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Omnia

Il teatro attraverso la filosofia di Gilles Deleuze (III)

Sottrazioni

Immagine articolo Fucine MuteAl terzo paragrafo di Un manifesto di meno, Deleuze ritiene di poter indicare una sorta di percorso compiuto da Bene (e necessario a qualsiasi teatro che voglia dirsi minore) nella sua sottrazione degli elementi di potere sia dalla rappresentazione che dal rappresentato nell’evento teatrale. A partire dalla sottrazione della “Storia”, che, come si è visto, rappresenta il “marchio temporale” del potere, Deleuze suggerisce poi di sottrarre la Struttura, “perché è il marchio sincronico, l’insieme dei rapporti tra invarianti”.[1] Il problema della struttura e delle sue invarianti, era giá emerso in rapporto alla lingua, al suo uso maggiore, scientifico (linguistico) a cui è sotteso il modello di potere attraverso il quale viene standardizzata e utilizzata come suo veicolo (vedi il primo volume di Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia.[2]).
Il passo successivo compiuto da Bene è quello di detrarre dal suo teatro anche le costanti, (non in relazione solamente alla lingua) quali elementi di stabilizzazione appartenenti ad ogni uso maggiore; è necessario inoltre che anche il testo, ulteriore invariante garante di omogeneità in teatro, paragonato al dominio della lingua sulla parola, debba essere amputato.
Lo stesso Bene, infatti, conformemente alla ricerca del “vuoto”, dell’assenza in (e del) teatro, ha dichiarato in più occasioni la propria battaglia contro l’egemonia del testo, in accordo con la posizione di Artaud, che però non riuscì a tradurre in pratica le sue teorie teatrali, soprattutto a causa della ricerca di una perduta unità originaria nella “parola prima delle parole”.[3]
Per Bene, il testo, così come lo spartito musicale e la sceneggiatura, è la replica di eventi già trascorsi, è rappresentazione scritta, già messa in scena dall’autore, che codifica e perpetua ruoli ed identità, a scapito dei doppi inespressi nel testo ed omessi per volontà del drammaturgo.[4]
La questione dei doppi nel teatro di Bene è analizzata in particolare da Pierre Klossowski in un saggio scritto come prefazione al testo dell’Otello di Bene; a partire dal problema dell’identificazione attore-personaggio, Klossowski sottolinea che il pubblico moderno si aspetta l’identificazione dell’uno con l’altro, e desidera rassicurazione e certezza nel verificare il perpetuarsi, grazie alla recitazione-somiglianza, dell’identità già stabilita e trascritta del personaggio in questione.
I personaggi di Bene invece spezzano questo riconoscimento dovuto all’identificazione storica, mediante una contraffazione che supera anche la concezione del “doppio” artaudiano, (e dello sdoppiamento brechtiano) termine “equivoco”, [poiché] “Non si tratta di contraffare l’originale del personaggio”,[5] ma di procedere con quest’evoluzione nelle sue infinite varianti, per scongiurare l’uguale, la simulazione, e realizzare così la perversione in teatro.
La perversione, che è un’assenza, implica anche la sovrabbondanza di significanti in scena con i quali l’attore gioca, assumendoli su di sé ma al contempo ignorandoli, per cui il personaggio e le sue azioni sono sempre eluse, differite, contraffatte, in un teatro che non vuole rassicurare ed offrire modelli d’identificazione, ed anzi si propone come “intollerabile”.
A partire dalla considerazione beniana della scrittura come degenerazione dell’oralità,[6] e poi del testo come iscrizione delle azioni storiche e della legge, il passaggio dalla drammaturgia alla rappresentazione teatrale — in senso classico — è un ulteriore passaggio e mediazione dell’evento, prima interpretato dal regista poi riprodotto in scena dall’attore (non perciò artefice) ed infine valutato dal critico.
Tutti questi ruoli codificati non fanno altro che perpetuare la rappresentazione-mediazione; l’ultima figura, quella del critico teatrale, si è resa necessaria, secondo Bene, dal momento in cui il regista è diventato il coordinatore, il deus ex machina, l’interprete e il traduttore del testo, soverchiando con la propria soggettività la creatività dell’attore già compromessa dal ruolo impostogli. A quest’attività di regia è legato il giudizio del critico, la necessità di un commento all’interpretazione registica, con funzione tra il morale ed il politico, più che estetica, ennesimo filtro di un evento della cui immediatezza non resta nulla, suggeritore d’intenzioni per un pubblico da indottrinare prima e dopo.
La sottrazione del testo permette allora alla macchina attoriale, (in questo caso, a Bene) sia di eliminare il ruolo del regista e del critico, che di dar voce a quell’”uso intensivo asignificante della lingua” invocato da Deleuze; dice anche A. Scala: “La voce cancella il testo. La voce della macchina attoriale dissolvendo il rapporto del testo con l’attore, corrode il rapporto della parola con la lingua. Opera, secondo Deleuze ‘la distruzione del dominio della lingua sulla parola’, che si esprime attraverso l’immagine della lingua come partitura muta: la parola non dovrebbe fare altro che recitarla. Così è per il testo nella tradizione dello spettacolo.”[7] Ed ancora: “La scrittura è nella voce: sovvertimento del rapporto tra langue e parole. La langue non è una partitura scritta non preesistente al suo dire. […] La parola dell’attore non è quella dell’interprete. L’attore non restituisce il testo che ha ricevuto, lo scrive con la voce.”[8]
Lo stesso Bene, conformemente al suo intento di non realizzare un teatro espressivo di alcunché, e dell’impossibilità di trasmettere e attribuire un qualsiasi senso ultimo alla scena, ribadisce in più contesti l’impossibilità del dire, che sta alla base di questa prassi teatrale. “Come il pensiero anche il linguaggio è linguaggio d’un altro che trova in noi la sua crisi”,[9] da ciò quindi quell’afasia e quel suo balbettare ed inceppare in e tra un verso e l’altro, dimenticando il proprio virtuosismo assieme al proprio ruolo nella miriade di significanti che la sua scena lascia emergere.
Alla sottrazione del testo segue necessariamente, secondo Deleuze, la soppressione del dialogo, altro elemento che permette al potere di circolare mediante le parole; anche Bene lo indica in più punti quale fattore cancellato dalla propria prassi teatrale, collegato a ciò che definisce la sospensione del tragico: “Una azione fermata nell’atto abortito è quanto m’è piaciuto definire sospensione del tragico ovvero sospensione del dialogo.”[10] In un teatro che, conformemente a tutte le sottrazioni di cui sopra, nega l’identità e la presenza del soggetto-attore così come ad un supposto personaggio-ruolo, non può aver luogo un dialogo, ovvero lo scambio dialettico di stampo euripideo-socratico denunciato giá da Nietzsche nella Nascita della tragedia.

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Sulla base delle riflessioni di Nietzsche e della sua esegesi da parte di Deleuze, a proposito della questione del giudizio, Bene si riferisce alla potenzialità a noi sconosciuta della phoné poetica della tragedia greca pre-euripidea. È un elemente antecedente e al di là di ogni dialettica, prologo o epilogo, quindi anteriore alla mediazione dell’autore-drammaturgo che, codificato il testo, nega la scrittura di scena.
Quest’ultima si segnala come “linguaggio teatrale nel suo farsi […]. Il drammaturgo a priori è concepibile soltanto se il suo copione, lungi dal troppo sconfortante, abituale tennis di “battute” in prosa, è invece già un progetto di spettacolo, se, come nella specificità della musica, è partitura che l’esecuzione reinventerà nella sera della sua festa”.[11] La scrittura di scena per come egli la concepisce è quindi qualcosa di radicalmente diverso dal testo teatrale classico; si tratta, infatti, di riaprire quella “traccia originaria” dell’opera stessa, (che è stata codificata successivamente nel testo) e di proporre una “trascrizione momentanea” che restituisce corpo alla voce e delle sue potenzialità, al posto dell’egemonia della parola.
Bene non mette in discussione né la poesia tragica, né le opere di un Shakespeare o di un Marlowe e neppure critica la possibilità della scrittura scenica in toto, anzi. La stessa operazione critica da lui svolta su tanti testi classici, non fa altro che riconfermare la potenzialità creativa, valorizzando l’uso minore, il che è possibile proprio in quanto si tratta di opere d’arte, autonome (in senso deleuziano) ed eccedenti qualsiasi testo o interpretazione “ultima”.[12]
Tuttavia l’autore dello spettacolo dev’essere prima di tutto un artefice, l’operatore teatrale di un evento non ancora trascritto e conchiuso, e, come nei casi sopra citati, colui che svolge più ruoli in teatro.
D’altra parte, la stessa letteratura si conferma spesso più teatrale sulla pagina rispetto a tanti allestimenti teatrali, così come erroneamente si ritiene che riempire la scena di tanti mezzi espressivi “teatrali” debba necessariamente dar vita ad un teatro “totale”, laddove invece questo teatro necessita della sottrazione-degenerazione (eliminazione del proprio genere) per dar voce alle proprie virtualità e realizzarsi come tale.

