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Scrittura

Roberto Galaverni

Il Cavalier Jedi a ruota libera

Narcisismo e critica

Immagine articolo Fucine MuteLuigi Nacci (LN): Ho letto in una tua intervista di qualche tempo fa che ti dichiari abbastanza ottimista sull’andamento della giovane critica italiana, vista anche la difficoltà di trovare lo spazio adeguato nei quotidiani, nell’editoria. Hai fatto i nomi di Lagazzi, Raffaelli, Cortellessa, Onofri, Scarpa, Pedullà, Febbraro, Piccini, Trevi. Rispetto ai critici appena citati, tu, come critico, come ti posizioni, ovvero: qual è la tua poetica nel far critica? E poi, faccio un passo indietro: quali sono, sempre nell’ambito della critica letteraria, i modelli ai quali hai attinto di più?

Roberto Galaverni (RG): Cosa mi differenzia dai critici che hai nominato prima, che poi sono i miei compagni di strada, non lo so bene. Bisognerebbe parlare di uno alla volta, vedendo le relazioni. Non so, posso spiegare come finora — almeno in questi anni — ho costruito il mio lavoro. Per esempio io ho lavorato molto poco di recensioni sui giornali. Alcuni dei critici che hai nominato invece sono molti bravi come recensori e quindi hanno il senso del pezzo scritto in poco tempo, con un pronto intervento della letteratura che io un po’ per mie modalità di assimilazione dei libri, un po’ per la lentezza dei miei tempi di reazione e di scrittura (lo scrivere non mi è naturale), ho praticato poco. Ultimamente ho scritto sull’inserto del “Manifesto” e anche altrove, ma è un modo di far critica che trovo poco congeniale. Sento che la mia macchina di critico per ora procede più velocemente facendo un altro tipo di operazione. Anche se questo tipo di rapporto comincia ad interessarmi sempre di più, anche per provarsi su tempi di reazione diversa.
La mia specificità è stata la narrativa e la poesia (negli ultimi anni ho fatto una full immersion e mi sono un po’ stancato…). Ho puntato su pochi scrittori, quindi su saggi abbastanza elaborati, costruiti, lunghi, delle volte anche globali, che partendo da un’opera recente ricostruivano anche il percorso di uno scrittore, per cui sono stato abbastanza selettivo, forse anche ingiusto verso tanti poeti che pure ho letto e apprezzato e amato e su cui non ho scritto abbastanza o addirittura non ho mai scritto, e sembrerebbe che io li abbia — e in effetti li ho — trascurati ma non è vero che poi non li abbia sentiti.
Mi chiedevi perché mi sono dichiarato ottimista. Ma semplicemente perché credo nel valore del nuovo, so che le persone ci sono, sia quelle che scrivono sia quelle che fanno i critici. Ultimamente sono usciti da parte di autorevoli critici già in una fase avanzata della loro carriera dei libri vagamente “iettatori”, perché parlano della morte della critica, che vuol dire anche spesso la morte della letteratura contemporanea. Sì, anche libri intelligenti, a volte fatti con cuore, ma che sarebbe forse poco raccomandabile di far leggere a un giovane perché, se li prende sul serio, si spegne… L’unica cosa è leggere e poi reagire e dire di no. Tant’è che a volte questi maestri, che sono stati anche più bravi, almeno di me, hanno storie bellissime, però hanno il vizio di essere poco generosi. Io penso che a un critico, vecchio o comunque nella maturità, si possa perdonare di non capire le nuove generazioni; ma non si può comprendere il non esser generosi verso le nuove generazioni: un critico che ha capito la letteratura degli anni ’60, ’70, ’80, o una parte di essa, può non capire il nuovo che avanza, perché non gli appartiene, non gli interessa, non lo condivide, però dovrebbe dare più credito a quello che accade.
Io facevo i nomi di questi critici, alcuni anche piuttosto bravi, ciascuno ha le proprie peculiarità, e anche i propri difetti e limiti. Mi chiedevi anche dei miei maestri: io ne ho avuti a tempi alterni, li porto sempre dentro. Ci sono anche state fasi della mia vita in cui io in quanto critico “puro” (perché non pratico la scrittura al di là della critica) li ho alternati. Mi ricordo che verso la fine dell’università, facevo questo gioco: mi divertivo a scrivere imitando i critici… ed ero piuttosto bravo, mi ricordo. Con Contini ero bravissimo ad esempio, riuscivo ad imitarlo nello stile ma dicendo delle stupidaggini… riuscivo a imitare anche Mengaldo: mi trovavo in difficoltà perché non avevo dell’uno e dell’altro l’attrezzatura tecnica. Ma il modo lo trovavo.
Riuscivo a imitare il mio professore dell’università, Ezio Raimondi, e anche Debenedetti, ma solo stilisticamente, perché loro sono dei fuoriclasse e io li vedo col binocolo.

