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Percorsi

L’isola di Pasqua

23/11/2004

Il volo Lan Chile, decollato da Santiago, traccia le medesime rotte ispirate un tempo ai navigatori che dal continente sudamericano si dirigevano verso l’immenso triangolo oceanico della Polinesia; Apice nelle Hawai, limite occidentale la Nuova Zelanda dei Maori, l’isola di Pasqua ne costituisce il vertice orientale.

Immagine articolo Fucine Mute

Dalle letture dei tempi antichi, scopro che Rapa Nui divenne meta d’un flusso migratore proveniente dalle Isole Marchesi, cuore esatto del triangolo polinesiano. Un pauroso cataclisma spinse quelle genti, gli “Hanau Momoko” verso Est. Hotu Matu’a ne era il re, portatore del “Manà”, potere soprannaturale che garantiva l’abbondanza dei raccolti e la pescosità dei mari. Hotu Matu’a era un intoccabile, un “Tapu”, nessuno poteva tagliargli nemmeno i capelli. Tramite il re, l’onirico si rendeva manifesto ad un popolo di valenti naviganti. Il favore divino non avrebbe mai abbandonato l’isola, finché fosse rimasto in vita un discendente diretto di Hotu Matu’a e l’ultimo scomparse nel 1867. Rapa Nui non apparve ad Hotu Matu’a come la vediamo noi oggi, palme gigantesche, boschi di Taromiro e di Hibisco silvestre ricoprivano i colli sinuosi e le ampie piane ora pressoché rase. Come allora, però, una rosa di venti la invade, dopo aver rasoiato l’oceano pacifico. L’isola di Pasqua è un triangolo di terra emersa per eruzione di tre vulcani, ormai spenti, disposti esattamente sui vertici. Il Rano Kau a Sud-Ovest nei pressi dell’unica città Hanga Roa, il Rano Raraku che fu cava d’estrazione dei Moai a Sud- est, ed il Rano Aroi a Nord.

La grassa masnada turistica, attende quasi annoiata la planata sull’ombelico del mondo. Stride per contrasto con le fatiche ataviche dei popoli migratori o con l’eccitazione d’antichi capitani coraggiosi. Approdare con troppa facilità su un sacro luogo della terra, non è mai di buon auspicio. In questo, come in altri casi, la banalità del viaggio ne sminuisce il valore, disperdendo l’energia della meta.
Alle 13.40 sono fuori dal liceo dove insegna Maria Virginia Haoa Cardinali, il contatto che gli amici di Santiago mi hanno procurato… “Viki” per gli amici. L’attendo in un via vai di scolari, giri di vento, e rintocchi di campane a ritmare gli intervalli delle lezioni.
Il tassista, sul chilometro di strada che separa l’aeroporto dalla scuola, ha ribadito spesso la tranquillità dell’isola e dei suoi abitanti:“Puoi lasciare le tue cose in macchina, le porte aperte, le chiavi sul cruscotto e non succede assolutamente nulla” Prima di depositarmi davanti alla scuola, abbiamo provato a vedere se Viki fosse a casa… tanto, ad Hanga Roa, tutto si raccoglie in un fazzoletto. Vi regna vita semplice, case immerse nel verde cucito assieme da strade di un’ocra polveroso.
C’è nessuno? Chiedo senza nemmeno alzare un abbaiar di cani. Viki non è in casa, nonostante abbia lasciato porte e finestre aperte alla brezza e al sole… invito per qualsiasi invisibile visitatore.
Fuori dalla scuola, la presenza d’uno straniero è un avvenimento! Ci si mette poco a diventare un fenomeno da baraccone. I bambini ti guardano con la tipica curiosità della loro età… come se s’aspettassero che da un momento all’altro tu riesca a sputar fuoco, far capriole, giochi di prestigio, il giocoliere, trasformarti in donna cannone! Quando scoprono che aspetti la loro professoressa, scatenano una formidabile caccia a Viki, presto confusa con i giochi della ricreazione in cortile.
Nel seguire le traiettorie dei giochi, ripenso a quanto ho letto in aereo sugli antichi ragazzi Rapa Nui: una vera e propria mania di mantenimento razziale, obbligava certi bambini alla reclusione in alcune tra le tante grotte di cui è ricca l’isola. I popoli polinesiani, di ceppo caucasico, erano di pelle bianca, a volte perfino biondi e di occhi chiari. Nei tempi remoti, questi eletti, considerati “Tapu”, cioè sacri, si proteggevano dal sole in modo da mantenerne la carnagione chiara. I “Neru”, così chiamati, venivano mantenuti illibati e potevano uscire dai loro templi sotterranei soltanto in occasione di feste religiose, celebrate in particolari nottate di solstizio.
Hanga Roa, ben poco poetica, è invasa perennemente dal flusso corrosivo del turismo continentale, al quale ci si danna l’anima per affittare di tutto… dalle cabanas ai fuoristrada, dalle bici ai cavalli. Nelle vie d’ocra prolificano ristoranti che cucinano carne, pesce e “curanto” da mattina a sera. Anche quest’isola, come qualsiasi ombelico del mondo, si è trasformata in un immenso mercato a respirazione alternata; inspira ed espira masse spropositate di “stranieri” al ritmo serrato dei voli Lan Chile. Uniche briciole di una certa fierezza, le colgo incrociando gli sguardi profondi di qualche polinesiano, o l’apparizione di giovani cavallerizzi dal fisico statuario e capelli lunghi. Hanno il potere d’interrompere lo scorrere del tempo alzando polveroni dietro le doppie criniere svolazzanti al vento. Tutto qui il Manà Rapa Nui? Non ne sono convinto, o almeno, non è felicità quella che percepisce il mio triangolo d’animo vagabondo, inscritto in quello di un’isola inscritta, a sua volta, nel triangolo cosmologico polinesiano. La domanda che ti fai è cosa centri l’America del Sud ed il Cile con questo posto.
Viki, impegnata a scuola, non ha potuto far altro che depositarmi a casa, meravigliandosi della silenziosa accoglienza dei suoi tre cani che solitamente abbaiano come forsennati. Ritorna al liceo, ai rintocchi di campane, al via vai dei ragazzi e ai giri di vento. Io mi accomodo nelle poche stanze d’una casa mescolata tra terra e legno, quasi soffocata da una vegetazione densa e volitiva. Giro nel silenzio soffermandomi sui quadri, sul disordine casalingo lasciato macerare alla rinfusa, cercando un angolo dove sedermi e scrivere… registrare.