Che cosa resta infine all’attore in una scena privata dei suoi strumenti di potere, della propria identità, stabilità, certezze e mediazioni se non il monologo, entro il quale egli dialoga (con quella che Bene definisce scrittura vocale), con lo strumento della propria voce? “Bene ha ragione di dire che si può anche recitare l’elenco telefonico perché il testo è solo elemento portatore di senso, mentre la voce significante apre verso i sensi, la sensibilità, dà corpo a sensazioni diverse che non sono solo frutto del concettualizzare”.[13]
Ossia, dopo la degenerazione-destrutturazione della forma teatrale, ciò che la voce evoca è la stessa sensazione descritta in relazione alla pittura di Bacon. È una sensazione che può essere evocata solamente in un teatro che necessariamente “disumanizzi” il corpo per lasciar emergere la propria voce e che quindi ricordi e sottenda in particolare la lezione del corpo senza organi artaudiano “Nel corpo del malessere, la bocca è sempre grotta, spalancata o chiusa, grido-silenzio-murmure. Eco infinalmente, delle innumerevoli voci inghiottite.”[14]

Immagine articolo Fucine MuteL’incontro che avvicina Bene e Artaud sul piano della ricerca sulla voce in teatro li divide però dal momento in cui nel secondo si tratta di sottolineare comunque una sorta di concretezza sulla scena, mentre in Bene la voce finisce per dissolvere ed assorbire in sé tutti gli elementi del teatro, nel suo farsi puro strumento della drammaturgia dell’assenza.[15]
Prosegue Deleuze: “come dicono Maurizio Grande e Franco Quadri, si toglie anche la dizione, anche l’azione: il playback è anzitutto una sottrazione. Ma cosa resta? Resta tutto, ma in una nuova luce, con nuovi suoni, con nuovi gesti.”[16] Per quel che riguarda la sottrazione dell’azione a favore dell’atto, il Lorenzaccio di Bene, come si è visto in precedenza, costituisce un buon esempio di questo far emergere l’evento-atto di contro alla storia e a tutte le mediazioni che la rappresentazione frappone al suo prodursi in scena.
In quanto alla dizione, conformemente alla sottrazione del linguaggio e del dialogo, dopo aver smontato e disarticolato la frase, la parola e la sintassi, Bene si occupa a questo punto di doppiarla, o meglio di dissolverla tramite l’uso della strumentazione fonica e del playback. Da ciò, ecco la nascita di quei “nuovi suoni” descritti da Deleuze e generati dalla voce della macchina attoriale in virtù di tutte le precedenti amputazioni.

La voce e le sue variazioni

Le metamorfosi teatrali che Bene ha definito altrove come un accumularsi di doppi in scena, attraverso i quali l’attore si modifica senza assumersene nessuno come identità fissa, testimonia l’irrappresentabilità del personaggio (e del teatro in genere) e contemporaneamente la desoggettivizzazione dell’attore, espropriato della propria identità, ridimensionato del proprio corpo, al fine di lasciar emergere la voce. Tuttavia quest’ultima non diventa un’ulteriore possibilità di riterritorializzazione del potere stesso, poiché sebbene rimetta in scena il gesto, la parola e la storia inizialmente sottratte, non restituisce loro una forma, ma ne attribuisce un diverso valore scenico, possibile proprio in virtù della precedente soppressione di segni e sensi che questi elementi evocavano.

L’arte teatrale per come ne parla Deleuze in queste pagine necessita della variazione continua quale operazione fondamentale ed il playback diventa uno degli strumenti utili ad ottenerla, nella lingua come nella parola, previa sottrazione di tutte le altre invarianti.
Anche la questione del soggetto-attore attraversa una modificazione successiva alla sottrazione della sua identità, dal momento in cui il teatro di Bene “rifiuta la soppressione del soggetto sulla quale si erige il vantaggio dell’Io. Il teatro deve restare, al contrario, luogo della “apparenza trascendente” del soggetto, messa in causa dell’Io, denuncia del divenire mortale nella storia e nel mondano”.[17]
Infatti, è proprio grazie a quest’uso particolare della phoné, che il soggetto-attore può emergere, liberato dalla zavorra dell’”Io-interprete” con la quale la sua poetica è sempre stata confusa.
Come sia effettivamente realizzabile un simile discorso sulla voce, (e quanto sia importante un uso appropriato della strumentazione fonica a teatro) è spiegato sia dallo stesso Bene nella Autografia d’un ritratto,[18] che da J. P. Manganaro: “La voce sola può annullare i valori tradizionali affidati al testo, sempre riduttivi delle molteplicità possibili, e dare un corpo fisico alle immagini mentali […] La voce sola trattiene in sé e rimanda l’intreccio, le situazioni, i conflitti di uno o più personaggi […] Bene formula, all’interno dell’enunciazione, una vastissima differenza di accenti e di velocità: non è tanto il semplice fatto casuale di passare dall’acuto al grave, di modulare l’intonazione lungo una scala di valori e colori tonali, quanto piuttosto il saper produrre all’interno della voce delle differenze di voci, delle variazioni continue d’intonazioni, il saper cambiare costantemente il modo vocale […] per cui non c’è più bisogno di immettersi nel personaggio come si continua ancora a fare a teatro.”[19]
Anche questo intende Deleuze, quando parla di nuovi suoni e gesti che emergono a partire dalla sottrazione, dall’operazione critica del teatro di Bene: l’esempio che porta è quello dell’enunciato lo giuro, che cambia in relazione al contesto in cui viene pronunciato. Se viene attraversato da diverse variabili può costituire un continuum di variazioni che ne impediscono il blocco, la fissazione in una costante. Similmente, i personaggi di Bene, grazie anche al linguaggio utilizzato nella sua prassi teatrale, scongiurano proprio questa fissazione dove le voci “sono rinchiuse in questa continuità spazio-temporale della variazione”,[20] per realizzare la quale il playback si dimostra essere uno dei mezzi privilegiati.
Nel disumanizzare il corpo dell’attore per fare emergere una phoné non viziata dai “ruoli dell’Io”, che eluda, fra l’altro, anche il riconoscimento del pubblico, Bene si accosta all’esperienza della Grecia antica. Non guarda all’utilità o meno della maschera che gli attori del V-IV secolo utilizzavano come amplificazione della voce ma al travestimento — alla spersonalizzazione — operata dall’attore su se stesso mediante i coturni, la maschera ed i megafoni. Il travestimento in questione non sarebbe importante in virtù di una sua possibile funzione di rendere più udibile o visibile l’attore, ma perché realizzerebbe in scena una contraffazione che l’attore compie per primo su se stesso, una deformazione iniziale alla ricerca di un’alterità da sperimentare su di sé, e comunicata al pubblico in seconda istanza.
Lo scopo sarebbe stato, quindi, di “Amplificarsi non per ‘farsi sentire meglio’ fin dagli ultimi posti in gradinata, ma per garantire all’eroismo, alla divinità ch’essi gestivano una ‘portata’ Altra dal dire […] Quei teatri non erano assemblee casuali e incontrollate; eran luoghi d’ascolto.”[21]
Seguendo l’esempio greco, è necessario che l’attore si “lasci parlare”, si lasci attraversare da una voce che non può dominare, non nel senso di perdere coscienza in una sorta di trance di cui sarebbe del tutto inconsapevole, bensì proprio per ridare dignità alla sua funzione poetica, che è la funzione della voce e non del testo detto, parlato, recitato, come accade nel teatro-rappresentazione.
Il playback segue l’esempio di pre-amplificazione del teatro greco, ed aumentando l’estraneità della voce rispetto all’immagine-corpo dell’attore, che tende perciò a dissolversi, opera uno straniamento per primo nell’attore stesso che la emette, e poi nel pubblico che lo ascolta, permettendo il suo imporsi come macchina attoriale grazie alle potenzialità che finalmente emergono.
Le variazioni continue ottenute nella phoné in virtù di quest’uso del playback, producono inoltre una dissociazione tra visione ed ascolto, uno sdoppiamento che da un lato, nell’oltrepassare il confine tra i due sensi, suggerisce una ricezione sinestetica dell’evento teatrale, e dall’altro conduce alla rottura della sincronia corpo-voce, gesto-parola, spesso intollerabile allo spettatore abituato all’associazione dell’uno con l’altro elemento.[22]
A partire dalla sottrazione della storia e della struttura nella lingua evidenziata da Deleuze nel teatro minore di Bene, si giunge all’amputazione di tutti i meccanismi teatrali grazie all’inserimento di questa diacronia, di questo scarto fondamentale per far emergere la differenza in scena: il “contro tempo”.

