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Musica

Room with a view

L’irrequietezza musicale

È un piacere incontrare nuovamente i Room with a view.
Per i patrioti davanti al monitor: la band italiana da sostenere.

Immagine articolo Fucine Mute

Fabrizio Garau (FG): Anzitutto complimenti: l’ascolto approfondito di “Collecting Shells At Lighthouse Hill” ha confermato l’ottima prima impressione della listening session. Cominciamo a parlare in maniera “istituzionale” di questo lavoro partendo da “quel famoso produttore”.

Francesco Grasso (F): Ti ringrazio. “Collecting Shells At Lighthouse Hill” è sicuramente più immediato rispetto al nostro debut album. Nonostante questo, non credo sia affatto un disco che si bruci dopo pochi ascolti. Anzi, mi sembra che, sotto la scorza di apparente maggiore fruibilità rispetto a “First Year Departure”, il nuovo album nasconda a livello subliminale tanti e tanti livelli percettivi che cominciano ad emergere solo dopo ripetuti ascolti. Merito senza dubbio anche di un lavoro di produzione, per la prima volta nella nostra carriera, su standard decisamente professionali: abbiamo avuto l’opportunità di lavorare insieme a Jens Bogren, ovvero uno dei produttori al momento più richiesti in ambito rock e metal, ben conosciuto per aver messo le mani, tra gli altri, sugli ultimi lavori di Opeth e Katatonia. L’esser riusciti ad entrare in contatto con un produttore di caratura internazionale come Jens, ed esser arrivati ad accordarci per lavorare insieme alla produzione del nuovo album, sono stati episodi fondamentali che hanno rappresentato per noi una grossa iniezione di entusiasmo, e ci hanno visti proiettati con ancora più slancio verso l’obiettivo di realizzare un album in grado di rispettare, se non superare, le aspettative che si erano create intorno a noi, all’indomani del discreto successo di pubblico e critica che il nostro debut album aveva riscosso.

Immagine articolo Fucine MuteFG: Il secondo passo è la presentazione, cioè l’estetica. Cos’ha colto di voi e del disco Zaelia Bishop, ovvero colui e che ha curato l’artwork dell’album e la sessione fotografica?

F: Abbiamo sempre ritenuto la componente grafica ed iconografica una parte fondamentale del progetto RWAV, di importanza, significato e dignità pari alla componente più specificatamente musicale. Ogni scelta estetica in genere si accompagna ad una scelta simbolica, e viene quindi discussa e ben ponderata. Nulla è lasciato al caso. Questa volta abbiamo scelto di collaborare con Zaelia Bishop, un talentuosissimo artista che tu conosci bene, e col quale siamo entrati immediatamente in sintonia. Grazie ad un continuo e proficuo confronto e scambio dialettico, abbiamo provato a catturare in immagini le atmosfere dell’album, cercando di creare una “realtà altra”, un universo intimo, prodotto della decantazione di ricordi trasfigurati dal tempo, sogni, avvenimenti lontani, prendendo oggetti dalla vita reale, quali ad esempio le onnipresenti conchiglie, e collocandoli in uno spazio parallelo, dove le regole della vita vengono deliberatamente tenute al di fuori. Su tutto questo si staglia l’aspetto smaterializzato delle figure dei bambini, l’impressione di incorporeità, di assenza di peso. Quasi delle figurine sacre, imprigionate in una soprannaturale bidimensionalità, una contemplazione sinistra, tra smarrimento sentimentale, percezione della rivelazione, e senso del meraviglioso.

FG: Parlando proprio con Zaelia, fatto salvo che in “Collecting…” c’è una consapevolezza creativa indiscutibile, eravamo d’accordo sul fatto che era un album che ci comunicava un senso di adolescenza, forse anche per il tema del cambiamento. Che ne pensate?

F: Trovo sia un grosso complimento. Perché l’adolescenza è l’età in cui nascono curiosità ed amori, è un serbatoio infinito di sentimenti, emozioni, passioni che spesso vengono poi coltivate per tutta la vita. È anche ingenuità e freschezza, rispetto al mondo che ci circonda, è irrequietezza, speranza e sogno.
Credo che la specifica sensazione di cui parli sia da collegare a quel particolarissimo incedere trasognato, ingenuo, quasi naif che fin dai tempi del nostro debut album ha in parte contraddistinto il nostro sound. Il nostro disco di debutto si reggeva addirittura quasi esclusivamente su queste premesse stilistiche, essendo stato frutto della pressoché totale, febbrile ed anarchica improvvisazione in studio di registrazione: questo rappresentava contemporaneamente il suo punto di forza ma anche il suo limite più evidente. Dietro al nuovo album c’è invece, per la prima volta, uno studio, una riflessione, un tentativo di approccio razionale e non totalmente in balia dell’umoralità, ovviamente senza perder nulla del trasposto emozionale, dello spirito adolescenziale che aveva caratterizzato il nostro debutto.

