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Scrittura

Versi bifocali e stratificazioni linguistiche

Su Elisa Biagini, Florinda Fusco e Francesca Genti

Immagine articolo Fucine MuteLa poesia italiana più recente — è ormai ampiamente dimostrato — ha aperto la pagina alle stratificazioni linguistiche e a un lessico ampio e variegato. Spia di un’immissione nella pagina, in primis, di altri punti di vista accanto e in dialogo con l’intenzione (nel senso di direzione di significato) del soggetto poetico.
E non è tanto un fatto di tendenze, scuole o posizioni di poetica, quanto di metamorfosi del genere letterario. Parte da questo assunto di principio il ragionamento che intendo condurre in questa sede, e alla verifica di tenuta di questo principio punta l’analisi a cui sottopongo alcuni dei testi di tre autrici della stessa generazione (in senso anagrafico, hanno fra i trenta e i trentacinque anni): tre voci femminili diverse, ma con tratti interessanti di affinità. Un’affinità che passa lungo il filo di una postura dialogica violentata e di un’identità sbucciata e spezzettata.
Chiamerei bifocali i versi di Elisa Biagini, Florinda Fusco e Francesca Genti che qui prendo in considerazione (a exempla di un fenomeno generale): bifocali perché bivocali, ossia percorsi da due voci e intenzioni di senso, e perché media di duplice visione, quella da vicino e quella da lontano.  Da vicino la voce presente, da lontano una voce altra, quella di un interlocutore: per esempio la nonna nell’Ospite di Elisa Biagini, la bambina nelle poesie di Francesca Genti, il coro nel recente Thérèse (HC2378B) di Florinda Fusco.
Una poesia scritta con gli occhiali per presbite e per miope, alla ricerca di un’identità nel presente e verso il presente, ma anche attraverso un passato e inevitabilmente in rapporto tanto a un’identità di genere quanto a una tradizione, nascosta e tortuosa, di scrittura femminile. Rispetto alla ricerca di autrici nate nel decennio precedente (penso soprattutto ai due casi, opposti ma con radici comuni, di Rosaria Lo Russo e di Patrizia Valduga), qui il confronto con i padri della tradizione lirica italiana non è più avvertito come elemento ineludibile dell’atto di scrivere versi da parte di un soggetto femminile. Anzi, si arriva addirittura all’idea che l’assenza di madri non solo non implichi la condizione di «figlia di solo padre» ma permetta anche di esprimere più liberamente una personalità originale («Forse le donne, non avendo una tradizione forte alle spalle in Italia, sono più libere, più selvatiche: hanno più un loro linguaggio, una voce più riconoscibile», Francesca Genti, in un’intervista su Studentistatale.it). Di fatto una costellazione  femminile con cui porsi in dialogo si è formata: oltre ai modelli anglosassoni già attivi nella poesia italiana femminile (la Plath e la Sexton della Biagini) e alla già riconosciuta Amelia Rosselli (soprattutto in Florinda Fusco), esercitano un certo influsso anche alcune esperienze della generazione precedente come quelle di Vivian Lamarque e di Patrizia Cavalli (nella scrittura di Francesca Genti).
Agisce ancora in maniera fortissima la sollecitazione teatrale e scenica (portata in primo piano, per restare ai soliti esempi, dalle già nominate Patrizia Valduga e Rosaria Lo Russo); e la dimensione orale agisce potentemente nella genesi testuale, sia come fonte (soprattutto in Genti), sia come vocazione (soprattutto in Fusco).
Ne sono segni evidenti l’ampio ricorso all’allocuzione e alla deissi, la costruzione di dramatis personae (in forma di scheletrici burattini) e la vistosa insistenza sulle figure dell’iterazione. D’altra parte questi aspetti, uniti alla rappresentazione in chiave tutta fisica e corporea di un’identità lirica e di genere spezzettata, scontornata e, insieme, chiusa e stretta nell’autofagocitazione e in un dominio assoluto della violenza, costituiscono i fili che passano dall’una all’altra.

Immagine articolo Fucine MuteFrancesca Genti, per esempio, nel suo libro Il vero amore non ha le nocciole (Padova, Meridiano Zero, 2004) immette porzioni di violenza in una lingua leggera e studiatamente naïve, in un tono incantato e in un ritmo in cui si fondono quotidiana naturalezza e istituto metrico. Frequentissime sono, infatti, le misure tradizionali, fra cui prevale il verso italiano per eccellenza, l’endecasillabo, che ben si presta all’intenzione di estrarre un ritmo naturale dalla lingua quotidiana, una sorta di metrica fisiologica (se mi si passa il bisticcio) del parlato. Così come si infiltrano l’uno nell’altro la biologia e la chimica, l’ingenuità infantile e la consapevolezza adulta.