Immagine articolo Fucine Mute

“Baihere” è “Acqua desiderata”. Mi sorprende in cucina, chino sugli appunti suggeriti dal vento sfilante tra foglie di palma. Baihere, figlia di Viki, è entrata chissà da quanto, varcando una porta finestra rimasta aperta come un’apparizione protetta dall’ombra e dallo scodinzolio dei suoi cani. Nei chiari scuri del meriggio mi accorgo di lei soprattutto per la luminosità del cordiale sorriso polinesiano. Immagine di bellezza ed estroversione, quasi una dea dei giardini, il corpo sottile, le mani affusolate. Nell’ovale del volto s’esaltano due occhi grandi e neri, i capelli sciolti e lunghi. È tanto se arriva a vent’anni. Dopo ore di turismo vanesio, chi se l’aspettava un ritratto così?
Sorpresa quanto me, di trovarmi a casa sua, le bastano pochi minuti per raccontare la sua piccola storia. Sorta di preludio dei quattro giorni da passare sull’isola.
Studiava a Santiago all’istituto d’arte, i quadri in casa li ha dipinti lei, fino al giorno in cui è rimasta incinta d’un trentenne che non ama più da quando l’uomo – se così si può chiamare – ha dubitato della sua paternità. Uno stupido che non amo e che non mi ama… evidentemente. A vedere “Acqua desiderata” in quella stanza di polveri, al centro dell’ombelico del mondo, non si può che essere d’accordo con lei… Si… davvero stupido.
Da allora, Baihere, si è restituita all’abbraccio della sua isola vulcanica verdemare, stufa delle idiosincrasie di Santiago, stufa d’una capitale che non è la sua, che non lo è mai stata, ne lo sarà mai, pregna com’è d’esse esse …Stress e Smog.
È tornata nel suo rifugio d’oceano, nel suo paradiso perduto, dove si illude che il tempo le restituisca nuovi giorni da dedicare alla pesca a Papa Tekena, scorrazzate a cavallo con amici dai capelli lunghi quanto i suoi, in una geografia a triangolo equilatero, tappezzata da prati sorvegliati da un trittico vulcanico, fiero ed immobile nell’oceano senza fine.
Mettiamo su un caffè condividendo qualche sigaretta, mentre la confidenza e l’innocenza di Baihere si scioglie nel desiderio recondito di chiacchierare con qualcuno che non sia la solita faccia.
Quest’isola è paradiso, ma Sodoma e Gomorra al contempo, senza che gli stranieri se ne avvedano. Gli scambi di coppia e i tradimenti sono all’ordine del giorno e accadono fumando marijuana, esplorando l’eldorado, sperimentando il diversivo d’una fuga trasgressiva, altrimenti impossibile. L’isola amata quanto un paradiso, la si scopre anche prigione, finto meccanismo d’un orologio falso americano. Ascoltando Baihere, mi sovvengono le letture che hanno anticipato il viaggio. I matrimoni non sono mai stati un vincolo indissolubile in Rapa Nui. Prova ne è il testimonio dei giornali di bordo redatti dai primi esploratori dell’isola. Agli equipaggi dell’olandese Be’rens nel 1722, di Cook nel 1744 e di La Perouse nel 1786, vennero offerte mogli e figlie, in cambio dei loro cappelli. Per non parlare del frequente ratto di mogli altrui che avveniva tra gli isolani. L’unico veto in materia, fu quello che impedì alla stirpe regale del clan di Hotu Matu’a, d’incrociarsi con le undici tribù sparse sull’isola… o quello che permetteva il matrimonio tra consanguinei, soltanto dopo la settima generazione.
Baihere, è esattamente come le parole che esprime, una perla d’oceano imprigionata nei controsensi della vita che la rendono inquieta d’ansietà e sorrisi.
Decidiamo d’uscire, entrambi a piedi scalzi, io certamente poco credibile e falso… quasi una controfigura senza senso. Verso il centro mi è impossibile confondermi con bellissimi giovani di poche parole. Acquistano ai chioschi negli angoli caramelle e Hot Dog per poi sparire via chissà dove. Ad Hanga Roa c’è una discoteca messa in riva al mare. Acqua Desiderata sostiene che era molto più bella quando ci pioveva dentro. Il cinema, invece, non c’è mai stato… anche se ad ogni angolo di via sfavillano i cartelloni del film hollywoodiano Rapa Nui. Gli attori che hanno interpretato il film sull’isola di Pasqua sono modelli Hawaiani, neozelandesi, non certo nativi. La produzione è passata sull’isola senza seminare alcuna eredità, nemmeno qualche pizza o sala di proiezione, solo cartelloni pubblicitari raffiguranti attori bellissimi, falsi pasquensi mai ritornati a casa. Isola di Pasqua tra due mondi, Polinesia e Sud America, ma dimenticata da entrambi.

Immagine articolo Fucine Mute

24/11/2004

L’oceano morde le sponde vulcaniche dell’isola, creando fiordi, dentature, scogli, speroni neri in eterna erosione. Questo è ciò che si trova, lasciandosi alle spalle Hanga Roa: un orizzonte scortato dai moai che, spalle al mare, sorvegliano l’entroterra. Questi enormi totem di pietra nera non furono opera degli Hanau Momoko di Hotu Manu’a, bensì d’un secondo popolo antropofago che approdò a Rapa Nui successivamente, intorno al 1680, provenendo da Est, i probabili figli del sole andino “Hanau Eepe”; Gente più tozza e tarchiata che usava allargarsi i lobi delle orecchie con medaglioni di legno. Gli Hanau Eepe s’incrociarono con le donne Hanau Momoko, ed issarono lungo tutto il periplo dell’isola i giganti neri. Non erano idoli o divinità bensì raffigurazioni dei propri defunti, le cui spoglie venivano deposte nell’altare sottostante, l’ “Ahu”, sorta di camera sepolcrale. I Moai, allora, venivano chiamati “Aringa Ora”…volti vivi. Ve ne sono circa seicento in tutta l’isola, quasi tutti abbattuti a causa della guerra che nel XVIII° secolo mise di fronte le due stirpi, decretando non solo lo sterminio dei figli del sole Hanau Eepe, ma pure la decadenza irrefrenabile dell’isola in un periodo oscuro di lotte fratricide e di cannibalismo esasperato.

Viro verso sud, lungo la costa. Il lavorio indomabile delle onde ha scavato grotte e lì, gli antichi, hanno lasciato traccia del loro passaggio tingendo le volte, graffiandole con segni indelebili. Tra marine e terrestri, di grotte se ne contano ottocento. I Rapa Nui le utilizzavano come orti umidi, come luoghi segreti in cui nascondere le sacre tavolette dell’indecifrabile scrittura, dove abitare, dotati com’erano d’una vista che gli permetteva di vedere fino a centinaia di metri dall’imboccatura, e naturalmente, dove morire.
Incontrato qualche albergo a cinque stelle e la base militare dell’Armada de Chile, il sentiero costiero, trovando invalicabile la barriera del costone a picco sul mare, t’invita su uno sterrato che ad ampi tornanti fa da collana al Rano Kau, padre vulcano di questo microcosmo sperduto, araldo che esplora il pacifico vertiginoso. L’isola, un tempo mitica, ma ormai priva di segreti, ha perduto le sue atmosfere primordiali. È un punto sull’oceano sin troppo raggiungibile dagli aerei d’una linea nazionale, che non essendo nazione Rapa Nui, tende a trasformarla in un’isola qualsiasi. Differente sarebbe se l’ombelico del mondo riservasse un contatto più difficoltoso ed arduo, come natura impone. Basterebbero una decina di giorni d’affascinante e difficile navigazione, per rendere e restituire all’isola il suo margine mistico. Allora, all’approdante vagabondo, verrebbero riservate più profonde e radicate tradizioni, sogni ed illusioni. Anche per questo ho deciso di rendere più selvatico il mio primo approccio, andandomene a piedi verso il vulcano Rano Kau. Tentativo, forse vano, d’accordare le vibrazioni del mio spirito errante con quello granitico di quest’isola pacifica. Abbandono la strada rossa dove ciccioni anglosassoni la percorrono in jeep, sorridendo beoti ai pochi che l’affrontano camminando. L’istinto evita la strada obbligata, per gustarsi sotto ogni passo un soffice tappeto di sterpaglie; sceglie direzioni libere annusando aria e profumi misti al salso. È vera goduria il concerto dei cespugli mossi dal vento perenne, o il suono che un bosco di eucalipti riesce ad espandere quando capita d’attraversarlo… scricchiola, simile a pesanti e lenti portoni appena accostati, o come fosse un fantastico veliero alla fonda sui prati, tanto s’intravede l’oceano tra le sue fronde. Verrebbe da sedersi a terra, aprire l’irrinunciabile Moleskine nero, e dedicare un racconto ai boschi d’eucalipto dell’isola di Pasqua, che li accompagni fin dentro il tramonto.
Il risveglio dei sensi e la consapevolezza d’essere umano, ti permette d’avvicinarti ai piccoli e fondi segreti Rapa Nui. Uscendo dai boschi si dimentica la fatica, sorpresi della vastità del blu che contorna tutto. Arrampicandosi sul Rano Kau, grande come un padre, l’emozione è visiva ed intellettiva all’unisono. L’azzurro diluendo i confini tra cielo e mare massaggia la vista, mentre il pensiero realizza di trovarsi esattamente dove di trova, a dieci giorni, come minimo, da una qualsiasi altra parte che sia il resto del mondo. A chi verrebbe voglia di considerare l’esistenza d’un aeroplano calpestando a piedi le pendici steppose del Rano Kau? Il solo rombo disturberebbe. In vetta al viandare, si apre come un sogno, la cinta regale del vulcano.