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Infatti, come nel Lorenzaccio, si è visto che l’atto prodotto in contro tempo sottraeva “all’azione il suo futuro, e per contraccolpo, il suo presente all’interpretazione”,[23] anche qui lo scarto tra la voce dell’attore e la sua amplificazione riafferma l’emergere dell’istante di Aiôn.
È da sottolineare peraltro che lo studio dell’amplificazione e della voce a teatro, sono stati adottati da Bene sin dai suoi primi spettacoli, a testimonianza di un percorso di ricerca volto a ridare musicalità alla propria voce, che deve quindi poter “tessere ed orchestrare instancabilmente non una lingua che si conosce già, ma un linguaggio di cui ignora tutto e che si rivela all’attore — e allo spettatore — nel momento stesso della sua enunciazione.”[24]
La questione della rottura della sincronia tra corpo e voce riporta anche alle considerazioni di Deleuze sull’uso dell’immagine nel cinema di Bene.[25] A partire dall’affermazione beniana che il “visivo”, l’immagine fissa e in movimento, è una replica e mediazione della realtà che rappresenta, si determina per Deleuze l’impossibilità per il cinema d’essere “arte”, ovvero espressione dell’immediatezza dell’atto. Nei suoi tentativi Bene ha sempre ricercato, nel cinema (come in teatro), l’ideale di destrutturazione della forma, in particolare dell’immagine-corpo, realizzabile in parte mediante determinate scelte di montaggio, a confermare in ogni caso alcune delle potenzialità del cinema già indicate da Deleuze in L’immagine-tempo.
Rispetto alla necessità affermata da Bene di voler eccedere la visione per sottolineare piuttosto la musicalità della voce-ascolto, grazie alle sottrazioni di tutte le invarianti, torna nuovamente utile riferirsi al saggio di Deleuze ed in particolare al passaggio in cui paragona lo Sprechgesang alla musicalità vocale dell’operatore Bene, che suggerisce inoltre una prossimità con la sua scrittura scenica e con il concetto di “lingua segreta”.
Anche Bene, come Nietzsche e Deleuze, fa riferimento al teatro greco pre-euripideo, non tanto per invocare una sorta di origine mitica del teatro, quanto per riappropriarsi di una dimensione poetica che coincida sia con un aspetto rituale dell’arte, che, soprattutto, con l’uso della voce quale rifiuto della mediazione in scena. Il rapporto tra voce e musicalità, affermato lungo tutto il suo percorso teatrale, lo conduce, (anche qui sulla scia di Nietzsche), ad affermare che la “decadenza del tragico” corrisponde alla decadenza dello spirito della musica: “musica e spirito della musica sono due cose ovviamente diverse. Non che lo specifico ‘musicistico’ non possa a volte essere musicale. Può esserlo, come l’immagine, il gesto, il suono ecc. La musica non è sempre musicale”.[26]
Attraverso le sue operazioni teatrali, quindi, facendo “saltare” la rappresentazione mediante l’operazione critica, Bene si è riappropriato soprattutto della voce, scindendola dal visivo, e, sulla base di numerosi studi, fra cui la lezione del parlando di Debussy o dell’impatto parola-luce-musica di Schönberg, ne ha recuperato appieno la musicalità, e con essa la musicalità dell’evento teatrale stesso.
Il paragone tra alcune tra le sperimentazioni della musica contemporanea, le lingue segrete ed il concetto di musicalità applicabile a qualsiasi realtà sonora è precisato da Deleuze e Guattari in Mille Piani. La voce diventa così “un asse di sperimentazione privilegiato che gioca ad un tempo sul linguaggio e sul suono”,[27] con possibilità di variazione più ampie di quelle limitate ad esempio dal canto, che ne fa una costante dipendente dalla nota e dallo strumento che l’accompagna.
Solo nel momento in cui “viene ricondotta al timbro”,[28] la voce acquisisce quella potenza di variazione continua che la fa diventare una “macchina musicale” che agisce in un piano sonoro composto di parti cantate, parlate, ecc., alla quale contribuiscono anche le alterazioni prodotte dalle componenti elettroniche, oltre che strumentali. Le variazioni prodotte da un tale uso della voce vanno così a confluire nella lingua segreta, concatenamento sonoro privo di costanti e in grado di mettere in comunicazione tutte le diverse componenti sonore.
Lo Sprechgesang rappresenta un esempio di variazione che agisce nella voce cantata realizzando contaminazioni tra musica e voce, poiché è uno stile declamatorio che sta a metà tra canto e recitazione, con l’altezza mantenuta nonostante cadute e risalite.
Similmente, anche Bene testimonia con la sua ricerca teatrale le infinite possibilità di contaminazione e fusione tra musica, teatro e linguaggio, ottenute anche grazie all’ausilio della strumentazione elettronica e di un uso corretto della voce, che garantisce l’emergere della sua musicalità e di quella sensazione tanto invocata a teatro[29].
Conoscere e sviluppare le capacità musicali della propria voce sono i presupposti fondamentali per ogni attore che voglia dirsi tale, che desideri cioè accedere a tutte le variazioni possibili della sua arte, verso quella meta che è la dissolvenza della propria soggettività, della propria identità, meta che lo stesso Bene dichiara d’aver raggiunto progressivamente, dopo molte sperimentazioni.
L’accostamento deleuziano dello Sprechgesang alle lingue segrete ed alla recitazione di Bene ed alla sua scrittura “operatoria”, mette quindi in gioco numerosi elementi di variazione a teatro, tra i quali anche il testo ed il modo in cui è scritto. Come precedentemente accennato, lo stesso Bene rifiuta qualsiasi aderenza ad un testo ultimo, fissato, per cui i suoi scritti teatrali diventano, secondo le sue parole così come quelle di Deleuze, “semplice materiale per la variazione”, simili a partiture musicali.[30]
In esse, anche le numerose indicazioni non testuali andrebbero decifrate, e considerate degli operatori — come li definisce Deleuze — aventi la funzione specifica della minorazione, quale ultimo momento di tutta l’operazione critica.
Immagine articolo Fucine MuteE quindi, come approfondiscono Deleuze e Guattari in Mille Piani, la contaminazione, il cromatismo generalizzato e la variazione continua prodotta dalle lingue segrete, si realizza allo stesso modo nel canto, nella musica, nella lingua, in teatro: “A teatro, i sussurri senza altezza definita di Bob Wilson, le variazioni ascendenti e discendenti di Carmelo Bene. Balbettare è facile, ma essere balbuziente nel linguaggio stesso è davvero un’altra cosa.”[31] Le variazioni linguistiche che Bene opera in teatro minorano allo stesso modo la voce recitante, il non-testo, e la lingua che egli utilizza; già prima Deleuze accennava ad una sua “linguistica quasi per ridere”, e anche in questo paragrafo ribadisce la prossimità tra la sua operazione critica sulla lingua in teatro e le minorazioni da parte di autori come Kafka, Pasolini, Beckett, Godard, Wilson, oppure il poeta francese di origine rumena Gherasim Luca.
Le variazioni compiute da questi autori sulla lingua all’interno del proprio campo artistico, quel “far balbettare il linguaggio”, apre nuove possibilità per il linguaggio e contemporaneamente mette anche in relazione i diversi campi in cui agisce: “Una recita in pubblico dei poemi fatta da Gherasim Luca è un avvenimento teatrale completo e meraviglioso […] Ritornare sempre alla formula di Proust: ‘i bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera…’”[32] che accomuna gli autori sopra citati.

