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Scrittura

Jacopo Ricciardi

Lasciare una traccia completamente irriconoscibile

Nell'emergere della terra dal mare

Immagine articolo Fucine Mute

Matteo Danieli (MD): Credo che una delle cose più orribili che siano state dette sulla tua poesia è che sia “magmatica”, e non tanto quando penso a magma come caos, disordine — in questo senso la trovo una definizione bellissima — ma quando penso a magma come una forza oppure come un obbiettivo (io voglio essere magmatico) che vuole cancellare qualsiasi traccia di forma. Il magma è un fuoco ribollente o un flusso lavico costante e minaccioso, ipnotico, di una bellezza che sta nella sua rarità come fenomeno ma che possiamo ritrovare in forma minima in quel che resta di un fuoco, nella brace, o sulle pendici di un vulcano, ma che nonostante tutto con la sua bellezza non genera forma se non una forma tautologica: il magma genera magma. Invece io ho bisogno dell’immagine dell’uomo che con il piede traccia due solchi nella terra, in uno ci mette la parola nell’altro l’universo, e questa immagine — e il contesto da cui ha preso forma — non ha nulla di magmatico e invece ha qualcosa di proustiano come una ricerca della memoria perduta a partire da alcune parole chiave. Sei d’accordo con queste affermazioni?

Jacopo Ricciardi (JR): È stato Maurizio Cucchi il primo a definire la mia poesia ‘magmatica’, e lo ha fatto fin dalle prime letture delle Poesie della non morte, che come spesso accade, per i poeti della nostra generazione, sono state lette per lo più inedite e sono rimaste tali — e ora penso sia meglio così. Dico questo perché il Primo libro delle poesie della non morte rimasto inedito per sei delle sue sette parti — la sesta parte, Scultura, è quella pubblicata (Exit Edizioni) -, e che quindi non può essere letto da altri, si prestava bene a una definizione del genere, poiché era un testo di parole giustapposte solo raramente disposte con un nesso grammaticale.

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In seguito gli altri miei libri sono stati degli estratti del Secondo libro delle poesie della non morte — Colosseo (Anterem Edizioni), If music be the food of love (antologia con Oliver Scharpf e Lorenzo Carlucci, Libri Scheiwiller) — e di tutto il Terzo libro — Poesie della non morte (Libri Scheiwiller), Plastico (Il Melangolo) —, e credo che agli occhi di Maurizio questi nuovi lavori acquistassero leggibilità e semplicità, ma non perdevano quella prima idea di ‘flusso’ che aveva riscontrato nel Primo libro. In effetti nella sua prefazione a Plastico egli afferma che la mia scrittura sarebbe divenuta prosa, e questa è cosa verissima, visto che il quarto e ultimo libro delle Poesie della non morte è completamente in prosa. Questa parola ‘magmatico’ è stata ripresa da altri, ma non da tutti, e resta il fatto che queste altre persone non hanno mai letto tutto il mio lavoro come invece ha fatto Maurizio, per cui se mi si chiede di riflettere su questa parola, sono obbligato a ricostruire il modo in cui Maurizio l’ha pensata e continua a pensarla: per me è più interessante capire se, riflettendo su questa parola, questa mi insegna qualcosa in più su Maurizio e sul suo modo di pensare e di percepire le cose, piuttosto che chiedermi se questa sia la vera cifra della mia poesia.

Però mi pare di capire che mi viene chiesto di lasciarmi andare a una fantasticazione riguardo a questa parola, lasciandomi portare dal suo valore semantico: e non senza divertirmi un po’ ti potrei rispondere che quello che tu dici del magma è vero se ti fermi solo alla colata lavica, ma se allarghi il tuo orizzonte e moltiplichi il tempo prima e dopo questo evento allora penso che c’è un respiro in questa parola che mi piace. La lava come tu sai è l’elemento primigenio che fa emergere la terra dal mare, e doppiamente primigenio perché insieme ad essa genera la nascita dell’uomo, diciamo la nascita della possibilità della sua nascita. In essa si forma tutta la natura che verrà, e quella natura sarà l’unica forma, radiosa e non scomponibile, della gabbia dell’uomo, ma che lui sentirà con tale intensità da confonderla con l’identità del proprio pianeta nell’universo. Vedi, se vuoi, è proprio in questa vitalità emersa dell’uomo, che non smette di progredire, e che deve precisarsi sempre più, nella parola e nel pensiero, che io mi riconosco, e nella quale riconosco la mia scrittura. Ma questo certo è quello che io penso e non quello che intendeva Maurizio, anche se può essergli affine. Io intendo dire che tutte le conoscenze scientifiche, che guidano oggi la nostra realtà e la visione più vasta delle cose, nutrono quella lava di cui tu parli, e ne amplifica la risonanza, prima e dopo di lei: l’universo è oggi più vasto.