Immagine articolo Fucine Mute

È incredibile! Chi dovesse percorrere la strada rossa in macchina nemmeno se ne accorgerebbe! A piedi, invece, è sufficiente oltrepassare il minimo declivio che occlude lo sguardo ed oltre si spalanca un cratere dal diametro d’un chilometro e mezzo. Il vecchio padre santo, è ormai spento, eppure conserva l’immagine e somiglianza del cuore di quest’isola sperduta. Il panorama mi toglie fiato e sogni, quasi fossi una piccola formica ferma sul bordo abissale.
In una mistura di rocce e prati verdi, l’alveo, profondo duecentocinquanta metri, simile a due mani giunte a coppa, accoglie una trentina di lagune lacustri. Come non provare ammirazione per i ragazzi che si lanciano lungo le pendici scoscese, cavalcando una corteccia di banano, durante la festa commemorativa di Oronco? Sul punto cardinale sud, la possente corona del cratere, sgretolata come un Colosseo romano, apre spazio e visuale all’oceano. La possente sensazione di forza offerta da questa entità spenta, contrasta con il mondo di pace che lei stessa protegge… laguna e nido Rapa Nui. La vibrazione tocca fondo e la memoria aggancia il nome di Thor Heyerdhal, l’antropologo nordico che dedicò un intera vita allo studio delle migrazioni in Sud America. Ripeto il suo nome e scopro quanto s’abbini perfettamente all’immagine forte e dolce del Rano Kau ammirato con sguardo di formica.
Gli studi di Heyerdhal, intendevano comprovare le origini sudamericane dell’isola di Pasqua. Non ultimi, i tentativi di viaggio con imbarcazioni di “totora” (sorta di papiro nativo in queste latitudini, ma presente anche sui litorali del lago Titicaca) con prora a puntare il sud del Perù. Con i suoi viaggi avventurosi, Thor Heyerdhal riuscì ad avvalorare le teorie migratorie relative ai figli del sole Hanau Eepe, costruttori di Moai, ciò nonostante i pasquensi, si considerano polinesiani, piuttosto che cileni o sudamericani.
La stessa Viki, interpreta il tentativo di “cilenizzazione” dell’isola da parte del governo di Santiago, come un programma teso a corrompere la razza e le tradizioni polinesiane. Il continuo flusso di cileni sull’isola di Pasqua, provenienti dalla costa continentale, sono l’estrazione medio bassa della società cilena. Gente priva di qualità, sostiene Viki, incentivata con denaro e priva di qualsiasi conoscenza della cultura Rapa Nui. Gli insegnanti provenienti da Santiago, ad esempio, percepiscono il 40% in più dello stipendio normale, viene offerto loro un alloggio gratuito, e la benzina gli costa un terzo del prezzo fissato nel resto del paese.
Nonostante mi sia capitato di sposare al nome di Thor Heyerdhal l’impressione di potenza che il Rano Kau esala, ciò che si incontra sull’antico vulcano sembra contraddire le tesi del norvegese circa le origini dell’isola. Sulla corolla esterna del colosso che guarda l’oceano, il vento si fa imperioso, spumando onde e risacche. Sull’estremità sud ovest del cratere, ci s’imbatte nell’antico centro cerimoniale di “Oronco”, che gli antichi rapa nui dedicarono al culto dell’uomo-uccello:
Le indagini storiche sembrano aver consolidato l’ipotesi che a costruirlo furono i discendenti di Hotu Matu’a dopo aver sterminato gli Hanau Eeepe. Tentativo di ribadire le antiche tradizioni polinesiane e contrapporre alla gloria decaduta dei Moai un nuovo mito. L’occasione fu offerta dal fatto che in primavera, una gabbianella migratrice -la “sterna fuscata”- scegliesse i suoi nidi nel minuscolo arcipelago d’isolette poste sotto lo strapiombo del Rano Kau. Giungevano dall’ovest polinesiano, punto cardinale d’origine dei loro avi. L’evento si verificava in primavera, stagione in cui nasce il nuovo anno, rinnovando i cicli naturali della vita. L’osservazione, ispirò ai discendenti di Hotu Matu’a la nascita d’un rito, la liturgia sociale più importante dell’anno: l’elezione d’un capo supremo! Gli Hanau Momoko costruirono un minuscolo tempio, quasi un villaggio, proprio dove la cima del vulcano guarda le isolette di Motu Kaokao, Motu Iti e Moti Nui, scelte dalle starne fuscate per la nidificazione primaverile. La tradizione le indicava come il primo punto avvistato dallo stesso Hotu Matu’a che battezzò “I ragazzi con i piedi nell’acqua”. Il villaggio venne costruito per ospitare gli emissari delle dodici tribù, i loro seguiti e i campioni che li rappresentavano nella gara cerimoniale dell’uomo uccello, … ma in che consisteva la liturgia primaverile?

Immagine articolo Fucine Mute

Quando da Oronco venivano avvistate le starne fuscate, i campioni, adornati con piume d’uccello, scendevano i precipizi del Rano Kau alla volta del mare e giunti sulla sponda nuotavano verso il primo isolotto Motu Kaokao (Isola ripida). Da Oronco si seguiva l’azione con canti e balli propiziatori. Le starne nidificano soltanto su Motu Iti (isola piccola) e Motu Nui (isola grande), appena discostate da Motu Kaokao. Erano quelle che i campioni tenevano d’occhio. Ad un certo punto, attraversato il tratto di mare che separa la prima isola dalle seconde, iniziava la ricerca delle uova deposte dalle starne. Chi, tra tutti i campioni, trovava l’uovo per primo, lanciava un grido verso Oronco, segnale che decretava l’investitura del capo dell’isola per un anno intero… l’uomo uccello, appunto (il campione stesso, o il capo tribù — Tangata Honui — rappresentato dal coraggio del suo campione). Dopo una settimana passata a purificarsi e a digiunare sugli isolotti, il vincitore risaliva la china del vulcano e le sue effigi venivano scolpite sulle pietre sacre di Oronco. Ve ne sono incise 111, il che avvalora l’ipotesi che il rito sia nato e si sia radicato in epoche relativamente recenti, soltanto dopo lo sterminio degli Hanau Eeepe, quindì dal 1740 al 1850.
Il capo tribù — uomo uccello — diveniva un “Tangata Manu” e il suo nome dava nome all’anno che sarebbe trascorso sotto la sua giurisdizione. Lo stesso Make Make, divinità creatrice d’ogni cosa, ne aveva propiziato il potere, accompagnandolo con la presenza del sacro Manà. Esistevano, ovviamente, motivi meno romantici che indussero a tale investitura. I periodi successivi alla sanguinosa lotta con i figli del sole, aveva decretato la decadenza dell’isola, caratterizzata da una sorta d’istinto auto-distruttivo tra i rapa nui, rivalità fratricide costituivano l’ordine del giorno degli Hanau Momoko discendenti di Hotu Matu’a. Intenti solo a guerreggiare, divoravano con veri e propri atti di cannibalismo, gli sconfitti delle tribù avversarie. L’elezione d’un capo per investitura divina, in una società di guerrieri, garantiva una supremazia indiscutibile. Chi deteneva il potere cercava di rendere Oronco inavvicinabile alle tribù avversarie — proprio in primavera — impedendo così ai nemici di “giocarsi” il dominio su Rapa Nui.
L’uomo uccello, veniva rasato e portato in trionfo per l’intera isola (lui e l’uovo) fino a raggiungere la spiaggia di Anakena. Situata sull’opposta estremità nord dell’isola, la tradizione Rapa Nui la indica come il punto preciso in cui sbarcò il primo re di Pasqua, Hotù Matu’a, proveniente dagli occidentali arcipelaghi polinesiani. Il capo della tribù diveniva sacro ed intoccabile (Tapu). Per l’intera durata del mandato divino, il capo viveva in completo isolamento. Unica compagnia, quella degli uomini di medicina e degli indovini. Per un anno praticava l’astinenza sessuale, dedicandosi al governo dell’isola che tutto il popolo sperava esemplare, vista la connessione con il Manà che la vittoria nel rito dell’uomo uccello gli garantiva.

