anche in questo caso partirò da un altro concetto chiave presentato da Foucault nelle pagine di Sorvegliare e punire.

Il concetto di panoptismo e la struttura ad esso collegata, il panopticon. In greco pan-opticon significa vedere tutto e questo, in sostanza, è rimasto il suo significato anche in epoca moderna. Con una sola differenza: la modernità ha pensato bene di tradurre il concetto in atto pratico. Ecco allora che il panoptismo è divenuto una figura architettonica al servizio del sistema carcerario, che, a sua volta, è al servizio del sistema di potere. Scrive Foucault: “Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte”. E, conclude in modo caustico il filosofo francese: “Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro”. Ma lo stile corrosivo di Foucault irrompe nel momento in cui ci svela l’effetto principale del Panoptikon: “Indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio; che questo apparato architettonico sia una macchina per creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita; in breve, che i detenuti siano presi in una situazione di potere di cui sono essi stessi portatori. Per questo, è nello stesso tempo troppo e troppo poco che il prigioniero sia incessantemente osservato da un sorvegliante: troppo poco perché l’essenziale è che egli sappia di essere osservato; troppo, perché egli non ha bisogno di esserlo effettivamente”. Il principio che sorregge questi ragionamenti, e che, indirettamente, può prendersi anche come cifra esplicativa dell’opera di Truffaut si riassume in due caratteristiche da sempre connaturate all’esercizio del potere, che esso sia allo stesso tempo “visibile e inverificabile”. Visibile, poiché il detenuto avrà sempre “davanti agli occhi l’alta sagoma della torre centrale”. Inverificabile, dal momento che “il detenuto non deve mai sapere se è guardato, nel momento attuale; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente”. Pertanto la normalizzazione che un certo potere crea sulle coscienze è tale che non si pone più alcuna questione legata al punto di vista da assumere sulle cose.

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Lo sguardo dei pompieri, in questo film, si rivela sempre ordinatore, omogeneizzante e, da ultimo, senz’altro autoritario. E pure l’autoritarismo, ed è qui che sta la perversione che gli uomini-libro puntano a smascherare, è ormai quasi del tutto metabolizzato dagli stessi attori sociali, è penetrato, come le cassette nel corpo di Max Renn, al punto che il coinvolgimento dei delatori nelle pratiche del potere e la stessa resistenza attiva degli uomini-libro, così intellettualizzata tuttavia da valere su di un piano eminentemente individuale, non fa che rendere il Moloch totalitario messo in scena dal regista francese più granitico.

Vi è, inoltre, ancora un aspetto del film di Truffaut assai interessante su cui soffermarsi, per quanto sia stato rappresentato in una maniera, a mio parere, eccessivamente didascalica e allusiva. Sto parlando del processo di razionalizzazione di cui è vittima la società di Fahrenheit 451 in primis sotto il profilo linguistico, che sembra tradursi in una reificazione dei rapporti intersoggettivi, se non in una loro vera e propria rimozione che, da ultimo, tocca anche la sfera della formazione degli individui, la loro educazione, quell’ambito semantico che nella lingua tedesca è definito dal termine Bildung.

Nelle scene del film ambientate all’interno della scuola ci troviamo davanti alla vera e propria dissoluzione di ogni forma di Bildung. I bambini non imparano altro che a compiere operazioni matematiche ottusamente elementari, addizionano, sottraggono, dividono e moltiplicano, ripetendo incessantemente la cantilena dei risultati ottenuti applicando queste operazioni. Le parole, pertanto, e, dunque, ogni sorta ed anche ogni speranza di comunicazione sono venute meno in questa società. Anzi, sono state annientate. E pure, se per un attimo ci fermassimo a pensare che cos’è che rende l’uomo tale, non potremmo non rispondere la sua capacità di comprensione. Come negli anni ’50 e ’80 dell’800 faceva notare lo storico Johann Gustav Droysen nel percepire l’urlo d’angoscia di colui che urla, io comprendo la sua angoscia, vale a dire egli si mostra ai miei occhi come un essere a me simile. Questo è un aspetto fondamentale anche in Fahrenheit 451 perché tanto l’espressività legata ad un sentimento d’angoscia quanto le parole sono metaforicamente nel primo caso, mentre direttamente nel secondo, dei linguaggi che veicolano significati.