Immagine articolo Fucine Mute

FG: Ciò che tutti sottolineano è il vostro percorso stilistico particolare: su vostro consiglio sono andato anche a sentirmi i Thursday per capire il vostro nuovo lato “core”. È passato poi un anno e ho trovato sempre più gruppi che partono dal metal e finiscono per cercare una sorta di freschezza “punk” o “emo”. Come è accaduto a voi? Perché accade anche ad altri in questo momento?

F: Be’, rispondere a questa domanda anche a nome di altri mi risulta oggettivamente difficile. Posso dirti che, per quanto riguarda noi, si è trattato di un processo assolutamente spontaneo. Converrai con me su come sia assolutamente naturale ed umano assorbire e far proprio, più o meno consciamente, quanto più ti colpisce e suggestiona. Ebbene, ciò che, negli ultimi anni, più ha colpito e fatto vibrare le nostre corde emotive è stata proprio la musica di gruppi come Thursday, Dredg, Cave In, Thrice… in generale tutta quella frangia più “emozionale”, irrequieta e progressiva del rock indipendente d’oltreoceano. Arricchire il nostro sound di questo tipo d’input è stata di conseguenza un’operazione totalmente istintiva.

FG: Il lavoro sulla sezione ritmica è uno dei punti di forza di “Collecting…”, anche in virtù dei “nuovi acquisti”. Ricordo anche una requisitoria di Gino contro la doppia cassa metallara. Vi va di parlarne?

F: Vedo che hai buona memoria… Sai, abbiamo sempre ritenuto la doppia cassa poco più che uno sterile esercizio fisico, uno sfoggio di virtuosismo assolutamente non essenziale, oltre che una soluzione di arrangiamento piuttosto banale se non addirittura infantile: un cliché, e a noi i cliché non sono mai piaciuti. Aggiungici inoltre che si tratta di un qualcosa che va totalmente ad appiattire le dinamiche di una partitura, mentre noi desideriamo, al contrario, esaltare al massimo le dinamiche dei nostri pezzi proprio attraverso una ricerca ritmica che fa della non prevedibilità uno dei suoi punti di forza. In questo senso diventa fondamentale pensare il colpo di cassa sempre al posto giusto ed al momento giusto. Ciò in ogni caso non toglie che Piero sia particolarmente abile anche con la doppia cassa, ma purtroppo per lui nel nostro gruppo non ha la possibilità di sfogarsi come vorrebbe!

Immagine articolo Fucine MuteFG: Il mio pezzo preferito è “Sometimes Anywhere”, che è forse quello più sofferente e d’impatto, con dei cambi di tempo niente male. Voi invece sembrate puntare su “Friction” (c’è anche un video della canzone). Vi devo ovviamente chiedere il perché di questa scelta, ma mi piacerebbe anche un commento sull’altro pezzo.

F: La scelta di spingere “Friction” come “singolo” è dettata dal fatto che, probabilmente, si tratta del pezzo che più di tutti riesce a fornire una panoramica abbastanza completa dei contenuti stilistici dell’album condensandoli in una durata piuttosto contenuta: questo grazie anche all’estrema disinvoltura con cui le melodie liquide e trasversali nelle strofe si sciolgono nell’impatto nervoso ed irruente di basso, batteria e chitarre distorte nei ritornelli. “Sometimes Anywhere” è invece una delle canzoni più melodicamente darkeggianti dell’intero album, con le tastiere che tessono melodie synthwave anni ’80 che vanno ad incastrarsi sulle chitarre distorte, per un mood generale piuttosto cupo e decisamente d’impatto.
A livello lirico il pezzo tratta del sentimento di sradicamento, della sensazione di non appartenere realmente a nessun posto (“I don’t belong here/ I don’t belong anywhere”), la sensazione di essere sempre e comunque un po’ fuori luogo, non all’altezza, ostaggio della propria emotività e delle proprie insicurezze.

FG: Inizialmente si rimane colpiti dal diverso suono delle chitarre, poi scatta l’interesse per la sezione ritmica , ma — grazie anche alla produzione — ci si accorge della rifinitura di tastiere in qualche modo più “wave” che magniloquenti come in certi gruppi metal. Avete mai pensato a un tastierista fisso in formazione?

F: Ci piace moltissimo lavorare con le tastiere, ci affascina l’infinita gamma di sfumature che è possibile grazie ad esse donare ai pezzi, ma fondamentalmente rimaniamo legati all’impatto rock di chitarre, basso e batteria. In ogni caso, per gli arrangiamenti pianistici, lavoriamo spesso insieme ad un ragazzo, Mario Di Trani, che è veramente molto preparato e che rappresenta a tutti gli effetti un quinto membro aggiunto alla formazione. Non è escluso che in futuro le tastiere possano essere messe maggiormente in primo piano nei nostri nuovi pezzi.