Mi soffermo qualche minuto in più, cercando di respirare e captare l’atavico prana dell’ombelico del mondo. Dovendo scegliere come proseguire il vagabondaggio a piedi verso Ahu Vanapu, opto per la circumnavigazione del cratere in senso orario, in modo da ritrovarmi sul pendio del vulcano che scivolerà lungo la costa meridionale, tirando la base del triangolo dell’isola verso est. L’isola si dilata nella sua totalità d’asperità collinari in un panorama quasi irlandese. La scelta si rivela sublime: Il crinale del vulcano è un continuo alternarsi di pastini e boscaglie. Spesso mi trovo immerso sino al petto in una distesa d’erba folta e dorata. Il mio passaggio incuriosisce gli sguardi placidi di vacche e cavalli. Sopra la mia testa avverto il volo perlustratore ed attento di qualche falco che proietta la propria ombra a terra, neanche volesse disegnare ed indicarmi un ipotetico passaggio. Scendo ancora, inondando i miei occhi con i boschi di conifere ed eucalipti dipinti nel verde oro di un’isola ricca di declivi e curve delimitate dal blu oltremare. Tagliando così il cammino, riducendolo al campestre, passando sotto i recinti, annusando odori sconosciuti, comprendo, forse per la prima volta, cosa intendesse Bruce Chatwin quando elaborò la teoria dell’energia in movimento, e quanto fosse legata all’importanza del camminare privo d’ostacoli, considerando sentieri e strade addirittura superflui. Senso puro del viaggiatore!

Immagine articolo Fucine Mute

Ogni strada o sentiero, in effetti, vengono tracciati da pochi per tutti, con semplicistici criteri di comodità. Non è forse fortuna, quel scegliere una propria traiettoria istintiva, lasciandosi stimolare dal senso estetico del panorama, da certe linee che finiscono per riflettere irrimediabilmente quelle interiori del camminatore? Viandare fonde l’anima del fuori con il dentro avvicinandoci al tutt’uno perfetto. Basta affidarsi ai propri piedi e al buon senso. Perché sottovalutare il tempo risparmiato evitando l’andirivieni noioso dei tornanti e degli andanti stradali? Come non notare che i luoghi più incantevoli, non sono quelli segnati sulle mappe turistiche, ma quelli scoperti in solitaria, seguendo un’ispirazione profonda, antica, lenta, che ci consegna esattamente il segreto del nostro equilibrio, dell’inesplorato, anche se fosse un semplice colpo d’occhio inaspettato, l’occasione d’una foto che nessun’altro ripeterà?
Ahu Vanapu segna il ritorno al piano, il bacio alla costa dopo lo scosceso vulcano. Un posto dove le statue Moai potrebbero esser state abbattute dagli spostamenti d’aria dei decolli, piuttosto che dalle lotte intestine d’antiche tribù Rapa Nui, visto che la pista dell’aeroporto si trova ad un tiro di schioppo. Ammiro la raffinatezza con la quale le pietre d’un Ahu, grande quanto una muraglia, sono state accostate, ricorda molto la tecnica usata dagli Incas di Cuzco. La costa frastagliata è nera come quella dei giganti Moai, stessa roccia vulcanica mista a sabbia. L’isola ne è disseminata, anche se i più sono stati abbattuti e giacciono riversi. Si narra che ogni clan Rapa Nui erigesse i suoi, sorta di tributo agli avi e alle proprie origini. Per evitare il giogo che i figli del sole andino, costruttori di Moai, cercarono d’imporgli, i discendenti del polinesiano Hotu Matu’a, disboscarono l’intera isola ed arsero gli avversari appiccando un rogo immenso sulle pendici del Poike, residenza degli Hanau Eepe. Un’intera collina venne incendiata e le carni dei loro abitanti ridotta ad un macabro curanto. Rimasero i Moai… spalle al mare, lo sguardo tentò di proteggere la vita dei vivi e lo spirito dei morti. Il potere di questi giganti sopravviveva. Ecco perché, dopo terribili lotte intestine tese a togliere di mezzo chi li aveva issati al cielo, vennero condannati essi stessi al crollo faccia in giù. Abbattere i Moai significò amputare le forze antenate d’interi clan, scollegandoli per sempre dall’originaria forza creatrice Make-Make?
Scrutando i lineamenti bonari di questi totem non faccio caso all’arrivo sul posto di un’intera tribù di grassi americani menati al pascolo. Non ne sopporto nemmeno la vista… pochi minuti e taglio via lambendo l’estremità della pista di decollo dei boing. Puntando il sestante verso nord est, nel giro di un’ora raggiungo il Moai dell’Ahu Huri, ad Urenga, l’unico dell’intera isola ad avere mani con quattro dita, ma l’importanza di questo sottile Moai solitario è ben altra… guardando ad est indica il punto cardinale dove nasce il sole, luogo d’origine andina degli Hanau Eepe. Da Urenga, decido di puntare su Puna Pao, infilando campagne divaricate tra i colli. L’aria densa di vento porta via la fatica ed un’infinità d’aromi speziati, odori indefinibili. Quasi una tisana ariosa.

Immagine articolo Fucine Mute

Mandrie di cavalli si spostano più in là quando capita di turbare le loro praterie color malva. Le vacche, invece, seguono l’intercalare dei tuoi passi nel sole basso, con occhi tenui e placidi.
Puna Pao è una cava abbandonata dagli uomini, ma ricoperta da manti erbosi. Nei tempi antichi, vi si estraeva una pietra tenera con la quale modellare i rossi copricapo dei Moai. Su queste erte, il silenzio assordante è il capostipite sentimentale d’un viandante. In silenzio ci si arrende al massaggio delle linee ariose di quest’isola sposata al mare. Sul finale d’un giorno vagabondo, fermo dove mi trovo, non posso far altro che scendere in linea d’aria verso Hanga Roa, che scorgo vicinissima. Rientrare in città ripercorrendo a ritroso il giro delle strade obbligate, mi costringerebbe ad un rientro notturno. Meglio tagliare ancora tra prati, scortato da cavalli curiosi. In prossimità del centro abitato, la gincana si fa più complicata a causa della moltiplicazione senza fine di proprietà e muri di cinta. Il pericolo non è certo una fucilata, da queste parti non se la sognerebbero nemmeno, il territorio è bene comune e va condiviso. In antichità, non era uguale. I dodici clan o tribù vivevano in territori ben delimitati. Ogni clan Hanu Momoko, aveva uno spirito guida tutelare, un Akuaku che risiedeva nella zona ed era ostile agli estranei. La tradizione e l’arte dei discendenti di Hotu Manu’a li ha sempre raffigurati in sculture di legno Taromiro (Un legno che oggi non esiste più, l’unico superstite è un albero che si trova nel cuore lagunare del Rano Kau). Spiriti ossuti e senza carne (i Moai delle costole!) che gli avi pasquensi portavano al collo o fissavano sugli stipiti delle loro abitazioni. Un rito che serviva per proteggersi dagli spiriti maligni o per salvaguardare, di generazione in generazione, una sacralità antica. Gli uomini consideravano la loro regione una piccola patria. Fino a non molti anni fa, gli anziani desideravano venir sepolti nella propria terra, non certo nei camposanti cristiani. Non di rado i familiari disotterravano dai cimiteri i cadaveri dei propri defunti con sortite notturne, o s’assisteva a fughe di vecchi che, in punto di morte, raggiungevano le loro grotte segrete, preparate negli anni… nessuno li trovava più.
Ciò non toglie che saltare un muro e finire in un giardino, o sbucare in un pasto per cavalli e poi in un cantiere tra l’abbaiar dei cani, sia come andarsene per prati e boschi. Si scopre un modo di leggere il territorio con i piedi, decifrandolo sin dentro la città.