La società di Fahrenheit 451 è incapace di esprimere qualsivoglia significato, di formulare quella domanda incentrata sul senso che è possibile attribuire all’esistenza dell’uomo nel mondo. Gli individui di Truffaut riescono solamente a mettere insieme dei numeri, a dare il prodotto di operazioni compiute quasi fossero delle macchine, degli automi. È una razionalità del tutto fine a se stessa, che nella migliore delle ipotesi diverrà di natura strumentale. Essa appare di matrice logica, quella logica operante nei campi di sterminio nazisti, anche là, infatti, i numeri avevano sostituito i nomi delle persone. La perversione, a mio parere, si annida proprio in questa coppia concettuale, parole, da una parte, e numeri dall’altra. Sempre seguendo il filo del pensiero di Droysen, egli non riconoscerebbe a questi bambini né ai loro insegnanti il valore di individui umani. Manca la comprensione, appunto. Mancano necessariamente, allora, i più basilari legami che possono mantenere la coesione sociale, la stessa idea di collettività. È una società vittima della freddezza, di un ordine catatonico e, per questo, tanto più inquietante, dove proprio l’assenza di ogni elementare forma di solidarietà e compartecipazione tra i soggetti coinvolti svuota di ogni umanità. Manca il sentire latino racchiuso nel termine pietas capace di infondere massicce dosi di senso alle relazioni umane. La vita vissuta dal primo Montag, scandita da intervalli talmente regolari da rendere visibili tutti gli aspetti malati e così linda, ordinata, pulita, ma soprattutto priva di incomprensione, senza rotture, levigata, è una vita priva di senso dove manca l’uomo e che si impone dall’esterno agli individui non consapevoli, com’è il caso di Montag. Dopotutto, non è così difficile per il potere imporre questo stile di vita, occorre soltanto, confida un superiore a Montag: “Organizzare il divertimento, basta tenerli occupati per farli sentire felici”. Ecco che ritorna, di nuovo, la gabbia del fun a ristabilire ogni volta le esatte proporzioni tra sovrani e sudditi.

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Il potere ha raggiunto un controllo tale delle coscienze da far credere alla gente che non è più possibile neppure morire in guerra. Non si può che morire per una casualità. La razionalizzazione pare in grado di assicurare aprioristicamente persino la sopravvivenza fisica dei soggetti che formano la comunità sociale. Nella bellissima scena in cui Montag si trova a leggere un brano di letteratura davanti alle amiche della moglie, queste ultime divengono improvvisamente vittime delle loro stesse emozioni, fino allora represse. Il potere sembra averle tanto imbri/o-gliate, istupidite, al punto da suggerire ad una di loro, a Doris: “Io non le sopporto queste sensazioni, io avevo dimenticato…”.