Immagine articolo Fucine MuteRiguardo a quella scena che ho descritto nei miei versi e che tu metti in relazione a Proust per me è invece relativa a una identità insieme primitiva e futura, rituale e consapevole, moderna, dove è la mente ad agire senza dover imprimere per forza al corpo il suo procedimento: quindi è un distacco dai riti, pur mantenendo un’affermazione della mente. Volevo che la poesia in quel punto del testo consistesse non tanto in un evento sul foglio, quanto già nella mente, nell’idea, nel pensiero che verifica un’azione reale e mentale, e mentre la pensa la realizza, e la rivela all’uomo.

MD: Nella tue ultime produzioni sono raramente presenti persone, caratteri, e città — luoghi culto d’appartenenza del genero umano. Traspaiono altri luoghi molto più fantascientifici, rarefatti, “alba del mondo” , e alcune sagome, ombre: una donna, un bambino ed uno che potresti essere tu nelle vesti di un generico uomo, Che tipo di condivisione è quella con una poesia che non condivide scenari “facili”?

JR: Il clima che percorre i quattro libri delle Poesie della non morte è una riacquisizione di tutti i caratteri già esistenti del mondo, che devono, però, essere acquisiti nuovamente, per la prima volta, non come parti esterne di sé, ma come parti già esistenti in se stesso. Si riacquista in primo luogo l’identità della parola, poi l’identità del mondo (e forse del pensiero) — e credo che sia più a questo che ti riferisci, sono i testi legati al secondo libro —, poi l’identità che lega l’uomo e il mondo (e forse il concetto), e infine l’identità del legame che è l’uomo nel mondo (e forse la propria identità con un’altra identità).

Il mio desiderio è quello di lasciare una traccia, di lasciare una traccia anche non facilmente riconoscibile, e anche completamente irriconoscibile, ma che rimanga come traccia, questa un giorno parlerà, anche se non sarà più cosa mia. Non voglio che ci si ricordi di chi sono o di quello che scrivo, ma generare qualcosa che accade, vago, generico, ma profondo almeno quanto l’uomo in fondo a sé lo desidera e magari non sapendolo neppure. Tutto ha sempre un alone di vaghezza, ma se questa non manca di precisione, allora sarà perfetta, e rinnovabile, e avrò raggiunto il mio scopo.

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MD: Sembri guardare le cose da una certa distanza, il cielo, il mare e altri elementi si fanno incredibilmente piccoli… è per via che non ci vedi bene?

JR: Oggi non si ha più una cultura precodificata sulla quale fare affidamento. La cultura in genere e la poesia in particolare sono state esempi di una precisione incalcolabile, che costituivano in questo modo la radice della storia dell’uomo, il motivo profondo e limpido della lotta della sua esistenza. Il medioevo ne è un esempio: l’architettura del luogo e il poterla pensare e gestire era il segreto dell’invisibilità dell’invisibilità. Sempre, la cultura è stata fondata da ciò che restava naturalmente nascosto, la modernità del medioevo consiste nell’aver voluto definire i punti dove il mondo restava nascosto e l’aver preteso di creare degli ‘oggetti’ che potessero essere nascosti in quei punti. Questo ha permesso all’architettura medievale di rovesciare il concetto di costruzione: non era più l’uomo a nascondersi, ma solo la sua mente e il suo pensiero (ciò che egli produceva), l’architettura non era più separazione e chiusura, ma passaggio: la pietra, le pietre delle chiese medievali, sono passaggio, tra il mondo e il mondo nascosto, e gli occhi non possono più essere chiusi. Da allora è così, ma oggi cosa si può fare, imparare di nuovo a chiudere i propri occhi, e riacquistare lo scorrere del tempo: io questo lo faccio parte ndo da ciò che di più grande e visibile e esiste, il cielo, la terra, il mare, l’universo, la loro vastità percorsa e sensibile mi permette nuovamente di chiudere i miei occhi, per continuare il respiro della mente, per cercare di ampliarlo (se così è possibile). Seguire il cielo, seguire l’universo, io non voglio nient’altro di me. Abbiamo creato tutti gli strumenti per vedere apparire le prime cose, le più vaste, per che noi, una volta davanti ad esse, potessimo reggere la loro ampiezza.