Frequenti, insieme all’endecasillabo, le rime semplici: «come il vestito della nonna su una bella ragazza» (secondo le parole dell’autrice), le rime semplici offrono una veste antica e permettono un effetto di incanto, istituendo così uno sguardo bifocale, appunto, da vicino e da lontano. E l’incanto del vestito della nonna copre (ma nello stridio che si crea mostra più che mai) contenuti di violenza psichica e sociale: così il maglione grigio e blu color del mare ha il «collo slabbrato» e non protegge, «al massimo» può servire  «a togliere la polvere/ giù dallo scaffale.// (non certo dal mio involucro/ le macchie del peccato originale)».
Leggerezza formale e iniezioni di violenza: il libro è tutto costruito sulla rivelazione improvvisa degli opposti:

in tutto ciò il tuo ragazzo vorrebbe
sgozzarti sotto la luna
fortunatamente ripiega sul bacio.

Cantami qualcosa purché sia zuccheroso
o meglio raccontami
di come hai confessato i tuoi malestri
dei poveri animali che hai infilzato
dei numerosi peccati mortali
che la prima comunione ha mondato.

In uno delle poesie d’apertura, ad inviti come questo (rivolti a un tu che è sdoppiamento dell’io e insieme suo consimile):

sentiti ogni mattina
come Lamù del cartone animato:
vivace col diritto di volare
dai capelli blu dal reggiseno leopardato.

Segue, dopo una strofa, quella che può essere assunta a dichiarazione di poetica della Genti:

maciulla gentilmente di parole
chi ti vuole obbligare gentilmente
a pochi pensieri uscite accompagnate
nastri di tulle gite organizzate
al senso di colpa alla preghiera serale
all’abitudine al peccato originale.

In un dominante andamento da filastrocca si inserisce una dicotomia, quella fra la voce infantile e il taglio della violenza sociale che determina l’identità adulta:

ci sono degli inserti di acciaio nella carne
magari telecomandano il desiderio

-e poi ancora un’ultima domanda:

come ti sentivi quando diventavi donna?
E di che colore disegneresti la curiosità?
E di che colore la colpa?

Costella tutto il libro una sorta di tic interrogativo, di eco infantile, una ricerca di dialogo con un tu, una seconda persona che nasce dallo sdoppiamento diacronico e bifocale dell’io (identità infantile/identità adulta), o che coincide con un interlocutore esterno assente.
Sulla superficie letterale il gesto interrogativo rimane perlopiù bloccato e senza risposta; risposta che, però, sembra annidarsi nell’impianto bifocale di questi versi: mentre frequenti sono i passaggi dalla prima alla seconda persona, in un’oscillazione di persona grammaticale che è il segno di una dialettica interna, la voce infantile e la voce adulta sono internamente dialettizzate in una parola poetica bivoca («innamorarsi è faticoso/tutto quel mettersi in gioco/ tantissima energia/ non soccomberai?»; «c’è perfino il color oro/ delle paperine che desideravi./ (ancora non sapevi che cos’era il buon gusto)»).
Domina dall’inizio alla fine un ritmo iterativo incantatorio, che ogni tanto si interrompe in una botta improvvisa di violenza, affidata perlopiù alle parentetiche:

certe volte
il bicchiere si rompe.

(e dentro la carne
nel profondo delle vene
le schegge di vetro
conficcate strette
mischiate al terrore
le gocce indelebili
del succo dell’amore)

In definitiva la pronuncia del personaggio che dice io, infilzata da voci esterne, ripete amplificate e scandite nel vestito della filastrocca le parole della violenza sociale:

perché non ti tagli i capelli
ti vengono i lividi
ti siedi sul marmo del pavimento.

La superficie del corpo (e l’identità dell’io) è privata di ogni strato difensivo, così da esporre l’epidermide all’attacco degli agenti esterni, all’ematoma, alla ferita.