Immagine articolo Fucine MuteNon mi riusciva di imitare un critico che ho amato molto, Sergio Solmi, che ha scritto un libro bellissimo che si chiama Scrittori negli anni. Solmi è un critico talmente naturale, scrive con tale disinvoltura, sembra che non abbia un metodo, una modalità d’approccio, uno stile ripetitivo… e di fronte a lui ero disarmato. Mi piaceva che facesse tutt’altro lavoro, non era un professore universitario o altro, e quando tornava leggenda vuole che lui aprisse i suoi libri e si sdraiasse sul divano a gambe incrociate, li leggesse e poi scrivesse il pezzo, così tranquillamente senza particolare colluttazione, almeno apparente.
Maestri critici tanti, alcuni te li ho già detti. Mengaldo è stato importante per la poesia. Spesso è bello perché li assimili, li imiti, anche facendo questi giochetti, e poi a un certo punto reagisci a loro, ed è il momento in cui vedi davvero che sono bravi, perché facendoti reagire capisci che spingono: Contini, Debenedetti, Solmi, Luigi Baldacci, e poi critici-poeti importantissimi per me: Fortini, Pasolini, li ho studiati davvero tanto loro. Zanzotto, i saggi di Montale e gli stranieri: Brodskij, Eliot, Seamus Heaney…
Ah, mi sono scordato anche Alfonso Berardinelli, lui ha un piglio…

LN: Provocatore…

RG: Sì, provocatorio-politico, che non m’appartiene ma a me piace tantissimo trovarlo in lui. È stato forse il migliore negli ultimi decenni riuscendo a far interagire la letteratura con gli orizzonti culturali, anche con la politica, con qualcosa di sociologia, coi media, però sempre attraverso il prisma della letteratura. Sono cose molto difficili da fare, perché spesso si scivola e si parla d’altro, invece lui riesce sempre a rimanere nel campo della letteratura.

Qual è il mio metodo? Davvero non te lo so dire. Il mio narcisismo, me lo dicono tutti i critici. Non ho un metodo, anche se in realtà tutti lo abbiamo. Io mi picco per non avere troppe coordinate ideologiche, per avere il mio pensiero sulle cose. Quello che vorrei fare, parlando di intenzioni piuttosto che di risultati (non credo che si riesca davvero mai), è far reagire ─ visto che comunque a me piace la letteratura ─ la realtà attraverso la letteratura. Voglio parlare del mondo, se ci riesco, attraverso i libri di politica, di antropologia, sull’esistenza dell’uomo, sulla vita, ma partendo dalla realtà vista attraverso la letteratura e non viceversa. Come l’omino che c’è alla fine della Coscienza di Zeno

LN: Vuoi farci esplodere tutti…

RG: Andare al centro di un testo e farlo esplodere. Così, come in una specie di piccolo Big Beng, sono le cose che dal testo prendono distanze e si amplificano, come un sasso gettato nello stagno e non viceversa. Io con gli anni sempre più ho capito che se pratico la letteratura devo — e poi sento: il mio cuore e il mio intelletto dicono questo — prenderla come una guida… quindi a me piace quando vedo gli altri che ci riescono, quando la letteratura è una specie di avanguardia delle cose, quando non viene considerata come l’ultima delle cose, quando tutto il mondo è stato fissato in altri luoghi, altri testi, e la letteratura deve essere una conferma o una sconfessione della realtà… Io prendo la letteratura come luogo in cui tutto è definito per la prima volta. Quindi è il mio faro, la mia guida…