La variazione degli altri elementi teatrali

La minorazione come processo creativo rende possibili delle alleanze tra gli artisti e crea dei concatenamenti tra le variabili che attraversano ogni ambito artistico; di conseguenza, sulla scia della linea di variazione aperta dall’operare di Bene, in un suo spettacolo non sono solo le componenti linguistiche a mutare, ma anche tutti gli altri elementi che ne fanno parte. Deleuze propone, in questo contesto, una specie di distinzione tra le componenti linguistiche definite “variabili interne” e le altre “variabili esterne”, ove le prime sfuggono alla struttura così come le seconde si sottraggono all’organizzazione dello stesso sistema dominante.[33]
All’afasia, al balbettare ed incepparsi nel linguaggio artistico di Bene corrispondono quindi tutta una serie di gesti e movimenti, che impediscono agli attori di fissarsi e corrispondere al proprio ruolo prescritto, e creano un disequilibrio amplificato dalla lingua e dal non-testo utilizzato.
D’altro canto, come avverte Deleuze, non si tratta semplicemente di svelare i rapporti di forza in scena mediante opposizioni ed impedimenti che più che eliminare il gioco di potere svelato, lo riprodurrebbe fedelmente; l’autore aveva infatti già avvertito in questo stesso saggio che per rompere con le manifestazioni del potere che sono consustanziali all’arte teatrale non basta certo rappresentarle, ma è necessario modificare la forma dell’arte stessa.
Partendo da questo presupposto, la variazione si conferma come una delle possibilità per attuare questa modificazione e così come accade per lo Sprechgesang dove l’altezza viene mantenuta nonostante le cadute e risalite, anche i gesti possono essere “modulati” alla stessa maniera: “il gesto di Riccardo III non smette di lasciare il proprio livello, la propria altezza, cadendo o risalendo, scivolando: il gesto in perpetuo squilibrio positivo.”[34]
Oltre al Riccardo III, Deleuze prende ad esempio il S.A.D.E., per indicare come il suo stile crei le variazioni sulla base di “linee melodiche” per il linguaggio — il suo recitativo che è al contempo musicale — e di una sorta di “grazia” per quel che riguarda i movimenti, il che evita qualsiasi stonatura nello spettacolo, qualsiasi conflitto, e se lo evidenzia è per poi sottrarlo. Per questo motivo i gesti, i movimenti, così come la scrittura di Bene paiono a Deleuze musicali, perché invece di muoversi per contrasti o opposizioni, dipendono da velocità e lentezze, e la musicalità deriva proprio da questa sorta di continuità mantenuta nonostante le alterazioni di velocità e di forma; “ogni forma vi è deformata da modificazioni di velocità che fanno sì che lo stesso gesto o la stessa parola non sono mai ripetuti due volte senza ottenere caratteristiche diverse di tempo. È la formula musicale della continuità, o della forma da trasformare.”[35]
Questo è il teatro in cui, dopo aver sottratto ogni invariante e dissolto le forme per affrontare la scena in perpetuo stato di variazione dei suoi elementi, si realizza un divenire continuo e la contro-effettuazione dell’evento: é “ecceità” che non ripete mai gli stessi gesti perché, in quanto tale, li realizza in un piano di consistenza, il cui tempo è il tempo di Aiôn.
“E poi c’è un piano [di consistenza, o composizione] o una concezione del piano del tutto differente. Qui non ci sono più assolutamente forme o sviluppi di forme né soggetti e formazioni di soggetti. Non c’è più struttura che genesi. Ci sono soltanto rapporti di movimento e riposo, di velocità e lentezza tra elementi non formati […] Ci sono soltanto ecceità, affetti, individuazioni senza soggetto, che costituiscono concatenamenti collettivi.”[36]
Proprio su questo piano si produce l’arte di Bene e si realizza come concatenamento collettivo d’enunciazione: infatti Deleuze ribadisce che gli operatori, giá segnalati in riferimento alle sue indicazioni non-testuali e della minorazione, “sono precisamente degli indicatori di velocità”.[37] Questi elementi fondamentali dello stile beniano di scrittura scenica sono uno dei motivi per cui Deleuze ritiene che il suo teatro andrebbe anche letto oltre che visto.