Immagine articolo Fucine MuteFigure di erosione dei margini individualizzanti sono centrali anche nei versi di Elisa Biagini, che riesce ad esprimere porzioni di violenza quotidiana e domestica conducendo, nell’ultimo suo libro (L’ospite, Einaudi, 2004), un confronto ininterrotto e serrato con un tu femminile (la Nonna). Il movimento della postazione discorsiva va all’indietro, su un filo biologico e insieme culturale.
Per tutto il libro due soggetti femminili sono posti «faccia a faccia» (per richiamare l’epigrafe da Anna Achmatova: E tu, l’ospite terribile lasciasti entrare e con lei, faccia a faccia, rimanesti):

Le guance tirate,
la mano rampicante e la cornetta,
la pioggia di neuroni mentre mi urli
le tue regole infrante
e la mia colpa,
urli la solitudine una bizza
e non vedi il tessuto dei miei visceri,
me che affogo nel liquido amniotico.

Il personaggio che dice io non si adegua alle regole, al modello di identità rappresentato e proposto dall’antagonista; e anzi sconta una colpa, quella di chi non merita di ricevere un’eredità familiare, la cura del “corredo”:

Coperte, asciugamani, tovaglioli,
federe, tovaglie e poi presine,
ci facciamo una trincea
con questa roba
visto che non la merito,
che ho ferito di nuovo

Tutto il libro mette in scena una vera e propria lotta per l’annullamento reciproco, «testa a testa», un esaurimento vitale per evaporazione («Quando saremo nel buio/ testa a testa/ (e l’acqua che ci compone evaporata)»),  aspirazione e prosciugamento («Sbucciano in simmetria la tua calotta/ e una cannuccia aspira via la pozza,»; «e poi non scelgo più ma sto seduta e aspiro forte»). E così l’immagine della chiusura domestica nella pulizia e nell’ordine nasconde una pulsione all’immobilità («pulire per/ fare il presente perpetuo»), al martirio organizzato («Di questo film/ di martirio/ -di cui pure/ le luci tu hai curato-») e quindi alla morte, una morte «lavata e stirata».
Biagini mette in scena la penetrazione capillare e colonizzatrice dell’altro fin nell’intima fisicità, in un lavoro che alterna spezzettamento e prosciugamento a ricucitura e nutrizione, ribaltando l’uno sull’altro i due piani:

I nervi ricuciti
tra la nebbia, le pratiche, le giacche
le dita accavallate
(vene e arterie incrociate)
e dopo la tensione nel filo, nella penna:
le torte a distanza mine attive,
ogni spaghetto un nodo, un nuovo debito.

Eloquente, da questo punto di vista, il richiamo cristologico di feminist icon:

                dalla
voce
mi esci verticale
con l’orizzonte
della tavola da
stiro
       fate una
croce

Dove due aspetti innanzitutto sono da notare. Il primo è la disposizione, per così dire, in croce del materiale verbale; disposizione che mette subito in evidenza le due parole in rima a distanza «voce» e «croce», in stretta connessione: oltre a essere legate dalla rima, sono entrambe coincidenti con l’unità verso e disposte a scalare rispetto al verso precedente. Il secondo è appunto il rilievo in cui si trova la parola «voce»: isolata, segue un verso a scalare (disposizione che già di per sé, allargando il bianco tipografico circostante, accentua l’importanza della parola nell’economia complessiva), è legata all’immagine della croce, del martirio. È infatti dalla voce che passa la sopraffazione dell’altro: l’altro esce dalla voce, vale a dire si è insidiato nella gola e nella bocca e nutre di sé la parola dell’io.
Questo forzato assorbimento della parola altrui è messo in scena in vari luoghi del libro, in cui il meccanismo di sopraffazione per introiezione emerge dalla dialettica bivocale, che gioca su un meccanismo di continuo rovesciamento focale: l’io punta all’assorbimento del punto di vista altrui, a riempirsene la pancia per poi, al dunque, negare il riconoscimento, mostrare i punti di sutura e dunque la natura posticcia e riappiccicata dell’identità soggettiva, costruita attraverso un processo di superamento di una soggettività inquinata dall’altro (in cui è l’altro a dominare), di liberazione e nuovo assorbimento per fagocitazione ai danni altrui, senza che ciò comporti una riconquista di  autenticità e di purezza. Dominano, non a caso, le immagini legate agli occhi e alla vista, da un parte, e alla bocca e alla voce, dall’altra.
È in atto un continuo superamento dei confini tanto dell’io quanto del tu, un cammino verso la fusione per fagocitazione reciproca. Di fatto la dispersione dell’identità è raffigurata attraverso immagini fisiche, di spezzettamento e di apertura:

Le ossa non sono poi così solide,
le falle nei fasciami, le pause di materia,
un punto mancante e si sgrana la trama
so sfilano via i nervi
come gambi del sedano,

[…]

mi hai fatta
a maglia
            per
questo il mio
biancore, il
non reggermi in
piedi, no anemia:

per vedermi meglio
dentro, per entrarmi,
attraverso queste maglie
troppo larghe.