Immagine articolo Fucine MutePer cercare di farmi capire meglio aggiungo che nelle prose del Quarto libro ho scoperto che quel cielo, con l’universo silenzioso che aspettava dietro, era in realtà davanti a me, nella vastità del dialogo, e nella riacquisizione della ricchezza del tempo e delle percezioni nel dialogo, nell’espressione di ciò che più naturalmente è possibile per noi: la nostra epica è in prosa, e le nostre guerre e le nostre lotte, che svelano tutte le cose, non sono altro che la mia prima battuta e la sua risposta, il mio sorriso e il suo sguardo, è tutto lì, contenuto lì.

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MD: Il fiume di versi che ci investe leggendoti, come lo lavori? Come lo selezioni?

JR: Il mio lavoro sul testo cambia a mano a mano che procede, sarebbe troppo lungo elencare tutti i cambiamenti, però posso descrivere una costante: in genere quando inizio a scrivere una parte non mi fermo fino a che non ho finito, questo vuol dire che la scrittura può essere molto lenta e anche molto veloce, il fatto è che quasi mai è una scrittura che si ripensa, che torna indietro, si corregge,ma va avanti, fino alla fine di quel suo inizio. Quando non scrivo il percorso razionale che faccio viene completamente sovvertito e abbandonato nel momento in cui comincio a scrivere, e pure se è questo percorso scandito da pensieri razionali, ciò con cui scrivo è ciò che emerge, come un percorso inconscio, poco prima della scrittura, per questo nel flusso dei miei testi si trova a volte qualche riflessione razionale, perché lì è il momento in cui il mio pensiero e la mia riflessione acquistano un peso reale.

Certo questo modo di scrittura ha il difetto di essere fuori da un totale controllo, e credo che questo sia esattamente il pregio di quei testi. È chiaro per me, che devo acquisire un controllo totale di questa energia, per vedere apparire la durezza e la solidità e quindi la vera limpidezza rivelatrice di cui ogni tempo ha bisogno.

MD: Il rapporto autore-pubblico: quali le tue idee a riguardo?

JR: Non si può chiedere alla poesia di essere quello che non è, e invece oggi è la prassi: si chiede alla poesia di diventare più ‘popolare’, più ’pop’, le si chiede di muoversi in superficie e di lottare con ciò che sta in superficie, la televisione, i giornali, le mode, ma quella, nel momento in cui raggiunge il livello, e ci resta per un po’, non è più poesia.

La poesia è sempre stata il fondo ultimo della vita, e sempre resterà al suo fondo, la sua vita è lì, e da lì , lei, non si muoverà. Ora la domanda interessante da fare a tanti cosiddetti poeti è: oggi dov’è l’ultimo fondo della vita? Di cosa è fatto? E se la poesia è invenzione che invenzione è oggi? Se soltanto uno dei poeti viventi fosse capace non dico di rispondere a tutto lo spettro di questa domanda, ma anche con una sola piccola minima intuizione, un dubbio, allora saremmo delle persone fortunate, ma loro non sanno rispondere.