Immagine articolo Fucine MuteQuesto sta a significare che, pur facendo parte del testo, non gli appartengono del tutto, così come, pur riguardando il teatro, non riguardano solo quest’arte. Sono appunto tali operatori e tutto il processo di minorazione del suo teatro a renderlo un concatenamento collettivo: “Gli indicatori di velocità presuppongono delle forme che possono dissolvere”[38] dissoluzione, parallela alla soppressione del soggetto-Io, alla quale mira tutta la produzione artistica di Bene, la sua drammaturgia dell’assenza.
Diviene forse allora più chiara la possibilità e la necessità di mettere in relazione la sua produzione artistica con opere e minorazioni affini, secondo concatenamenti che avvicinano non solo i piani di altri autori minori, ma anche altre variabili. Deleuze indica l’effetto della musica atonale su quella tonale, P. Boulez nella musica, ma anche l’anglo-americano per quel che riguarda la lingua, la filosofia di Nietzsche, il cinema di Godard, la scrittura di Woolf, l’arte di Hölderlin e Kleist, per tornare ad autori da lui più volte nominati.[39]
Questo saggio si conferma quindi sostanzialmente come una critica e una clinica, e, sempre stando a Conversazioni, si tratta dell’analisi dei regimi di segni propri dell’autore — in questo caso Bene — del suo piano di consistenza e di quella linea di maggior pendenza che ne caratterizza l’opera e le variazioni.[40]
Un esempio simile, è dato in Critica e clinica dall’analisi di Deleuze dell’arte teatrale di Beckett; lí il filosofo francese indagava il suo stile a partire da quel “collocarsi nel mezzo” tipico degli autori minori, che produce uno squilibrio nato dalla lingua per poi propagarsi ai gesti. D’altro canto, Deleuze ritiene anche possibile che il processo disgiuntivo inclusivo della lingua nell’ambito del piano di consistenza di cui l’arte di Beckett partecipa, nasca invece a partire dall’andatura, dal portamento dell’attore. In ogni caso, ciò che l’autore evidenzia con le riflessioni sull’arte di Beckett è il “superamento della parola in funzione della lingua”, e “dell’organismo in direzione di un corpo senza organi”, verso il raggiungimento di quella zona d’indiscernibilità che fa parte di ogni divenire.[41]
Come nel caso di Beckett, quindi, anche in Bene Deleuze rileva che il processo di minorazione coinvolge allo stesso livello lingua, gesti, movimenti, secondo una sottrazione e subordinazione sia delle forme alle variazioni di velocità che, allo stesso modo, del soggetto ad affetti ed intensità, due movimenti che a suo parere si rivelano “essenziali da ottenere nelle arti”.[42]
Per quel che riguarda la “geometria” che sottende queste variazioni di velocità, intensità o affetti, si può far riferimento alle pagine di Che cos’è la filosofia?, che delineano un immagine più ampia di tali rapporti tra l’arte e il proprio piano, ed in particolare al concetto di dequadratura: “è necessario inoltre un vasto piano di composizione che operi una sorta di dequadratura secondo delle linee di fuga […] È su questo piano di composizione che si tracciano, come su ‘uno spazio vettoriale astratto’, delle figure geometriche…”.[43]
La dequadratura è un movimento di deterritorializzazione della sensazione nell’ambito del piano stesso, un trasversale, (termine introdotto già in Mille Piani) sempre per indicare una componente che “prende su di sé il valore specializzato di deterritorializzazione.”[44] Il lavoro dell’artista si articola sia nel realizzare il proprio piano di composizione secondo il processo di variazione continua, che nel movimento della dequadratura per impedire ogni chiusura del piano e mantenerlo in apertura, in un “disequilibrio permanente.”[45]
Deleuze si sofferma poi sui film di Bene e nello specifico su quell’importante distinzione tra teatro, in cui prevale l’ascolto, e cinema, dove invece prevale l’aspetto visivo. Lo stile di Bene, che cerca di superare questa prevalenza dell’una o dell’altra modalità di ricezione a favore di una percezione sinestetica di entrambe le arti, emerge oltre che a teatro anche nei suoi film, nel suo voler realizzare “il cinema come immagine acustica”,[46] ossia perseguire la cecità dell’immagine dominante.
L’importante per Deleuze è sottolineare come Bene abbia sempre ottenuto nella sua produzione artistica quel continuum di variazioni, di suoni o movimenti, che la rende minore e questo soprattutto in teatro, ma non perché non vi siano stimoli sufficienti dalla sua produzione cinematografica, anzi: il filosofo francese lascia qui aperta la questione, e la riprende nel successivo Cinema 2.
Qui Deleuze approfondisce l’argomento e rileva che la ricerca di Bene tende anche nel cinema alla destrutturazione delle forme verso la prevalenza del sonoro, della musica, della voce e delle variazioni in seno a tutti gli elementi che costituiscono l’arte stessa;[47] la linea di maggior pendenza individuata dal processo di clinica sull’arte di Bene è proprio questa musicalità.
In conclusione al IV paragrafo di Un manifesto di meno, Deleuze traccia una sorta di mappa dell’intreccio di tutte le variazioni che si verificano nelle prime scene del Riccardo III di Bene, per mostrarci con precisione come queste, dapprima isolate, successivamente crescano d’intensità per confluire nello stesso continuum in rapporto al costituirsi di Riccardo in scena. Uno degli operatori di Bene segnalati dallo stesso Deleuze evidenzia particolarmente questo processo: “(e qui Riccardo perde l’equilibrio — è un niente, un gomito è slittato dal bordo del comò o del letto — …E, quindi, la Duchessa cambia tono [N.B.: Cambiare tono vuol dire cambiare, rovesciare completamente la recitazione = da madre “politica“a”mamma“che, cantilenante e bonaria e affettuosa, redarguisce quel suo pargoletto, quel suo Riccardo discolo e precoce]) [48]
Ogni personaggio in scena muta in funzione di Riccardo e del suo costituirsi come macchina da guerra, ma al contempo le variazioni di ciascuno contribuiscono a questa trasformazione, alla sua “comprensione” di sé e della sua funzione.
Ed allora tutte le variabili — lingua, gesti, movimenti — conducono inevitabilmente alla scena con Lady Anna (già analizzata da Deleuze in Conversazioni),[49] culmine di questa prima parte, in cui il processo di reciproca influenza e variazioni si concentra sempre di più. “Bisogna che lo spettacolo non solo capisca, ma senta anche e veda il fine che già perseguivano, senza saperlo, il balbettare e incespicare iniziali: l’Idea divenuta visibile, sensibile, la politica divenuta erotica. […] A tal punto non devono esserci due continuità che si intersecano l’un l’altra, ma un unico e solo continuum in cui le parole e i gesti fungono da variabili in trasformazione…(bisognerebbe analizzare tutto il seguito del lavoro, e la mirabile costituzione della fine…)”[50].
Deleuze lascia qui aperta la strada per una prosecuzione nell’analisi del non-testo di Bene, in particolare riguardo la sua metamorfosi come macchina da guerra e il suo influsso sull’apparato di Stato che ha contribuito a scardinare.

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Finalità di un teatro minore

Al termine del percorso attraverso la produzione artistica di Bene, conclusa l’analisi del suo processo di minorazione — eliminazione di costanti ed invarianti, nella lingua e nei gesti, nel potere in e del teatro, e successiva messa in variazione di tutti gli elementi — Deleuze si pone la questione sia dell’utilità effettiva che della legittimità di una tale operazione. Il problema è se Bene non sia semplicemente un altro rappresentante di quel potere che il suo teatro sembra voler scardinare, tanto più accentratore se si considerano le molteplici funzioni da lui svolte — e sempre rinnegate come tali — autore, attore, regista.
La risposta è negativa: al contrario di quello che fa Bene, il vero gioco di potere da parte di un artista sarebbe reclamare, per la propria arte, un ruolo dirompente, in opposizione alle forme artistiche precedenti, riconfermandosi come un altro strumento del potere, che si propaga appunto attraverso la rappresentazione istituzionalizzata dei conflitti e delle opposizioni. “Le istituzioni sono gli organi della rappresentazione dei conflitti riconosciuti, e il teatro è un’istituzione, il teatro è “ufficiale”, anche se d’avanguardia, anche se popolare.”[51] (e la stessa cosa vale anche per il cinema).
In conformità con il suo essere artefice ed operatore, la produzione artistica di Bene non si fa carico di formule con cui identificarsi e porsi in contrasto con altre — il teatro popolare, o d’avanguardia — il che non costituirebbe una vera e propria operazione critica. Qui si gioca la differenza ad esempio da Brecht ed il suo teatro “epico”, che pur denunciando i conflitti di classe, non si distacca dalla logica della rappresentazione classica ossia dalla semplice messa in scena degli stessi.
La vaga polemica di Deleuze riguarda tutti i generi teatrali che, come in Brecht, partendo da un determinato presupposto, offrono un’immagine (e un giudizio) prestabilita e formalizzata. Questo riguarda lo psicodramma, il teatro estetizzante o del teatro mistico o comunitario, e tutti quei movimenti del teatro contemporaneo, rispetto ai quali l’originalità del procedere di Bene si distingue.[52]
Per quel che riguarda lo psicodramma, si può fare riferimento ad esempio a Foucault, il quale, nel contesto dell’analisi della filosofia di Deleuze, indica nella psicanalisi e nel teatro (non rappresentativo) due serie divergenti inconciliabili; “E in ciascuna di queste due nuove serie divergenti (rimarchevole ingenuità di coloro che hanno creduto di “ri-conciliarle”, di ripiegarle l’una sull’altra e di fabbricare i derisorio ‘psicodramma’), Freud e Artaud si ignorano ed entrano in risonanza.”[53]
D’altro canto, anche un teatro che si basi su presupposti consolatori o mistici è altrettanto fuorviante da quella che dovrebbe costituirsi come un’operazione critica. A questo proposito, il paragone più immediato è con il “teatro povero” di Grotowski, un altro modo per riempire la scena teatrale — sempre pre-supposta e originaria, come anche nel caso di Tadeusz Kantor — mediante la parola e il corpo; “la scena grotowskiana, per essere unicamente corporea, è perdutamente sessuale, al limite persino sentimentale […] Grotowski, paradossalmente, si costituisce in una speranza e in una illusione che sono congenite alla frase, alla parola […] l’organismo corporeo si direbbe quasi una comunità sociale di cui Grotowski si sente podestà e sacerdote allo stesso tempo…”.[54]
Il punto focale è proprio quell’evidenza di uno schema attorno al quale si svolge la ricerca, che per quanto si cerchi di uscire di scena impedisce di sottrarsi alla logica della rappresentazione; “Nel migliore dei casi (e nell’odierna casistica questo migliore è pur sempre rappresentato da Brecht, dal Living Theater, da Grotowski, da Kantor e da Wilson), non si fa che aderire a posture o posizioni strettamente legate al campo del rito metafisico, con schemi ed estetiche che diventano altrettanti modi del ripetibile (Blümner, Artaud, come indicato da Umberto Artioli), anche quando appaiono o si danno come irripetibili.”[55]
La possibilità concreta di sottrarsi a questi schemi, che fanno riferimento a un modello di potere, e quindi ad una maggioranza,[56] è data dalla variazione continua, dalla potenzialità del divenire minoritario; infatti è anche per questo motivo che Deleuze ha sottolineato in precedenza l’aspetto “armonico” del continuum di variazione nel teatro di quella macchina attoriale che è Bene, la mancanza in lui di qualsiasi contrasto o opposizione a favore della geometria di affetti, movimenti ed intensità.
Proprio grazie a questa geometria realizza la funzione del suo teatro, senza opporre il proprio modello artistico ad altri e riscoprendo e riaprendo invece le potenzialità dell’arte teatrale, (e dell’arte in generale) sottraendola al potere. Questo “perché, addestrando la forma di una coscienza minoritaria, si rivolgerebbe a delle potenze in divenire, che sono di un ambito diverso da quello del Potere e della rappresentazione-campione […] L’arte è sottomessa a molti poteri, ma non è una forma di potere.”[57]