25/11/2004

Ha piovuto tutta la notte con insistenza oceanica. I miei sogni hanno accolto la visita di Make Make, apparso sottoforma di nuvola incoronata da un arco iris! Sognando di Make Make e del suo fedele amico Haua, dio della pioggia, il sonno naufragato nell’abisso inconscio, ha sperato che le nuvole scaricassero giù tutto, per aprire al sole il giorno prescelto per la circumnavigazione completa di Rapa Nui in bicicletta.
Immaginando l’isola arsa e aspra, l’ho scoperta invece, verde e rigogliosa, quasi pettinata all’irlandese. Percorrerla in bici o a piedi, permette di recuperare un senso romantico del posto, d’assorbirne la geografia nella propria fatica, sia essa ammorbidita da microscopici entusiasmi, o aggravata da bestemmie gratuite. Andarsene in solitaria sfiora sicuramente i limiti del mistero perduto, rasenta le atmosfere oniriche d’un tempo passato.

Immagine articolo Fucine Mute

Passare in rassegna la costa, osservando ogni volto Moai divelto, trova il suo senso in prossimità del vulcano Rano Raraku, madre gravida, cava e padre di tutti i Moai partoriti, elevati ed abbattuti sull’Isola di Pasqua dall’inizio dei tempi. Sulle pendici di questo vulcano madre, i Moai spuntano come fiori colossali, ognuno con la propria inclinazione, abbandonati o appena abbozzati nei meandri delle cave a cielo aperto. Non ci si può limitare a fotografarli! È necessario calarsi nel rito d’una processione perfino religiosa… cogliere le espressioni dei giganti, ogni volta diversa l’una dall’altra, perché ogni avo era diverso da un altro. Proseguendo lungo la costa, ho toccato le pieghe della pietra vulcanica invasa da microrganismi del mare che l’hanno eletta a rifugio possente ed innocuo. Ho scrutato d’ognuno il muto sguardo fisso, eppure, così carico di misteri antichi. Ai Moai ho anche parlato, nella speranza di risvegliare in loro il soffio sacro di Make Make, mentre risuonava il sottofondo delle risacche e l’indifferenza delle mucche vi pascolava accanto. La fine dei Moai è la fine a cui è destinata Rapa Nui, per via della sua stessa natura vulcanica. Per fredda legge geologica, scivolerà sulla placca oceanica minuto dopo minuto, impercettibilmente… si sommergerà nei millenni, medesimo destino della mitica Atlantide. Come non rendere grazie, allora, all’ombelico del mondo ed ai suoi araldi? La fatica di camminare o di menare i pedali fonde il percorso del viandante con gli spiriti di questo microuniverso apparentemente pacifico e lento, quasi immobile, scosso solo da una rosa di venti provenienti da orizzonti oceanici. Le onde cullano con infinita pazienza la placca destinata a sommergere l’isola. Per placarla e prolungare così la vita?
Viandando, sopravvivo al turbinio delle mie astruse riflessioni, grazie ad incontri fortuiti.
Sull’arteria asfaltata Anakena — Hangaroa, raggiungo un altro ciclista amatoriale. È l’infermiere dell’ospedale cittadino. È giunto sull’isola da Vina del Mar, la città della canzone cilena… tipo Sanremo! Rimarrà qui per un anno. L’isola dici? Bella, colma di luce e pace, archeologicamente interessante. Quello che non va sono gli abitanti… Aggressivi. Lavori per loro, ma non capiscono nulla! Il ciclista migratore mi lascia l’amaro in bocca. Nel momento in cui penso di ribattergli qualcosa in corsa, mi fila via. Ho l’impressione che a capire poco, forse è proprio lui, inconsapevole di far parte d’una truppa d’agenti indiretti manovrati da Santiago. La schiera senza qualità che arriva sull’isola per mero interesse, contribuendo a disperdere il Make-Make degli antichi avi pasquensi. è come se i nuovi immigrati, contribuissero ad abbattere altri Moai, più importanti ancora di quelli in pietra: quelli che aleggiano nell’etereo e residuo Manà dell’isola!
Dopo aver circumnavigato Rapa Nui per tre quarti, lungo la costa occidentale, m’imbatto in due giovani contadini. Procedono con un trattore arancione a passo d’uomo, trainando un carro sgangherato.
Dopo aver sputato l’anima “delli mortacci” e d’un infermiere di “Vina” lungo la dorsale asfaltata che da Lanakena tira controvento verso Hanga Roa, avevo svoltato verso l’unico sito che permette ai Moai di guardare il mare. È da lì che provengo, raggiungere la costa occidentale è tutta discesa. Gioia del filare giù a tutta! È così che i due fratelli di Pasqua mi vedono arrivare, più veloce del loro trattore arancione!
Sanno bene, come d’altro canto lo so anch’io, avendo posato gli occhi sulle altimetrie dell’isola per una giornata intera, che da qui in poi, la strada per Hanga Roa si presenterà difficile e dissesta, un saliscendi simile ad un ottovolante campestre!