Immagine articolo Fucine Mute

FG: I testi. Troppo facile parlare di metafore acquatiche e di conchiglie. Preferirei saperne di più sull’uso di una parola in comune tra questo e il disco precedente: “season”, stagione.

F: “First Year Departure”, il nostro primo album, si nutriva della profonda suggestione nei confronti degli anni della Belle Epoque, per quell’Europa divisa tra passioni contrastanti, in continuo bilico tra sogno ed incubo, speranza e dissoluzione: era una società che viveva inconsapevolmente su un campo minato, in un mondo non ancora dilaniato da guerre atroci. Tutto deve essere sembrato, per molti anni, grandioso e risplendente di una luce destinata a non spegnersi mai; ma in realtà, sotto i palpiti di una società in rapido cambiamento morale e tecnologico, si nascondeva un cancro in lenta ed inesorabile progressione. Proprio da questa fascinazione nasce un titolo come “End of Season”, presente nel nostro primo album: nelle trincee della prima guerra mondiale moriva quella che sarebbe poi apparsa alle generazioni successive come un’età dell’oro, a rappresentare simbolicamente, per estensione, un’occasione perduta, una promessa non mantenuta, un oggetto prezioso appena sfuggito di mano.
Nel nuovo album ritorna questo tema della separazione, della dipartita, della fine di un’epoca e di una stagione della vita, ma ora questi temi perdono i connotati di pura e semplice contemplazione del distacco, per assumere più evidentemente i connotati di passaggio dal vecchio al nuovo, di avvento di una nuova stagione, un nuovo inizio, una nuova partenza in tutti i sensi.

Immagine articolo Fucine Mute

FG: Ci sono gruppi estremamente elusivi, che non spiegano nulla di loro stessi. Voi avete fatto una sezione multimediale che documenta e commenta qualsiasi aspetto della creazione dell’album. Cosa vi porta ad essere così aperti?

F: La scelta di includere nel disco una sezione multimediale, ricca di commenti ed informazioni sui contenuti dell’album, è stata dettata fondamentalmente dalla volontà di “premiare” quanti acquisteranno una copia originale del cd, presentando loro un prodotto completo sotto tutti i punti di vista: un prodotto in grado di soddisfare le curiosità del fan più attento ed esigente, che ci segue fin dai nostri inizi, e allo stesso tempo di incuriosire ulteriormente chi invece si avvicinerà a noi per la prima volta proprio con “Collecting Shells at Lighthouse Hill”.
Probabilmente ci si guasterà qualcosa nella magia della fruizione, leggendo i miei commenti prima di ascoltare l’album, un po’ come leggendo la trama di un film prima di andare al cinema. Ma in ogni caso credo che quelle parole di commento non pregiudichino assolutamente la sana e libera interpretazione personale. D’altronde si tratta solamente della mia interpretazione, che probabilmente differisce da quella degli altri ragazzi del gruppo, e che non è necessariamente più giusta di quella che potrebbe dare un qualsiasi ascoltatore occasionale che si avvicini al nostro album. Il bello della musica in quanto forma d’arte è proprio questo: la capacità di diventare specchio per le nostre proiezioni individuali.

FG: Perdonate il luogo comune. Roma: solare come l’arte classica, sacra come il cattolicesimo. A sentire nomi come Aborym, Void Of Silence, Klimt 1918, En Declin, Chants Of Maldoror o il vostro sembra di essere da tutta un’altra parte. Per non parlare del vostro mitteleuropeo “First Year Departure”… Cosa sta accadendo?

F: Roma è certamente una città solare, convulsa, magmatica, eppure ti assicuro che sa allo stesso tempo essere lirica, silenziosa, notturna… di notte soprattutto, la nostra città mi ha sempre dato l’idea della magia, del surreale; Roma vuota, senza traffico, con le fontane illuminate come delle grandi scenografie bianche, ha un che di onirico, è una città nella quale è incantevole perdersi.

FG: “Collecting…” chiede di essere suonato dal vivo. Quali sono i progetti in questo senso?

F: Diverse circostanze sfavorevoli ci hanno purtroppo frenato fino ad oggi. Nonostante il disco sia pronto da più di un anno e mezzo, durante lo scorso 2005 non abbiamo comunque avuto modo di attivarci sul fronte live perché siamo stati impegnati con la realizzazione di un bonus cd che sarebbe dovuto uscire insieme a “Collecting Shells at Lighthouse Hill” in una sorta di edizione doppia. Purtroppo, per colpa di uno sfortunatissimo incidente informatico, abbiamo perso irrimediabilmente tutto il materiale a pochi giorni dalla consegna… Ti lascio immaginare quanto possa essere stato avvilente, per non dire mortificante. Si è trattato di un boccone amaro veramente difficile da digerire. In ogni caso speriamo al più presto di riuscire a scatenare comunque sul palco l’energia dei pezzi dell’album, in modo da dimenticare al più presto questa brutta esperienza.

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