Immagine articolo Fucine MuteDi conseguenza anche i molteplici ruoli assunti da Bene nelle sue produzioni artistiche non indicano una forma di dispotismo, poiché ciò che conta è che anch’egli, per primo, pone se stesso ed il suo operare nella variazione, e non cessa mai di farlo. Il pericolo, avverte Deleuze, è dato dalla possibilità di riterritorializzarsi, di ricostituirsi come maggioranza, magari proprio in nome di alcune caratteristiche peculiari di una minoranza che vengono poi normalizzate e codificate.
Per attingere alle risorse della propria minoranza, della linea di variazione che le appartiene, Bene si rivolge alla propria origine, l’etnia pugliese da cui proviene, il suo Sud, che, resta tale finché vengono mantenuti quei tratti culturali che gli hanno permesso di restare al limite degli eventi storici.[58]
Deleuze distingue qui nettamente tra il concetto di popolo, che è già storicizzato, e l’etnia, che invece resta ancora una “linea di fuga nella struttura”; “Ma ognuno possiede il suo sud, situato non importa dove, vale a dire la sua linea di pendenza o di fuga. Le nazioni, le classi, i sessi hanno il loro sud.”[59] Ognuno di noi può quindi “diventare-minore” sfruttando la possibilità di sottrarsi al potere, alla maggioranza, costruendosi la propria linea di variazione; ed allora anche quel divenire-donna, nella cui ricerca s’impegnano i personaggi di Bene, assume un’ulteriore sfaccettatura se lo si considera come un dato minoritario che ciascuno può trovare in sé.[60]
La continuità del mettersi in gioco inteso come un mantenere aperto il processo di variazione permette agli artisti e alle opere d’arte di qualificarsi come potenze del divenire-minore, perché rendono possibile la creazione continua di nuove linee di variazione che vanno ad influire anche in altri piani, conformemente alle intuizioni di Che cos’è la filosofia?
Per Deleuze questa é la sfida principale dell’arte teatrale, che per realizzarsi come tale, necessita di una presa di coscienza minoritaria, anche se tale presa di coscienza assieme all’assunzione della responsabilità della minorazione non implica la sua definizione ultima in uno scopo, in una politica; il fine di un teatro minore è la propria minorazione come potenza del divenire e la rinuncia ad ogni riterritorializzazione.

Appendice
Gilles Deleuze, a proposito del Manfred alla Scala.

Il breve scritto di Deleuze, presentato con il disco Manfred — Byron-Schumann di Bene,[61] è successivo al testo di Sovrapposizioni e si sviluppa sulla falsariga dei suoi argomenti, rilanciando nuovamente la tematica della creazione, che va sempre mantenuta in uno stato di variazione continua per evitare il rischio della riterritorializzazione.
Nelle produzioni artistiche precedenti di Bene era emersa la sua linea di maggior pendenza, la voce e il suo uso corretto, che contribuisce alla realizzazione di uno spazio scenico dell’assenza (dell’autore, testo, attori, ecc.), grazie alla sua potenza di spersonalizzazione, — previa sottrazione delle invarianti teatrali.
In Un manifesto di meno, Deleuze concentra l’attenzione soprattutto sulla similitudine tra il processo del continuum di variazione ottenuto da Bene sia nella lingua che nei gesti in teatro, e lo Sprechgesang o altre simili sperimentazioni che “giocano” sulla linea del confine che separa voce e musica, per sottolineare l’originalità e la validità del suo processo di minorazione teatrale. Tuttavia — ricorda Deleuze in riferimento al Manfred di Bene — la potenza del divenire che ogni minorazione apre nell’arte deve rinnovarsi; “La potenza di un artista è il rinnovamento. Carmelo Bene ne è la prova. Grazie a tutto ciò che ha fatto, può rompere con quanto ha fatto.”[62]
A testimonianza dei risultati raggiunti da Romeo e Giulietta, Riccardo III e Otello vengono superati dalla “stagione” degli spettacoli-concerti inaugurata dal Manfred e proseguita con lo Spettacolo-concerto Majakovskij, l’Hyperion di Maderna e l’Egmont di Goethe con musiche di Beethoven, per citarne solo alcuni.
L’occasione per Bene di percorrere questa nuova sperimentazione viene con la richiesta del maestro F. Siciliani di realizzare due “poemi drammatici”, il primo dei quali è il Manfred, cinque atti di Lord Byron e musiche di scena di Schumann,[63] e l’altro è il Peer Gynt di Ibsen con musiche di Grieg, a cui peró Bene non poté partecipare.
Manfred viene realizzato in forma di concerto, con l’ausilio di strumentazione fonica, in cui la voce solista assume su di sé ed evoca tutti i ruoli in perfetta unione con l’orchestra, a testimonianza di una fase della produzione artistica beniana in cui la fusione tra musica e voce in teatro supera il concetto di semplice contaminazione tra i due ambiti.[64]
La questione, ricorda Deleuze, è sempre quella della prevalenza dell’aspetto o sonoro o visivo in un’immagine e della necessità di frantumare tale prevalenza a favore di una ricezione sinestetica,: Bene lo testimonia in tutta la sua produzione teatrale e cinematografica, grazie alla sottrazione, per giungere alla minorazione ed alla variazione continua di tutti gli elementi. A partire dal lavoro sulla lingua, sulla parola e sulla voce, passando per tutti i mezzi di amplificazione necessari, Bene giunge alla frantumazione della voce stessa come ultimo momento sottrattivo del suo teatro; l’assenza dell’attore — solo in scena, senza più scena — nella sua stessa voce, anch’essa resa minore, sottratta al suo senso e alla sua forma.