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L’invito a sistemarmi con la bicicletta sul carro sgangherato è un regalo inatteso. Saltar su, bicicletta e tutto, si rivelerà un dono degli “Ivi Atua” (sorta d’angeli custodi dell’isola) alla mia “Santa” fatica. Un dono è pure il racconto sulla loro quotidianità che i fratelli snocciolano lungo il tragitto, quotidianità Rapa Nui sospesa tra passato e presente. Quotidianità consacrata e sconsacrata ai lavori più svariati, ne hanno uno per stagione. Al tempo pescatori, agricoltori ed artigiani. Oggi, ad esempio, hanno terminato di delimitare ettari di terra con pietre vulcaniche. Settimane di lavoro. Terra che il governo dona agli indigeni riducendo il parco nazionale. Tocca ai due fratelli recintarlo all’uopo… sono i migliori tra quanti lo fanno.
Uno dei due fissa un filo di fumo che sale dritto su dai campi: “Un Akuaku!” — esclama — “Segnala e difende il territorio! Sono terribili spiriti tutelari. Un tempo, abili ventriloqui, consigliavano i guerrieri dei rispettivi clan durante le battaglie. Castigano gli intrusi trasformandosi in uomini, in scarnificati ossuti, o in uccelli, perseguitandoli anche nei sogni. A quel punto non puoi far altro che rivolgerti al tuo Ivi Atua, angelo custode, spesso spirito di un tuo antenato, è l’unico che può contrapporsi ad un Akuaku! Gli uomini viventi, come gli spiriti dei defunti, sono immortali in quanto parti di Make Make. Ogni Ivi Atua è in grado d’incarnarsi in uno sciamano del tutto simile al Machi dei Mapuche d’Araucania. Uno sciamano Ivi Atua può sconfiggere l’Akuaku che ti perseguita con fastidi e malattie! Può perfino catturarlo e bruciarlo! In cambio ti chiederà un buon curanto! Negli anni della decadenza, gli Ivi Atua pretendevano il sacrificio d’un fanciullo per il curanto sdebitante… ecco perché le madri Rapa Nui accolsero di buon grado i missionari cristiani, quelli mica pretendevano sacrifici!”.
Oggi, ringraziando il cielo, il curanto è una prelibatezza simile a quella dei tempi primi. Dopo aver scavato una buca nel terreno, vi si alternano dentro strati di pietre incandescenti, carne di pollo, pesce e molluschi avvolti in foglie di banano, tuberi quali name e camote, patate e verdure. Una volta riempita la buca, la si tappa con foglie di banano e canna da zucchero ricoperte da terra ed erba. Le pietanze cucineranno al vapore per tre o quattro ore… il risultato è una vera goduria culinaria!
Vedi quello — dice Kiri Ika, indicando la carogna d’un vitello riverso a terra — sarà pronto non appena il sole, la pioggia e gli Akuaku scarnificatori, avranno concluso il loro lavoro… solo allora inizierà il mio! L’uomo dalla pelle color rame tirata come un tamburo, che guida il trattore fumando le sigarette che i miei polmoni considererebbero inaccettabili, incide ossa e scheletri d’animali, non solo terrestri. Ora, ad esempio, sto disegnando un’intera costola di balena! è un lavoro che richiede pazienza e passione certosine. Alla fine, assomiglierà ad un enorme tatuaggio!
A passo d’uomo sul trattore, è facile cogliere le tracce d’un passato remoto. Sul terreno appaiono sagome ovoidali appena delineate. I discendenti di Hotu Matu’a davano forma d’imbarcazione a case e sepolcri. I sepolcri, costruiti totalmente in pietra in prossimità del mare , orientavano poppa e prora verso il cuore della Polinesia. I defunti, avvolti in panni di tortora, intraprendevano la navigazione verso l’ultramondo oceanico. Luoghi pressoché inviolabili… tapù! Anche le case ricordavano le carene delle imbarcazioni, ma si distinguevano dai sepolcri, perché defilate nell’entroterra. “S’iniziava, sagomando le pietre che delineavano il bordo della casa. Una volta semi interrate costituivano le fondamenta sulle quali ricavare occhi pronti ad accogliere pali di legno, flessibili e resistenti al contempo, imbastivano uno scheletro ricoperto, poi, da tre strati protettivi…il primo di tortora, il secondo di foglie di canna da zucchero ed il terzo di terriccio ed d’erba” Chiedo a Kiri Ika, perché non ho notato gran varietà di pesce sui banconi del mercato di Hanga Roa. Sorride sornione, poi mi risponde: “I padroni delle barche che pescano tonno al largo di Rapa Nui, sono liberi di vendere il pesce a chi vogliono… ma spesso quel “chi”, coincide con i ristoranti più rinomati del Cile. Il tonno venduto li, assicura un ricavo netto di 10.000 pesos al chilo, mentre quello venduto nei mercati dell’isola vale 3.000 pesos! Con questo giochetto dei prezzi all’elastico, ti posso assicurare che gli abitanti dell’isola mangiano raramente tonno… però comprano il pomodoro allo stesso prezzo del tonno. Il pomodoro di qui non viene su granché bene, ma neppure quello giunto da Santiago via aereo… non sa di niente, eppure la gente lo paga come il tonno che riempie i nostri mari, ma non le nostre pance… capisci l’assurdità? Il tonno che vive qui non possiamo permettercelo, mentre il pomodoro verde di Santiago si! Al pomodoro, preferiamo l’avocado, cresce sull’isola in abbondanza, ne puoi mangiare fino a scoppiare e costa due soldi! Quel che succede con il tonno accade anche per il pesce spada, per questo la gente preferisce pescare per proprio conto, con il filo, quasi cercasse un dialogo tra le mani e il mare. Esiste un pesce, il “pissuie”, considerato sacro. Quando lo si pesca, lo si uccide con un morso sulla testa, atto predone certo, ma pure rituale che mette in contatto l’energia del mare con quella dell’uomo. Il pissuie, l’anguilla ed il pesce sole, costituiscono i tagli più piccoli della pesca solitaria, quella che non si vede al mercato, pur facendo parte della nostra quotidianità.
Alle porte della città il trattore si ferma. Kiri Ika, mi mostra una “tupa”, torre di pietre alta tre metri ridossata alla costa. È un rifugio per i pescatori a filo, ma pure un punto di guardia utilizzato per avvistare le tartarughe, lungo il periplo dell’isola ve ne sono ventisette. L’imbrunire libera viandante e bici. Ci salutiamo sorridendo, io verso i Moai di Hanga Roa, il trattore arancione infilando le periferie steppose diluite nel tramonto ormai prossimo. Sulla strada del rientro vengo attirato dalla chiesa della città, le statue di legno confermano il profondo sincretismo spirituale di questa gente. Dove si sono mai visti santi con ali e teste d’uccello? O madonne con bimbi e pesci?