LN: In Dopo la poesia [Fazi, 2001], un tuo libro di cui si è parlato molto…

RG: Per le proporzioni che hanno le cose della poesia, sì…

LN: Tu scrivi: “Se i tardi ’60 e poi i ’70 hanno come sottofondo la bancarotta della poesia, nei decenni seguenti la tensione difensiva di un fenomeno che potremmo definire di “resistenza” poetica, finisce per determinare talora una sorta di riserva della poesia, di nicchia della poesia”. Ci troviamo a ParcoPoesia, una specie di riserva indiana sulla riviera romagnola; negli ultimi tempi, mi pare, che le riserve si stiano moltiplicando un po’ dappertutto, attraverso la nascita di festival, più o meno internazionali, più o meno improvvisati, siti internet, soprattutto blog in cui i poeti si ritrovano spesso anche per spettegolare: e forse il pettegolezzo è giù una forma di riconoscimento, visto che chi spettegola si identifica all’interno di un una comunità… in uno scenario di questo tipo, disomogeneo, frammentato, minato anche dalla presenza di riserve più simili a cricche, cosa può, cosa deve fare il critico, secondo te? Deve entrare come un antropologo nella riserva e osservare, annotare, analizzare, oppure come un arbitro super partes lavorare per il superamento della frammentazione?

RG: Le cose che hai letto credo che vengano da un saggio in cui io cercavo di disegnare a un pubblico inglese un piccolo panorama di quello che era accaduto negli ultimi decenni della poesia italiana, cosa che mi ha imbarazzato molto fare perché disegnare mappe, geografie, panorami, è di una violenza inaudita: senti che non rispetti la verità delle cose perché semplifichi i fenomeni al punto di fare necessariamente perdere loro vitalità. È molto meno violento (ed era già stato violento) fare un’antologia della poesia contemporanea dall’80 in poi (che feci alla metà degli anni ’90) (Nuovi poeti italiani contemporanei, Guaraldi, 1996, ndr), ma lì era meno “tirannica” l’operazione. Avevo deciso di riportare una frase di Henry Miller che credo venisse dal libro che lui aveva scritto su Rimbaud [Time of assassins ] che diceva, rivolgendosi ai poeti degli anni ’50: “Uscite dalla nicchia, si è creato un gergo poetichese solo per i poeti, rompete tutto, buttate tutto giù”, una frase bellissima che non finisce mai… credo alla fine di non averla messa nel mio libro questa frase, ma meritava… anche perché poi mettendo una frase degli anni ’50 si sovrapponevano periodi e tutto si amalgamava un po’… allora quello che constatavo era che negli anni ’60 e ’70 c’era stata un po’ una svendita della poesia in nome della teoria, della politica, che è equivoca almeno quanto il mito della letteratura depositaria di verità, unico luogo di elezione. Invece negli ’80 con il crollo del mito dell’azione, della sinistra, che era sfociato nel terrorismo alla fine degli anni ’70, nasce una poesia — che a me per certi versi ha interessato — introvertita, un po’ minimalista, rinchiusa, una poesia che recupera anche una certa individualità e classicismo nel linguaggio, rispetto invece alla sovversione linguistica di prima.
Ma forse… non è vero affatto perché sia negli anni ’60, ’70 e ’80, poeti più o meno giovani, se sono stati davvero tali, sono riusciti lo stesso a creare una poesia vitalmente espressiva, carica di energia. Quindi, in realtà i poeti quando ci sono tengono la barra dritta.