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La punta di deterritorializzazione che rende possibile una tale variazione, “che trascina tutta l’immagine”,[65] ed eccede alla fine anche la forma vocale, si avvale dell’elemento sonoro, che emerge dall’interno e si fa successivamente strada attraverso la voce — grida, bisbigli e alterazioni non nascono a partire dalla voce, ma lo diventano — per cui gli affetti corrispondenti diventano modi vocali.[66]
Come conseguenza, dopo aver estratto “il sonoro dal visivo”, anche le variazioni di velocità analizzate da Deleuze in Sovrapposizioni acquisiscono nuove potenzialità, così come i mezzi tecnici (il playback), rafforzando le potenzialità di una voce da cui Bene estrae le potenze musicali, ad intrecciare nello stesso continuum l’elemento musicale dell’orchestra con quello vocale nella sua piena musicalità. La macchina attoriale di Bene assume quindi su di sé un compito che supera il concetto di voce recitante e che, come sostiene, ritrovando la propria musicalità, anche quando la musica tace, non interrompe il continuum sonoro formato dalla fusione tra voce ed orchestra, all’interno di in una scena che non appartiene più solamente al teatro di prosa ma nemmeno all’opera.[67]
Deleuze conferma l’importanza di questa ritrovata musicalità nella voce nella prefazione e non esita a definirla voce modalizzata o filtrata, un’invenzione che oltrepassa lo Sprechgesang e va a rinnovare la minorazione del suo teatro, una nuova linea di fuga che apre l’arte teatrale ad ulteriori variazioni. Il processo di rinnovamento implica di fatto un uso diverso anche del playback dal momento in cui, se inizialmente pensato come mezzo per togliere di scena le invarianti teatrali, garantisce ora questo effetto nella voce stessa, lo amplifica, approfondendo le sperimentazioni di Bene sulle “addizioni e sottrazioni vocali”.[68]
L’incontro tra il teatro di Bene e il pensiero filosofico di Deleuze prosegue, quindi, trova nuovi spunti di contatto nella “messa in scena” della voce musicale in cui si rinnova la contro-effettuazione dell’evento teatrale: “L’attore-simulacro è l’incarnazione di questo soggetto la cui sola chance è di esistere nelle pieghe della voce […] Il soggetto, sulla scena di Bene, è un puro evento della voce […] L’evento è effetto di superficie, effetto immateriale del dire, secondo lo scontro del ritmo, dello spostamento della voce dentro o fuori della cavità orale, contro la verticalità del senso”.[69]
Lo spostamento del continuum di variazione sull’asse vocale, la creazione di una “nuova” voce, ha come conseguenza che le variazioni di velocità agiscono adesso sul piano del testo divenuto sonoro ed interagiscono sia con la musica che il cantato, minorandoli. Per Bene, l’ispirazione a creare questa fusione tra i due piani è arrivata grazie allo studio e l’interesse, da sempre coltivato, per il melodramma italiano, poiché è “eccedenza del ‘melos’ e del ‘dramma’”,[70] e si pone oltre ogni rivendicazione di “teatro totale”. Per quanto riguarda i ruoli, la preferenza di Bene va ai ruoli femminili interpretati da controtenori o sopranisti, il che corrisponde alla sua ricerca del femminile, sempre invocata nel teatro di prosa.
Cosa resta a questo punto dell’attore e della sua corporeità in un teatro che non è più prosa ma nemmeno opera lirica, e che sfugge quindi ad ogni collocazione? Soprattutto se si considera che secondo Bene nemmeno la voce utilizzata nei suoi spettacoli-concerti deve poter raggiungere il proprio limite espressivo, la propria riterritorializzazione in un qualche altro genere scenico che, stando tra la prosa e la lirica, ne farebbe una nuova costante.
E d’altra parte, anche l’attore che si lascia attraversare e spersonalizzare dalla propria voce ripropone nuovamente il problema della propria presenza, corporeità e necessità. Proprio su questo rapporto voce-attore e sull’esigenza che nessuno dei due elementi prevalga in scena, si gioca la sua più recente sottrazione.
In questo scenario teatrale che oscilla sul limite tra prosa e lirica, emerge naturalmente il confronto con il cantante d’opera: “L’attore, ormai fuor dell’opera, non si comporta certo come un cantante d’opera: non vi sono gesti che accompagnino sportivamente lo sforzo, né peggio che illustrino il personaggio o incoraggino il significato. Eppure, proprio come il cantante d’opera, anche l’attore — immerso nella musica e posto a confronto con la profondità della parola — ha da risolvere il problema della propria umana o naturale inadeguatezza, azzerando quanto può ma finalmente anche protestando la sua irriducibile presenza.”[71]
L’attore ha la possibilità di giocare sul limite della propria presenza sottratta ma anche riammessa in scena dalla voce nella quale agisce ora la variazione, recuperando la figura del commediante girovago cabotin, “parente dei mimi, degli istrioni, dei jongleurs […] È un inganno per sempre inaccessibile a chi non sa mentire.”[72]
Questo attore-istrione, un tempo incaricato di trasgredire e minare la coerenza della finzione scenica amplificandola ad altre, successive finzioni, secondo Bene è il vero artefice, il vero non-attore, colui che recupera la funzione della menzogna, della derisione, in grado cioè di aprire una linea di fuga all’interno della rappresentazione, di sovrapporre “maschera su una maschera”,[73] ossia di realizzare una parodia nel significato più proprio del termine.[74]
Ed è in questo modo, servendosi della parodia come contro-canto, che l’attore-cantante o l’attore-cabotin si sottraggono di continuo alle proprie macchinine vocali, intervenute a riempire lo spazio scenico al loro posto, impedendone il protagonismo.

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Anche la questione dei doppi in scena, messa in luce da Klossowski in riferimento alla recitazione di Bene, propone un paragone con il non-attore e l’istrione del teatro latino, che è l’antesignano del cabotin,. Il suo compito era di contraffare la divinità, il che implicava la derisione, il sabotaggio dell’immagine ufficiale, la simulazione attraverso cosiddette patofanìe o apparizioni istantanee. [75]Sostanzialmente, l’arte teatrale si presentava, tra gli altri aspetti, anche come un differire in scena gli atteggiamenti negativi o disdicevoli della divinità, differendo quindi il sacro, mediante mezzi tecnici che corrispondevano a ciò che oggi si intende come improvvisazione.
La tecnica teatrale di Bene riprende quest’aspetto di dissimulazione del teatro latino, realizzando il dramma in scena, in fieri, da vero e proprio artefice, solo che la derisione adesso l’attore la gioca su se stesso e sulla propria voce, per “una contraddizione che si crea all’interno di un’unica ‘macchina attoriale’ fra l’attore che si innalza sulla sua voce e la voce-risonanza che schiaccia e scaccia l’attore. Entrambi comunque, vuoi ‘per apoteosi o per derisione’, evasi, ‘fuor dall’opera’.”[76]