Immagine articolo Fucine MuteSi pretende dalla poesia che copi il primato sociale che ha avuto nell’antichità: è una stupidità. È esattamente la strada opposta che si deve prendere: il fondo della poesia oggi è che non esiste più fondo, noi siamo il fondo, ossia quella persona che tra le altre scrive poesie; essendo il fondo, sarà il fondo della vita degli altri. Altro non è possibile: il poeta nasceva al fondo della vita — per Omero è stato così, come anche per Celan —, il poeta nasce come fondo della vita. Fatevi questa domanda, poeti: siete vivi o siete morti? Guardate meglio il vostro pensiero, come sta?

La poesia è qualcosa a cui si guarda in alcuni momenti della propria vita, il suo potere è quello di rimanere nella nostra vita fino alla nostra morte, immergendosi ed emergendo in noi. Questa è la nostra gioia, questo è esattamente ciò che siamo, chi scrive non può uscire da queste condizioni. La mia esperienza mi porta a dire questo: la poesia nel tempo è diventata più dura — Celan per esempio —, mentre prima era più duttile — Omero. Questo che vuol dire: che il lettore passa dall’incanto di Omero alla violenza di Celan, e questi sono i due estremi che tracciano i confini e la vastità del nostro spirito, la nostra storia e la nostra identità. Oggi che la cultura non ci dà più un fondo al quale attingere, ciò che è passato è il nostro contemporaneo, e questo contemporaneo, vuoto, privo anche del suo abisso, genererà una poesia lontana, lontana come l’universo e vasta come l’universo, ma capace di percorrere queste distanze con una rapidità inaudita, umana e istantanea, e capace di colpire l’uomo nel punto esatto dove egli di più sente la sua forza, tanto da spostarlo, come per un contraccolpo.

MD: Quando scrivi, vuoi esprimere un’idea, suscitare un’emozione, creare bellezza o in primis vuoi essere qualcuno? Cioè ritieni di produrre idee, cultura con la tua opera e ti poni narcisisticamente come punto di riferimento?

JR: Ritengo che una buona opera di poesia non esiste per aggiungere niente, ma sempre sveli qualcosa. Essa diventa punto di contatto con il mondo culturale che le è intorno e se è grande poesia questa permette di ricostruire il cuore e il corpo di quella realtà sociale e culturale. La poesia tramanda la cultura, salva esattamente quello che deve e può essere salvato. La poesia è la forma perfetta della trasmissione dell’imperfezione dell’uomo, che per lui è tutto. E anche lì risiede la sua identità. Ciò che non ha l’uomo è tutto ciò che ha: è la morte, egli non saprà mai cos’è, e questa è quindi la vita, apice della vita, la morte è la separazione dalla morte. Pensare, riflettere, esistere, questo è quello che voglio per me come uomo, per essere pronto agli altri. Scrivere, è questo che voglio come poeta, per che questa scrittura tenti di essere pronta a questo mondo, per me insieme a tutti gli altri.

MD: Relaziona la poesia alle altre arti, all’arte in generale.

JR: Ho questo pensiero in mente ogni tanto: di tutte le cose che esistono a questo mondo, come un albero, un film di Kubrick, Hitler, che possono diventare splendide e dolorose fonti di ispirazione, solo l’opera d’arte resiste e non trasforma se stessa in un’altra cosa del mondo per mezzo dell’ispirazione, perché essa è già quella cosa trasformata: l’arte non appartiene al mondo, ma all’uomo, o forse, l’arte è quella parte del mondo che appartiene solo all’uomo, e quando ti prepari a creare un’opera d’arte sai che questa nascerà e si concretizzerà accanto ad altre opere d’arte , magari proprio a quella che l’ha generata, ma come una cosa da cui si distacca, e non da cui si trasforma.

Immagine articolo Fucine MuteQuesto si può dire allora: l’opera d’arte si alza sul mondo con forza atletica, salta, e resta per sempre nel punto più alto sospesa sul mondo, ma questo in quel momento viene raso al suolo come da un’esplosione nucleare di tutti gli elementi che l’hanno ispirato, perché essa abbia così maggiore visibilità: essa vuole distruggere il mondo, e ci riesce, per creare l’uomo. Ma il mondo come in un canto più grande e sconosciuto ritorna e riporta il salto verso di sé, la inghiotte senza poterla deglutire, l’opera d’arte conosce questo schema, e sa che l’uomo nel mondo consiste nell’evoluzione dell’arte, nell’evoluzione dello scambio di ciò che viene distrutto e di ciò che ancora riappare: noi già non siamo, nascendo, quello che altri prima di noi erano alla nascita, e aspettiamo quell’esplosione di natura che tolga a noi, oggi, il mondo sotto ai nostri piedi.