Immagine articolo Fucine Mute

Quando si fanno queste semplificazioni spesso ci si riferisce a coloro che forse hanno funzionato meno, che sono stati meno poeti, meno capaci di vedere le cose. Ad esempio se si guarda a quello che ha fatto in quegli anni Zanzotto, Luzi, tra i più giovani Magrelli, quello che ho detto prima non funziona. La riserva della poesia, il parco della poesia, il sottobosco della poesia, ahimè… è sempre un discorso sulla qualità, bisognerebbe ragionare sui casi in particolare. È vero, il sottobosco della poesia è il grande fango in cui siamo costretti un po’ tutti quanti a dimenarci, e consiste in questa moltitudine infinita di poeti, di scritti che ti arrivano addosso… Necessariamente, invece, la poesia è selettiva, non è filantropia, non è neanche democratica: i grandi sono pochi, i bravi sono pochi… io sono cresciuto leggendo Il bosco sacro di Eliot, per me la poesia è quello.
Ho sempre cercato, con il mio lavoro così selettivo, di testimoniare alcune individualità in cui io credevo.
Cosa fare da parte dei poeti? I festival non è detto che siano riserve, lo sono solo se fatti male, esattamente come i libri di poesia che non funzionano e sono pieni di difetti se sono scarsi libri di poesia. Fermo restando che i festival sono lodevoli iniziative perché c’è sempre l’impegno di qualcuno che le costruisce, e spesso sono meglio del silenzio, tutto dipende dall’esplosività e dal carico di energia, di intelligenza, di passione che ci mettono i giovani poeti. Per cui il festival può essere una riserva recintata, chiuso, autoreferenziale, tautologico, morto, pieno di difetti, se noi lo facciamo male. Ciò non vuol dire che lo si faccia male se si è poeti, anzi, probabilmente le barriere si buttano giù tanto più se poeti e critici sono bravi; quanto più i critici riescono a nobilitare lo strumento espressivo, questa strana forma di comunicazione che è la poesia, le parole che ci stanno attorno, tanto più saranno stati capaci di essere comunicativi, al di là del fatto che poi si venga letti o meno. Viceversa la riserva nasce quando questi incontri non ci sono: l’importante nei festival è che ci si rivede, ci si riabbraccia… è un anno che non ci si incontra… sono anche luoghi di amicizia, di scambio… ma è anche vero che affinché questo funzioni ciascuno di noi dovrebbe arrivare portando qualcosa, non facendo una passeggiata, una kermesse, ma arrivando con delle idee, con un lavoro che si è fatto, un approfondimento. Deve essere un luogo di progressione, sennò diventa un gradevole incontro e niente più.

Cosa devono fare i poeti? Credere fermamente in questa specie di strano paradosso che Sereni, ne Gli immediati dintorni del ’47 (che è stato un anno difficile, appena usciti dalla Resistenza, il problema dell’impegno, dell’ideologia, la totalità della politica coprivano un po’ tutto…), affermò in un pezzo che si intitolava Esperienza della poesia: “Io sento che quanto più nella mia vita sarò e sono stato poeta, tanto più avrò tenuto fede all’impegno dato a me stesso e alla mia responsabilità verso le cose e tanto più sarò stato comunicativo con gli altri”. È questo il paradosso. Spesso l’inganno della poesia semplificata, meccanicamente ideologica, è credere che la poesia comunichi con più forza e con più efficacia facendola diventare altro. E non è mica vero! Invece la poesia rivela al massimo le sue potenzialità di comunicazione, sono originali, sono le sue, dice Heaney: “La poesia è la propria realtà”, è il proprio modo, non è la realtà, però quel modo lì è tanto più esplosivo e comunicativo quanto più è se stesso. Per cui io terrei fede al mandato che poeti e critici si sono dati; possono sembrare parole retoriche, in realtà c’è un paradosso di fondo che funziona e di cui bisogna rendersi conto: c’è anche un bellissimo pensiero di Leopardi al riguardo , credo il 64esimo, che ho messo in un lavoro che ho scritto recentemente [Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, Fazi, 2006], dove lui dice che gli uomini piccoli, che non hanno un grande animo, quindi che sono privi di forza, in ogni disciplina — e ha in mente la letteratura e la poesia — si sentono così grandi e quindi commettono un peccato di superbia ed egotismo perché questi uomini invece di confrontarsi con la disciplina in cui si cimentano, si confrontano soltanto con altro e con gli altri uomini. Mentre invece un poeta se si confronta con quella che è la tradizione-disciplina, non può che sentirsi piccolo, perché si trova di fronte ad una cosa che lo sovrasta e che fa fatica a cavalcare. Caproni diceva che la poesia è una bestia e Montale diceva che la poesia è un mostro, è un toro impazzito, però va preso per le corna se lo vuoi domare e far funzionare, sennò le altre sono scorciatoie…