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Gente di Pasqua

Hanga Roa, centro nevralgico dell’ombellico del mondo. C’è chi vi vive per amore. È il caso di Ana, ragazza che conosco in uno dei tanti negozi di souvenir della centrale Avenida Te Pito Te Henua (ombelico della terra). Ha lasciato Puerto Montt, dov’è nata, scegliendo quest’isola per sempre. Madre pasquense e padre dell’isola di Chiloè, ogni estate raggiungeva Rapa Nui per le vacanze. Un amore alimentato anno dopo anno per questo triangolo di terra che è sfociato in quello per un ragazzo nativo. L’ha sposato tre anni fa e l’anno scorso hanno avuto un bimbo. è felice! L’isola conservando il suo Manà, partorisce ancora spiriti positivi.
Passeggiando tra i Moai e l’incantevole cimitero di Rapa Nui, addobbato quanto un circo, mi perdo ad ammirare l’agilità dei ragazzi mentre cavalcano le onde con le tavole da surf. Nell’antichità, i loro avi, lo facevano su tavole di totora, se non addirittura con il solo corpo, in una tecnica chiamata “farsi tartaruga”. Vicino al cimitero, esiste una grotta che gli antichi utilizzarono come osservatorio di astri e stelle. Popolo navigatore, il Rapa Nui, s’abituò ad unire le rotte del cielo con quelle del mare, quasi che l’una riflettesse o prolungasse l’altra. Conoscevano la via lattea, Orione e le Pleiadi, Sirio, la costellazione del cane maggiore e dello scorpione, Alfa e Beta centauro, Marte s’apostrofò pianeta del malaugurio. La luna, tenuta in gran considerazione, regolava le maree e guidava la pesca notturna. Considerata una divinità, “Paraia Hoa”, era anche la mitica creatrice del curanto.
Bighellonare in giro, permette la conoscenza di personaggi davvero sorprendenti. Raul, ad esempio, è il padrone dell’hotel Oronco e dell’annesso negozio artigianale. Di primo impatto colpiscono i modi spiccatamente omosessuali e diretti. Gran conoscitore d’erbe medicinali e gran ciarliero, offre un particolare punto focale dell’isola. Si dichiara materialista convinto! Per questo gli piacciono i pittori e gli artigiani, perché lavorando con le mani sui materiali guadagnano un sacco di soldi, mantenendo loro e le loro famiglie. “Mi piace tutto ciò che riempie… dal mangiare ai soldi e i lavori ben fatti. E non c’è da meravigliarsene, notando la gran qualità delle opere che espone nel suo negozio. Fondamentalmente sono un perfezionista! Un tempo mi dedicavo anch’io all’attività artigianale, ma mi andava via troppo tempo, giornate e giornate passate a curare i particolari”.
La lingua spagnola non gli piace, trattiene toni volgari. Raul si considera un Rapa Nui, e se proprio dovesse scegliere un’altra lingua per comunicare, preferirebbe senza dubbio il francese, il giapponese o l’inglese, non certo la lingua dei “Conquistadores”.
Il casigliano, lo considera un idioma cileno, ereditato dalla feccia spagnola sbattuta nelle più remote periferie dell’impero. Periferie per loro, per noi ombelico del mondo!
I cileni non hanno cultura, sanno poco o nulla, vivono privi di coscienza, quello che sanno fare molto bene è ridere, per qualsiasi sciocchezza, senza humor. L’altro giorno una donna di Santiago mi chiede se conosco un rimedio naturale per le scottature del sole. Dovevi vederla come s’era ridotta! Rossa come un pomodoro, roba da ospedale! L’ho ricoperta con foglie d’aloe ed è guarita in una notte. Le ho chiesto se si era esposta al sole per troppo tempo. Certo, mi risponde ridendo, e senza alcuna protezione! Non lo sapevo che ce ne fosse bisogno! Mentalità cilena di padroni ottusi. Il due novembre del 1971, Salvador Allende abrogò l’obbligo di battezzare i pasquensi con nomi cristiani, restituendo la gente alle proprie tradizioni ataviche. Io sono dell’altro mondo, quello ante 1971. Sono un Rapa Nui che conosce piante ed erbe, ma mi chiamo Raul. Di piante, ce n’è una segreta, produce un olio da spalmare sulla pelle, la persona che ami non potrà fare più a meno di te, un elisir d’amore insomma, ma ti sembra proponibile a gente che si mette a prendere la tintarella senza protezione? Non si può resistere al sole di qui per più di due ore, pena il rimedio dell’aloe, ed il vento perenne, contribuisce a renderti inconsapevole del suo punto di cottura. Se non stai attento, ti rosoli.
Gli ultimi giorni dediti a questo universo, li trascorro con Viki o Raul, araldi d’un mondo che mi schiude soprattutto gli aspetti sociali. Il minimo comune denominatore di qualsiasi argomento riguardante l’Isola di Pasqua, è l’ingerenza prevaricante di Santiago, capitale di uno stato poco attento alle esigenze reali della comunità Rapa Nui, riguardino esse la gestione del patrimonio turistico, l’educazione dei bambini o la sanità, gli interventi del governo centrale, troppo spesso “volutamente burocratici”, tendono a dimostrare un potere opprimente, poco sensibile, per niente collaborativo…indubbiamente troppo “lontano”.
Ironia della sorte, Viki e Raul si conoscono da anni, compagni d’un fronte di resistenza Rapa Nui, condannato all’oltranza. Viki è ancora in lotta…Raul, invece, non ne vuole più sapere!
Solo da poco Viki è riuscita ad ottenere l’obbligo d’insegnamento della lingua Rapa Nui nelle scuole, per bambini fino a sette anni d’età…ma soltanto per un terzo degli alunni, visto che su un corpo insegnante di 72 professori, soltanto dodici sono originari dell’isola o conoscono la lingua. La direzione centrale di Santiago si è sempre opposta al progetto, ostentando uno sdegno “quasi” colonialista…non solo…incentivando la presenza sull’isola di personale docente di bassa caratura culturale proveniente dal Cile, ha creato un disequilibrio innaturale; più della metà degli insegnanti proviene da Santiago.

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L’idioma Rapa Nuj viene considerato lingua gutturale priva di strutture. Viki s’infuria solo a sentir nominare un simile obbrobrio. Negli ultimi dieci anni e con l’aiuto di Dio, ha dimostrato il contrario: i bambini, una volta padroni della lingua d’origine, imparano il castigliano con risultati migliori rispetto a chi lo apprende direttamente. Non solo, sono meglio predisposti anche nei confronti di altre lingue. Le sue figlie, ad esempio, di diciannove e vent’anni, parlano e scrivono correttamente anche in inglese. “Negli ultimi dieci anni, si sono verificati veri e propri casi di ostracismo ed ostruzionismo”. Insegnanti di lingua Rapa Nui, allontanate dalla scuola sulla base d’infondate accuse di maltrattamento a minori. Allontanate nonostante i genitori degli stessi alunni depositassero a loro favore! “E’ chiaro che se venisse accettata la proposta d’allargare a tutti gli studenti l’insegnamento del Rapa Nui, ci troveremmo in grosse difficoltà per via dell’innaturale squilibrio del corpo insegnante, da anni in un rapporto 1 a 6 con quello proveniente dal Cile!”
Per formare educatori, è altrettanto chiaro che ci deve venir concessa la possibilità di farlo! Invece, ogni santo anno, spediscono al confino soltanto docenti di lingua spagnola, cileni mercenari, privi di qualsiasi curiosità per l’isola, incentivati soltanto economicamente.
L’unica via di uscita, per noi Rapa Nui, è quella di moltiplicare al massimo le ore di servizio, senza attendersi nulla in cambio. Ecco come nascono i seminari, i lavori di gruppo, musicali ed artistici, gli approfondimenti tematici. Si finisce per trascorrere la propria vita più a scuola che a casa, ma c’è forse un’alternativa? Che altro mezzo abbiamo per difendere a denti stretti, e con idealismo esasperato, cultura e tradizioni? Potremmo forse permetterci di non trasmetterle ai nostri figli? Mi sembra di no, è una leva morale, un senso di responsabilità, quella che ci spinge a lottare ancora!

Viki diviene anche la mia insegnante, quando si prende la briga di raccontarmi le vicissitudini di questa lingua misteriosa. “Maori Rongo Rongo è il nome dell’idioma, e le 67 tavolette Kohau Rongo Rongo — linee d’iscrizioni per la recitazione sacra — giunsero dalla Polinesia per mano di Hotu Manu’a, costituendo una serie di geroglifici che rappresentavano animali e segni misteriosi. Furono trascritte prima su foglie di banano, poi su tavolette di legno taromiro. Nei tempi antichi, la lingua si apprendeva oralmente, poi si trascriveva. Gli insegnanti, spesso sacerdoti, prendevano lo stesso nome dell’idioma, Maori Rongo Rongo. L’idioma si divideva in argomenti distinti: sacri, quelli utilizzati, ad esempio, nelle liturgie primaverili di Oronco; in apologie d’atti e persone. Se preparate per feste, venivano accompagnate da canti e danze. Le tavolette, considerate tapù, non si potevano neppure far vedere agli stranieri, negli anni delle prime esplorazioni europee, venivano addirittura nascoste in grotte segrete, il cui accesso era conosciuto da pochi eletti, spesso gli stessi Maori Rongo Rongo. Chi azzardava regali o scambi, veniva colpito da maledizioni terribili che spesso conducevano ad infermità o alla morte per castigo; esistono prove storiche di tali avvenimenti.
I primi esploratori europei, tra i quali James Cook, si avvicinano a Rapa Nui con intenzioni pacifiche e rimangono tali fino al 1810. Da questa data in poi le escursioni degli stranieri risulteranno deleterie per l’isola. Approfittando della situazione decadente, nella quale versa la comunità Rapa Nui, balenieri e mercanti di schiavi giungono su Pasqua con l’unico intento di deportare mano d’opera verso le miniere dell’eldorado peruviano. Il 1862, segna la data del disastro per l’idioma Maori Rongo Rongo. Le sortite dei pirati peruviani catturano mille Rapa Nui, all’epoca un numero colossale, e tra questi, tutti i maestri di recitazione Maori Rongo Rongo. Sull’isola nessuno sa più trascrivere l’orale. Le tavole sacre sepolte in grotte segrete vengono perdute, incendiate per via delle lotte fratricide, quelle che si salvano il tempo le sgretola. La lingua diviene indecifrabile e lo è tutt’ora. Tavole originali ne rimangono davvero poche, fatto che rende ancor più arduo studio e decifrazione. Se ne conservano in varie parti del mondo. A Grottaferrata, dalla congregazione del potere dei cuori sacri, a Parigi, in una collezione privata, nei musei di Londra, Vienna, Berlino, San Pietroburgo, Washington, Honolulu, New York, Santiago, ma il numero è davvero esiguo. I tentativi di tradurre ed interpretare i criptogrammi geroglifici, non è mai semplice. Gli ideogrammi sembrano assumere significati distinti, a seconda della disposizione che assumono rispetto al contesto.
Nel 1932, nell’Hindustan dell’India Occidentale, vennero alla luce le rovine delle città Mohenjo-Daro e Harappa. Tra i reperti archeologici, moltissime iscrizioni simili a quelle pasquensi. La notizia illuse gli studiosi circa una sorta di parentela con quelle Rapa Nui, ma la tesi non fu mai comprovata. Lo studioso più valente, rimane sicuramente il professore Thomas Barthel che dal 1958 svolge un monumentale lavoro di decodifica presso l’università di Amburgo, per ora, è soltanto un approccio d’avvicinamento”.
Totalmente affascinato dal racconto di Viki, decido di spendere un patrimonio nel negozio di Raul, solo per far mia una riproduzione fedele d’una tavoletta Kohau Rongo Rongo (manie e follie di chi scrive!).