MD: Come interpreti il panorama, attuale, della poesia italiana?

JR: Chi non è capace di comunicare, anche senza parlare, non è un poeta. Chi non si espone al pericolo dell’oggi, entrandovi senza protezioni, non è un poeta. Chi pensa senza scrivere non è un poeta. Chi non si accorge di essere nato in una famiglia non è un poeta. Chi chiude gli occhi senza averli tenuti aperti non è un poeta. Chi finge di amare la propria poesia non è un poeta. Chi non vuole fermarsi per esistere almeno un millesimo di secondo non è un poeta. Chi piange lacrime d’abbaglio non è un poeta. Chi vuole qualcosa non è un poeta. Chi non desidera qualcosa non è un poeta. Chi non ama qualcosa non è un poeta. Chi non si chiede il peso della parola oggi, non è un poeta. Chi sta fermo e aspetta e trema non è un poeta. Solo chi affonda i denti nel mare e nelle stelle può dirsi poeta.

E chi copia senza saperlo, ahimé, non è un poeta! Si copia se stessi, gli altri, l’anima, il cuore, le idee, e le idee sono la cosa più pericolosa in poesia. Maledizione a chi non riesce ad avere le proprie idee! Vi potete chiedere: quanto del mondo che ho davanti trema con una mia poesia? Quanti anni può viaggiare una mia poesia? Quanto tempo trascorre in essa? Non è difficile rispondere, pensateci, e poi guardate se non è invece la vostra mano a tremare, e le vostre parole, malate. Non sono io, è la poesia oggi ad essere un genocidio, e in questo conserva l’indifferenza del mondo. Pur di ricrearsi, in questo mondo, oggi, come radice dell’universo, è disposta a giocare con le menti delle persone che si credono poeti, un gioco pericoloso più che nelle altre epoche; essa chiede all’uomo di essere l’essere di se stesso, non semplicemente di essere, cioè di esserlo oppure no… Essa dice (e richiede), “prova a scoprire se sei capace di scrivere qualcosa che a un certo punto è il tuo essere”.

Immagine articolo Fucine MuteIo ti chiedo così di dissolverti per me, e di ritrovarti dopo questa dissoluzione, lo puoi fare per me? Puoi spendere il tuo tempo per me? Con solo la speranza di una fede futura? Io te lo dico: è probabile che tu cadrai lungo questo percorso, e ti perderai senza saperlo. L’intuizione, così labile, a questo punto, vale ben poco. Io non ti chiedo più di intuire, io ti chiedo di essere quell’intuizione, e non mi importa se tu lo sappia o no, poiché nei due casi, se lo sei, ti aspetta un lavoro tale, solo per raggiungere l’inizio della poesia, che potrai anche non essere in grado di sopportare questo impegno, negli anni. Io lo capisco, ma non chiedermi di avere pietà di te, perché tu sai bene che il mio sguardo va solo a chi mi riesce a trattenere, e i miei occhi passano solo attraverso quei testi. Altro non ti dirò.

Circuito Europeo di Reading: l’intervista è stata realizzato in collaborazione con l’Associazione culturale Gli Ammutinati che, grazie al contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Assessorato all’Istruzione e alla Cultura, ha dato vita a FINAL ACT – atti di poesia e teatro. Tra i principali eventi della manifestazione, il POETRY RING si è svolto venerdì 9 dicembre, presso il Knulp, bar equo e solidale a Trieste.
Le domande a raffica, i ganci e i montanti a cura di Matteo Danieli, hanno colpito a partire dai libri CAPITOLI DELLA COMMEDIA di Martino Baldi (Atelier), CONTROSOLE di Anna Toscano (Lietocolle), POESIE DELLA NON MORTE di Jacopo Ricciardi (Scheiwiller).

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