LN: Nella nota introduttiva alla ristampa de Il pubblico della poesia (2004), Franco Cordelli, che assieme a Beradinelli ha curato l’antologia, scrive: “In quanto alla crisi della poesia è una bufala retorica, che non ha più voce in capitolo è evidente, ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti, per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali di una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano”. Ora, se l’intellettuale, come rileva, fra gli altri, Bauman, “Ha smesso di essere legislatore (moderno) per farsi oggi (postmoderno) interprete, cioè colui che ha il compito di tradurre le affermazioni fatte all’interno di una comunità in modo tale che esse siano comprensibili anche in comunità differenti”, la domanda è: come può il poeta della riserva, ancorché colto e aperto alle esperienze del mondo, farsi ambasciatore, ponte, comunicatore, come dicevi tu adesso? In futuro corriamo il pericolo di trovarci di fronte a tanti cantori di mondi non comunicanti l’uno con l’altro? Qui mi riferisco anche alla nascita, per quanto riguarda la poesia, di tante piccole province, di comunità-stato… c’è il pericolo che si formino delle piccole fortezze, delle rocche?

RG: La domanda è difficile e complessa e credo anche di non avere risposte particolarmente originali. Quello che dice Cordelli è abbastanza vero: la poesia non si è mai venduta. È vero che c’era una classe fino agli anni ’50, di intellettuali, di borghesia medio-alta di riferimento più stabile, però La bufera di Montale quando esce nel ’56 vende poche decine di copie, ma è uno dei libri capitali del Novecento, ed ha avuto un grande impatto nella storia della poesia e della letteratura italiana.
Quello di cui non ci si deve troppo preoccupare, credo soprattutto un poeta, siano — a meno che non se ne occupi in modo non sostanziale e comunque con ironia e consapevolezza — tutte le questioni che riguardano la diffusione della poesia, la lettura, la difficoltà di pubblicazione… perché sono problemi estrinseci. I problemi che un letterato o un poeta si deve porre sono problemi creativi che riguardano il suo rapporto con la lingua, con la sua strumentazione, con il proprio mondo espressivo: deve risolvere quelli, sennò tutto il resto è inutile, sono discussioni vane, che hanno un fondamento esistenziale ma non artistico.

Immagine articolo Fucine Mute

Mi ricordo la prima edizione di questo festival nel 2003, io intervenni alla fine nel dibattito dicendo: “Guardate, la cosa che non mi è piaciuta, nonostante ci siano molte cose belle nel festival, è che non si è parlato di poesia, soprattutto voi giovani non vi siete riusciti a confrontare su delle idee di poesia che portate, e da questo punto di vista qui vi siete dimostrati un po’ deboli, perché se guardo le generazioni che vi hanno preceduto ci sono stati confronti, anche aspri, ma sulla poetica, sulla lingua, sul rapporto con la propria materia. Quindi è vero: la crisi della poesia forse c’è sempre stata, ma è un problema tutto sommato estrinseco, direi quasi che non è il vostro problema: Zanzotto è stato piantato a Pieve di Soligo  (ha fatto i suoi giretti a Milano, in Germania, a Bologna), da lì ha scritto le sue poesie e le sue poesie poi sono passate. La poesia, ma anche altre manifestazioni artistiche (la poesia forse è più pura), passa in modi che sono i suoi, e quando passa, sono modi abbastanza totali e profondi, coinvolgono le reazioni del lettore, toccano la sua vita, le sue corde. Anche se sono rare queste occasioni, ci sono: dicevamo prima de La bufera di Montale, pian pianino è passata, e quando è passata ha lasciato il segno là dove lo doveva lasciare. A me non interessa avere diecimila (e non sono un poeta) interlocutori, mi interessano questo tipo di reazioni intensificate, del resto non me ne frega niente e poi per me il problema delle vendite e dei lettori è assolutamente irrilevante e penso che per un poeta questo dovrebbe valere ancora di più. A noi dovrebbero interessare quel tipo di reazioni, che sono necessariamente rare, lente. Perché interessarsi ad un tipo di lettore, di rapporto col pubblico superficiale? Avere diecimila persone che comprano il tuo libro perché sei andato in televisione, poi questo libro non lo leggono, non conta, non entra. Per cui il discorso si può anche rovesciare. Poi Cordelli nella seconda parte della frase parlava anche della crisi del ruolo dell’intellettuale… io non te lo so ben dire, so che un poeta quando è bravo è anche un intellettuale, ha un pensiero del mondo. Ha dei fondamenti quello che dice Cordelli, però è anche vero che se noi, ogni volta che ci sentiamo deboli rispetto alle cose della poesia, non capiamo più dove va, cosa bisogna fare, se siamo intelligenti o no, basta cercare nel proprio tempo un poeta che tu senti che è bravo e lì le cose funzionano… quindi non è mai vero sostanzialmente che le cose non funzionano più e che ci sia una crisi: c’è una crisi quando i poeti non sono bravi, quando i critici non sono bravi e la crisi è loro, sono loro la crisi, non è uno stato metafisico. Prendo l’ultimo libro, che so, di Zanzotto o di Luzi, o dell’Anedda, di Pusterla, di Magrelli, quelli che amo, e trovo che lì, a livelli diversi (nessuno è Dante Alighieri) le cose funzionano: c’è un pensiero del mondo, un senso della lingua, un immaginario che vive, un’energia, una vitalità… per cui vedi, alla fine tutti i discorsi che “non prendono il toro per le corna” sono nei dintorni della poesia, ma sono tutti incredibilmente reversibili e personalmente non mi interessano… non voglio essere ignorante, fare quello che rifiuta, però io ho scelto questo modo di comunicare col mondo, attraverso la letteratura. Per cui ogni volta che leggo cose che parlano di letteratura da punti di vista diversi che non siano quello letterario, io stesso sento che assumono una relatività e una debolezza che invece altri discorsi che partono dal di dentro, quelli per esempio che fa Zanzotto nei suoi saggi o Montale ma anche altri, le cose lì funzionano. La crisi è sempre delle cose che sono in crisi e non del mondo…