“I libri — spiega Montag a Clarissa — rendono la gente antisociale”. Il sostituto della lettura non potrebbe non esser rappresentato dalla televisione, intesa come grande famiglia, come corrosiva manifestazione della società dello spettacolo. Se tutto questo, ai giorni nostri, non costituisce senz’altro una novità è, viceversa, assai interessante vederne gli effetti all’interno di un sistema sociale che ha polverizzato il linguaggio. In questo contesto gli attori protagonisti del dialogo al quale partecipa la moglie di Montag rappresentano un esempio paradigmatico. Una società alla quale mancano i libri non può non diventare una società rozzamente razionalizzata. I due attori qui presenti, infatti, parlano solamente in termini numerici, creando un appiattimento comunicativo che, in mancanza di fatti, si traduce, quasi automaticamente aggiungerei, in una atrofizzazione della memoria dell’uomo, in un’incapacità di ricordare e rivivere il proprio passato. L’espressione “guarda cosa ti ho regalato per festeggiare…ho dimenticato” utilizzata dalla moglie di Montag rivolgendosi al marito esprime quanto detto con una tensione drammaticamente sobria, di cui va dato merito al genio rappresentativo di Truffaut. Senza dubbio lei fa un regalo al marito per un qualche anniversario o per ricordare un certo evento, dunque per sanzionare qualcosa che appartiene alla loro storia, ad una dimensione assolutamente intima di vita. Se l’essenza di ogni dono, è stata spesso in molte società, quella di alterare in modo positivo una determinata situazione sociale, qui ci troviamo davanti ad una sorta di contro-dono, vale a dire la moglie di Montag fa un regalo al marito sulla base dell’abitudine, al punto di dimenticare ciò che l’ha spinta a farlo, dunque sulla base di un movente che di per sé non può mai alterare alcuna situazione, ma, anzi, semanticamente esprime proprio il significato contrario. L’abitudine, la ripetizione, la ripetitività di automi che sempre riproducono se stessi, sempre eternamente uguali. Ed è nella scena della scoperta dei libri da parte della moglie di Montag che si manifesta, a mio parere, tutta la distanza tra lei e il marito. Lei non ha libri da leggere, priva di cultura, è perfettamente armonizzata con il sistema di potere che suo malgrado rappresenta e rafforza, lei non ha memoria. Sta qui, io credo, uno dei punti archimedei di Fahrenheit 451, i libri stanno a suggerirci la cifra della nostra umanità, la storia dell’uomo si rivela a noi spettatori attraverso i testi che Montag sfoglia, furtivo, nel silenzio della notte. Gli uomini, per dirla con le parole di Giambattista Vico, possono conoscere la storia, perché la fanno.

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Montag, come occhio che ha bisogno dello specchio per vedere se stesso, riscopre quel senso di pietà che caratterizza la comprensione umana e diviene capace di sciogliere i nodi della propria follia strumentalmente razionalizzatrice in un plenum emotivo degno di essere vissuto proprio grazie ai libri i quali gli restituiscono il senso della storia umana, risvegliando in lui la capacità di operare confronti e di qui esprimere una prospettiva critica sulla realtà. I libri, in definitiva, antropomorfizzano Montag in quanto è dalla dimensione del ricordo che egli attinge la propria umanità: “Devo rimettermi in pari con i ricordi del passato”.

L’ultimo aspetto del film che credo valga la pena considerare riguarda la scena nella quale Montag assiste alla morte di se stesso in presa diretta. È interessante vedere qui la capacità e la necessità per il potere di autocelebrarsi, creando la realtà, ma anche di rendere visibile l’ambiguo doppio legame che sussiste tra il Leviatano e i propri sudditi, i quali, come rappresenta il frontespizio dell’opera di Hobbes, lo subiscono pur essendo essi stessi, legati l’uno all’altro, a dargli forma e sostanza.

La creazione della realtà compiuta dal potere è un tema che può essere letto in continuità con le frasi di O’blivion in Videodrome, in quanto anche in Fahrenheit 451 i soggetti vengono ad avere percezione della realtà così come essa è stata rappresentata dal potere. Saranno questi individui, a creare, in conformità ad un’esperienza percepita di realtà, i loro desiderata, che, così configurati, non potranno che essere quelli scelti per loro dal potere.

In entrambi i film, le posizioni di resistenza al potere risultano essere perdenti in quanto esso ha dalla sua parte un genere di forza che definirei estesa. Su questo punto vorrei rifarmi al pensiero di un personaggio le cui tesi possono esser prese a modello per illustrare la tematica del potere in Fahrenheit 451 e in Videodrome. Sto parlando del gesuita, scienziato-paleontologo Teilhard de Chardin nato vicino a Clermont Ferrand nel 1881 e morto negli Stati Uniti nel 1955.