Note


[1] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 77.
[2] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, cap. IV.
[3] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 313: “Un teatro che subordini la regia e lo spettacolo, vale a dire tutto ciò che in esso c’è di specificatamente teatrale, al testo, è un teatro di idioti, di pazzi […] in una parola, di Occidentali. (Antonin Artaud) È la sola, lapidaria affermazione che la mia teoria-prassi scenica condivida dentro il magma enunciato, argomentato e di-scritto ne Il teatro e il suo doppio.
[4] Ivi, p. 330: “Io reinterpreto l’opera, avendo frugato in tutta la sua indecenza la galassia dei significanti, la miriade dei doppi di cui l’autore, per realizzare la partitura, s’è privato.”
[5] Ivi, p. 333.
[6] C. Bene, Opere, cit., p. 3: “Se l’orale del non luogo teatrale è possibile perché irrappresentabile, lo scritto è mera rappresentazione impossibile, perché già compiuta.”
[7] A. Scala, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p. 42.
[8] A. Scala, “La voce zoppa”, in AA.VV., La ricerca impossibile, cit.
[9] C. Bene, Opere, cit., p. 1248.
[10] Ivi, p. X e p. 1000.
[11] Ivi, p. 1006.
[12] P. Klossowski, “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 16, n.1: “Carmelo legittima in tal modo la regola della propria messa in scena ed il principio della propria drammaturgia: trattandosi di Shakespeare, volerlo mettere in scena conformemente al testo sarebbe dunque un errore, nel senso che la messa in scena irrecuperabile d’allora è anteriore al testo definitivo, laddove quest’ultimo ha fissato in certo qual modo le variabili delle ripetizioni” ed anche: C. Dumoulié, “Chora o il corpo della Voce”, in AA.VV., La ricerca impossibile, cit., ora in C. Bene, Opere, cit., p. 1512: “La scrittura di scena di Carmelo Bene si elabora sempre a partire da testi già scritti: Shakespeare, Musset, Sem Benelli, Marlowe, poiché a nulla serve soccombere alla vertigine dell’originale; ma a partire dal non-luogo del teatro, essa apre nel testo uno spazio di smarginamento, di trinceramento del senso che, dal testo stesso, fa sorgere le fluttuazioni d’intensità che lo slabbrano in quanto segno del potere, fatum del senso, e lo restituiscono al più originario: la pulsione della scrittura, la pulsazione della voce.”
[13] J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 69.
[14] C. Bene, Opere, cit., p. 1003.
[15] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 129.
[16] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.
[17] M. Grande, “Nota”, in C. Bene, Opere, cit., p. 995.
[18] C. Bene, Opere, cit., p. V.
[19] J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 68.
[20] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.
[21] C. Bene, Opere, cit., p. 1014.
[22] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 141.
[23] C. Dumoulié, “Tempo rubato”, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p. 63.
[24] J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 65.
[25] Cfr. capitolo III, 1.
[26] C. Bene, Opere, cit., p. 1013.
[27] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 138.
[28] Ibidem.
[29] C. Bene, “Sono apparso alla Madonna”, in Opere, cit., p. 1098: “La voce umana dispone di tre registri (petto-misto-testa) attraverso i quali si esplica l’estensione, come possibilità dinamica dal grave all’acuto. Componenti fondamentali sono: altezza, intensità e timbro, quale caratteristica fondamentale che distingue una voce dall’altra. Tessitura d’una voce è la zona più «disponibile» all’emissione, in relazione al timbro e all’estensione, per garantire la «tenuta» nell’arco di un discorso, fraseggio, ecc. Il tono è la tonalità (arco da nota «a» a nota «z») nella quale decidi di timbrare. Dal che deriva il timbro essere unico e le tonalità infinite. [La mia voce] Rigorosissima tenuta della tonalità per giocare all’interno di essa le innumerevoli combinazioni di intervalli […] È un lavorare ostinato nello spazio interno della fascia sonora […] I microfoni sono veri e propri strumenti musicali, che bisogna saper suonare, soprattutto se ne adoperi cinque o sei insieme. Attraverso tali strumenti (collegati ad un mixer, dotato d’equalizzatore, ecc.) la voce può permettersi una musicalità di colori insospettata davvero.”
[30] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.
[31] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 141.
[32] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 80.
[33] Ivi, p. 81, ed anche. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 141: “quando si sottopongono gli elementi linguistici a un trattamento di variazione continua, quando s’introduce nel linguaggio una pragmatica interna, si è necessariamente condotti a trattare in egual modo elementi non linguistici, gesti, strumenti, come se i due aspetti della pragmatica si raggiungessero, sulla stessa linea di variazione, nello stesso continuum.”
[34] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 82.
[35] Ivi, p. 83.
[36] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 386.
[37] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 83.
[38] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 140.
[39] Ivi, cap. III, p. 129: “Ma ecco che lo stesso Kafka pone la letteratura in rapporto immediato con una macchina di minoranza, un nuovo concatenamento collettivo d’enunciazione riguardo alla lingua tedesca […] Ecco che Kleist pone la letteratura in rapporto immediato con una macchina da guerra.”
[40] Cfr. Capitolo II, 1.
[41] G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 145.
[42] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 83.
[43] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 194.
[44] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 2, p. 490.
[45] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 204: “La sensazione composta, fatta di percetti ed affetti, deterritorializza il sistema dell’opinione […] Ma la sensazione composta si riterritorializza sul piano di composizione […] E, nello stesso tempo, il piano di composizione trascina la sensazione in una deterritorializzazione superiore, facendola passare attraverso una sorta di dequadratura che la apre e la fende su un cosmo infinito.”
[46] C. Bene, Opere, cit., p. XIII.
[47] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit.: “Nel non-volere si liberano la musica e la parola, il loro intreccio in un corpo ormai soltanto sonoro […] Anche l’afasia diventa allora una lingua nobile e musicale. Non sono più i personaggi ad avere una voce, sono le voci, o meglio i modi vocali del protagonista (mormorio, soffio, grido, eruttazione…) a diventare i soli e veri personaggi della cerimonia…”.
[48] C. Bene, Riccardo III, cit., p. 14 (in corsivo nel testo).
[49] Cfr. Capitolo II, 1.
[50] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 85.
[51] Ivi, p. 87
[52] Ivi, p. 73.
[53] M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., p. 58.
[54] E. Fadini, “La testimonianza intollerabile”, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., pp. 134-135; sempre per un confronto con il teatro di Bene, P. Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 28, n. 31: “Considerando infatti per un attimo le assonanze e le distanze fra il teatro dell’irrappresentabile di Bene e la ricerca sull’arte del Performer di Grotowski, si verifica facilmente come non si possa nemmeno parlare di differenze di metodo, ma di diversa impostazione e differente obiettivo, anzi di telos della ricerca: evidentemente oltre il ‘teatro della rappresentazione’ si danno almeno due possibilità, quella di chi si colloca nell’estremo opposto come Grotowski (e da lì dialoga), e quella di chi si riconosce senz’altro nell’estremistica opposizione (e da lì nega legittimità e valore alla finzione del ‘rappresentare’).
[55] J. P. Manganaro, “La memoria del futuro (Il Laboratorio veneziano ovvero dei saggi ‘prescritti’ e della Ricerca ‘ritrovata’)”, in AA. VV., La ricerca impossibile, Biennale Teatro ’89, Marsilio, Venezia 1990.
[56] T. Villani, Deleuze. Un filosofo dalla parte del fuoco, Costa&Nolan, Milano 1998, p. 83: “In Sovrapposizioni, […], Deleuze si sofferma sul rapporto tra arte e potere sgombrando il campo, una volta per tutte, dalle pretese messianiche di inconsistenti avanguardie. La lotta tra il potere e l’arte si gioca interamente sul terreno del ‘parlar bene’ maggiore.”
[57] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 89.
[58] Cfr. Capitolo IV, 3.
[59] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 139, e anche: G. Deleuze, Un manifesto di meno cit., p. 90: “La sua propria minoranza, Carmelo Bene la vive in rapporto alla gente delle Puglie: il Sud o il suo terzo-mondo, nel senso in cui ognuno ha un sud e un terzo-mondo.”
[60] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit.: “minoranza ha due sensi […] designa anzitutto uno stato di fatto, cioè la situazione di un gruppo che, quale che sia il suo numero, è escluso dalla maggioranza, oppure incluso, ma come una frazione subordinata in rapporto ad un campione di misura che fa la legge e fissa la maggioranza. […] un secondo senso: minoranza non designerà più uno stato di fatto, ma un divenire in cui ci si impegna.”
[61] C. Bene, Manfred – Byron-Schumann, orchestra e coro del Teatro alla Scala, cit.
[62] G. Deleuze, “A proposito del “Manfred” alla Scala” (1 ottobre 1980), in Carmelo Bene. Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 7.
[63] C. Bene, Opere, cit., p. 925.
[64] J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 73; “L’opera procede tecnicamente secondo un modello binario apparentemente semplice: ad ogni canto recitativo di Bene segue un controcanto dell’orchestra, ma tale procedere non tende attraverso tesi e posizioni verso una fine, non ha una sua finalità. Vive di lievitazione negando ogni centralità dei significati […] e – come sempre –  propone un modello estetico di trasgressione, un modo di creare assolutamente nuovo, uscendo da un contesto e riuscendo in un altro.”
[65] G. Deleuze, “A proposito del Manfred alla Scala”, cit., p. 7.
[66] Cfr. Capitolo V, 1.
[67] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 353.
[68] G. Deleuze, “A proposito del Manfred alla Scala”, cit., p. 8 (in corsivo nel testo).
[69] C. Dumoulié, “Chora o il corpo della Voce”, cit.
[70] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 363.
[71] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 138
[72] C. Bene, Opere, cit., p. 1025.
[73] Ivi, p. 1027 (in corsivo nel testo).
[74] P. Pavis, voce “Parodia”, in Dizionario del Teatro, cit., p. 281: “Dal greco […] parodìa, ‘contro-canto.’” Vedi anche P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 138: “Così – nello scarto fra la musica dominante e la prosa residua, ovvero nel conflitto fra l’organicità invisibile del verbo e l’inorganica pesantezza del corpo – la parodìa diventa l’ultima possibile pratica attoriale. […] si può infatti comprendere cos’è il parodiare, cos’è andare ‘verso o attorno al canto’, se si osserva come si recita appunto tutt’intorno al cantare.”
[75] P. Klossowski “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, cit., p. 16.
[76] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 161.

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