LN: Ti ringrazio davvero perché hai parlato diffusamente e credo siano state dette diverse cose su cui riflettere con calma. Per chiudere ti chiedo in due parole: il tuo prossimo lavoro?

RG: Sono in attesa di pubblicare da Fazi una cosa che c’entra anche un po’ con i festival di poesia, che ho finito di scrivere a novembre del 2004. Un lavoro che riguarda la figura del poeta, il suo rapporto con la lingua, col mondo. Io non sono un poeta per cui è una faccenda un po’ strana, non so quanto diritto io abbia. È uno strano pamphlet sulla poesia, in difesa della poesia…(Ci si riferisce al libro intitolato “Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia”, ndr).

Nel parco di Villa Lodi Fè, a Riccione, ogni anno a settembre si tiene  PARCO POESIA. Readings, laboratori, conversazioni, proiezioni e incontri, per incontrare da vicino i poeti. Durante le tre giornate, il pubblico di PARCO POESIA si trova a diretto contatto con gli ospiti e con i molti giovani autori che partecipano ogni anno al festival. Molte manifestazioni permettono di incontrare gli autori, parco poesia permette di parlargli, di conoscerli davvero, non solo nell’attimo in cui l’autore fugacemente firma un libro, ma nel corso delle intere giornate, in cui i poeti  siedono tra il pubblico, partecipano insieme al pubblico al buffet come ai molti momenti di dialogo che parco poesia propone.


I poeti a PARCO POESIA si offrono con la loro opera ma anche con il loro volto, come uomini oltre che come autori. Nell’atmosfera informale del parco, molti scrittori hanno la possibilità di incontrarsi e rincontrarsi, di guardare insieme il panorama sempre in fieri della poesia emergente, di dialogare tra loro e con i propri lettori. Molti giovani poeti hanno occasione di consegnare a mano i propri manoscritti, molte persone che amano la poesia o che ne sono anche soltanto incuriosite, hanno la possibilità di ascoltare gli scrittori, di avvicinarsi e parlare con loro, di porre domande agli ospiti come ai giovani autori.
A PARCO POESIA ogni anno nascono amicizie, discussioni, qualcuno litiga, qualcuno si entusiasma, qualcuno scopre qualcosa… e quando tornano a casa… tutti hanno qualcuno a cui scrivere, qualcosa di cui continuare a discutere… qualcosa che rimane.

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