Nell’opera intitolata L’avvenire dell’uomo, come pure in altri testi, l’idea guida di Teilhard è quella di una ritmica dell’evoluzione dalla quale giungerà a formarsi ciò che lui definisce Noosfera, che apparsa con l’uomo alla fine del Terziario sarebbe in continua espansione. Ma che cos’è precisamente la Noosfera? Teilhard la definisce con queste parole: “Un sistema nervoso, tecnologico, planetario, un involucro pensante”. Ancora: “Una rete nervosa avviluppante la superficie intera della Terra”. L’uomo, secondo Teilhard, si muoverebbe all’interno di questa rete, ne sarebbe, possiamo dire, catturato da sempre. Anzi, di più. Una rete simile si costituirebbe davanti all’uomo come una sorta di specchio. La rete, infatti, sarebbe l’ingrandimento della coscienza umana davanti agli stessi esseri viventi.

Che c’entra, dunque, la Noosfera teilhardiana, che nell’interpretazione del suo creatore si stende sulla superficie terrestre come la biosfera, con la rappresentazione del potere nei due film citati?

Apparentemente niente. Se, però, facciamo attenzione ai termini impiegati da Teilhard possiamo renderci subito conto della stretta parentela che lega la Noosfera al problema del potere. Teilhard rappresenta la Noosfera con tre termini che nell’ambito della presente riflessione vengono ad avere un peso decisivo: sistema, involucro e rete. Si tratta di tre termini che richiamano alla mente l’idea di una forza estesa, come di un tappeto disteso sull’intera superficie terrestre.

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Il valore del potere è di tipo noosferico, poiché la sua forza sta appunto nel presentarsi in un’estensione assolutamente priva di centro, tant’è che non sarebbe un’ipotesi peregrina, astraendo per un momento dal contesto specifico di questi due film, parlare piuttosto di poteri. La possibilità del dominio risiede nella capacità del potere di trovarsi sdraiato, disteso su ogni coscienza, la quale non può localizzarlo altrimenti, se non riconoscendolo nella sua precipua natura di fenomeno presente e non centrato, sotto la forma di un sistema. L’uomo ricercando e indagando come fanno Max Renn e Montag può comprendere che questo involucro che l’avvolge, questa cappa di potere che lo soffoca, non è il prodotto casuale del libero operare degli individui nella storia, ma tutt’al contrario un’oggettivazione delle loro stesse coscienze, lo specchio del loro agire individuale che, parimenti, contiene al suo interno questo stesso agire. È perché siamo tanto tragicamente simili al potere che vogliamo abbattere, sembrano suggerirci Truffaut prima e Cronenberg poi, che la nostra resistenza non potrà che tradursi in una difesa individuale dagli attacchi esterni, in ciò risiede il significato ultimo dei personaggi di Max e della figlia di O’blivion in Videodrome, come pure di Montag e degli uomini-libro in Fahrenheit 451, e una simile resistenza sarà sempre destinata ad essere sconfitta. Questa somiglianza dovuta al fatto che la Noosfera-Potere è il sistema, la rete delle nostre stesse rappresentazioni appare, come in un movimento circolare, l’unica risorsa che abbiamo al fine di comprenderlo. L’estraneità sembra essere, in tal modo, sin da subito superata da una sorta di principio di pre-comprensione attraverso il quale il potere stesso, o, per meglio dire, la sua rappresentazione, sembra farci da guida nelle segrete del palazzo. La drammatica consapevolezza che Max e Montag arrivano ad avere dei meccanismi di quel potere, che loro stessi hanno difeso e diffuso, sembra poter conferire a quest’ultimo i contorni dell’umana comprensione, un attimo prima che quella fisionomia sciolga tutta la propria carica di cinismo nella risata ghignante del dis-umano.

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