Non sono molto diverse le immagini che si trovano nei versi di Florinda Fusco, in cui l’io corpo si apre in un processo di allargamento e, insieme, atomizzazione («la pelle a buchi»). Per esempio in linee (Genova, Zona, 2001, ora in versione integrale Biagio Cepollaro E-dizioni):

ho cento spazi sulle gambe
ho cento spazi sulla pancia
ho cento spazi da coprire cento spazi

Lo spazio del corpo e quello domestico (che tendono figurativamente a coincidere nell’immagine della «stanza organica») sono disarticolati e divaricati con una forza che ne deforma fino all’annullamento i confini.
Parti del corpo e elementi della quotidianità domestica (la pancia, il tavolo, le mele, il pane ecc.) aderiscono fra loro («gli ossi da rammendare»; «le unghie che si infilano nelle piastrelle/ e il detersivo che cola sulla pancia») in un’erosione dei confini per strofinamento di agenti corrosivi («le braccia scorticate») e per sbavatura («il rossetto fuori i margini»).
La frequenza di oscillazioni pronominali e di forme verbali all’infinito denota un allargamento verso l’indeterminazione dell’identità, indeterminazione che va a sfociare nell’annullamento. Un effetto a cui contribuisce l’apertura di spazi bianchi tipografici a bucare lo scorrimento dei versi, in una proliferazione parossistica di versi a scalare, che finisce in un assottigliamento dei confini dell’unità verso.
D’altra parte, a ricucire il mosaico ritmico, interviene l’uso dell’iterazione, un uso quasi ossessivo: fittissime le ripetizioni di parole e di sintagmi, di seguito o a distanza, a scandire percussivamente l’andamento del discorso; e altrettanto ricorrenti le ripetizioni progressivamente mutilate, in cui a ogni ricorrenza il sintagma, la frase o il verso-refrain perdono un pezzo o, al contrario, risultano arricchite di nuovi elementi.
In alcuni casi le ripetizioni hanno anche un effetto di eco, di parola altrui che arriva da uno spazio-tempo altro («ho pomeriggi pieni»). 
Ma a segnare gli spostamenti vocali sono soprattutto le parentesi, che possono accogliere un commento («un foro bianco nella stanza (simile a gelatina)»), un’altra postazione discorsiva («(è questo lo stato delle cose)»), un altro pedale tonale e una risposta («e poi unire i piedi/ (i piedi non vanno mai uniti i piedi non portano la croce)»).
A volte, come in Francesca Genti, quello delle parentesi è luogo di rivelazione della violenza: «(i pavimenti dei lager adesso sono sale da tè)».
È anche qui in atto una tendenza al rovesciamento del punto di vista, perseguito attraverso una percussione allocutoria e interrogativa.
Il libro delle Madonne scure (Modena, Mazzoli, 2003) è tutto costruito su uno sbilanciamento conativo verso un tu femminile, un’immagine apparentemente pacificante (sullo «schermo») ma di fatto inquietante e problematica:

il piedistallo si è ribaltato (una faccia di madame un corpo di asino)

[…]

Madame? Chi ricongiungerà la nostra camera ardente?

[…]

                                      Madame la dolce gabbia Madame la dolce

gabbia

                                                             ossa e capillari fino alle bocche

                                      stanza organica

              le pieghe metalliche e i pori del corpo (a poco a poco tutto diventa punto)

E già in linee il corpo, involucro dell’identità individuale, tendeva al disfacimento per gonfiore («i gonfiori nelle ginocchia», «il piede pulsa»; «(l’osso si gonfia)») e dunque a un’ipertensione epiteliale, a un assottigliamento dei tessuti che separano interno ed esterno, a una tensione fra immobilità («non vado») e movimento sul posto («il moto è forsennato e ogni sforzo apparirà il suo contrario / puntare i piedi e scegliere il muro più duro puntare i piedi e rivolgersi al dio più stanco»), finché l’io corpo si smembra e si deforma al contatto con la realtà («timpani concavi»):

tonfi leggeri e tubi su piedi che gonfiano

la gru ha una testa quasi animale

(ma il mondo oggi dov’è?)

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