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La gestione del patrimonio turistico è pressappoco allineato su quello dell’educazione spiega Raul. Non esiste un piano regolatore serio e programmatico. Invece di puntare su qualità alberghiera, proponendo un turismo colto ed ecologico, si è scelto il mercato mordi e fuggi. La media dei turisti che approda a Rapa Nui non si ferma più di due o tre giorni. È chiaro, che il cuore e motore d’una simile politica, diviene l’automobile. Al turista non serve nemmeno una guida che gli spiega! Atterra, nel giro d’una mezz’ora affitta un fuori strada e parte per l’avventura fast-food!
Ecco perché il governo di Santiago non fa null’altro che potenziare i voli Lan Chile, ridurre il prezzo della benzina rispetto al resto del paese, e concedere licenze molto “leggere” a chi affitta fuori strada e moto, me ne hanno piazzata un’altra davanti all’albergo, proprio due mesi fa! Una bellezza soddisfare l’olfatto degli ospiti con l’aroma del diesel, da mattina a sera!
Questa politica contribuisce a disperdere i misteri ed i segreti d’una cultura intera, trasformando Rapa Nui in un’isola qualunque. Sarebbe un’altra musica se si sviluppasse un turismo più semplice e completo, fatto di percorsi a piedi o a cavallo, permettendo agli ospiti di condividere l’isola con i suoi abitanti, le sue atmosfere, la sua cultura… chiaro, Santiago non ci guadagnerebbe nulla!
Sono gli europei, solitamente, quelli che rimangono affascinati dall’energia dell’isola. Si fermano una o due settimane, curiosi di conoscere e di esplorare. I cileni questa curiosità colta non ce l’hanno nel sangue, chiedono soltanto dove si trovano le spiagge più belle, quali sono i ristoranti migliori. Ironia della sorte? Il cileno numero uno, Pablo Neruda, tutto ciò l’aveva intuito già negli anni sessanta, basti leggere i versi che dedicò all’Isola di Pasqua nel suo Canto General. L’Armada de Chile e la chiesa cattolica, dagli anni nerudiani in poi, hanno applicato sull’isola un vero e proprio regime dittatoriale.
Durante gli anni ottanta, negli ospedali dell’isola lavorava soltanto personale cileno. Medici ed infermieri erano convinti che i pasquensi potessero soltanto tirare il carretto, asini, null’altro che stupide bestie da soma. In quegli anni erano davvero pochi gli abitanti dell’isola che conoscevano lo spagnolo. Alla gente che si recava in ospedale non veniva concessa nemmeno un’attenta analisi dei sintomi. Un’aspirina e via andare! Non in tutti i casi però, se la paziente era giovane e carina ( e ce n’erano parecchie), allora la visita si protraeva per ore. La frequentazione sull’isola di un numero sempre maggiore di stranieri e la conseguente attenzione degli organi internazionali, ha migliorato molte situazioni. Il decalogo dei diritti umani non viene stralciato come prima, quando non era possibile chiamare i propri figli con nomi Rapa Nui. Il dolce sguardo del mondo si è posato sull’isola, e da allora è garanzia di salvaguardia, nonostante la “democrazia dittatoriale” del governo cileno continui ad imperare.
Il tradizionale consiglio degli anziani (il n°1) è una vera e propria farsa. L’Alcalde dell’isola decide qualsiasi cosa per proprio conto. Le esigenze della comunità, che dovrebbero essere prese in considerazione proprio dal consiglio degli anziani retto dall’Alcalde, non vengono prese nella minima considerazione. Per Santiago, l’alcalde è il portavoce politico dell’isola. Nei decenni, il consiglio dei saggi ha subito manovre di corruzione dalla Capitale, tramite il “sindaco”. Negli anni ottanta, consapevoli di quanto stava succedendo, si assistette ad uno storico scisma, nacque il consiglio n°2, tentativo di contrapporre al consiglio n°1 una forza ortodossa, più radicata nelle profonde tradizioni culturali Rapa Nui. L’intento fu quello di integrare il potere decisionista del 1° consiglio in modo da allargare una forza propulsiva che rappresentasse adeguatamente l’anima dell’isola, lo spirito indigeno. Raul fece parte di questo II° consiglio, con l’unico risultato di convertirsi in un testimone vivente delle operazioni chirurgiche operate dal governo centrale: con un’abile strategia corruttiva, vennero demoliti gli ideali di quasi tutti i componenti del II° consiglio, e di conseguenza, fiaccata la forza propulsiva degli intenti iniziali.
Da quel momento in poi, Raul non ne ha voluto più sapere dell’isola e del suo destino. Si è trasformato in un materialista individualista. Cura ogni particolare del suo albergo — privo di televisioni — dedicandosi all’estetica e alla qualità del ristorante che segue personalmente:
– Viki è di un altro mondo…un’anima guerriera dall’idealismo inscalfibile — ci tiene a ribadire Raul. è una che continua la lotta stringata, consapevole delle difficoltà, dei risultati così ardui da raggiungere, messi come sono messi, sotto l’ala di un I° consiglio che, non rappresentando più nessuno, è divenuto un mero organo di controllo periferico, una sedia di potere che non fa altro che alimentare il fin troppo presente potere esterno, già di per sé prepotente e preponderante.
L’isola di Pasqua è Polinesia, per lingua, cultura, radici, musica e storia, eppure, il tallone dell’ormai consunto colonialismo spagnolo preme ancora, grazie ai suoi moderni eredi ed araldi.
Preme e spreme, anche qui, lo sviluppo globale, macinatore di preziose sfumature, allineando tutti alle mode stupide della televisione e dei cellulari (all’installazione della televisione, Viki, s’era decisamente opposta). E’ incredibile quanto sia lento e faticoso difendere le nostre tradizioni, la nostra lingua. Ci si perde su la vita per farlo, mentre questo mercato ottuso ci mette un niente ad invadere tutto, peggio d’un lampo malefico! Stenta a decollare e a prendere quota, invece, un bilinguismo reale, la cui vitalità parrebbe sacrosanta, come il diritto degli indigeni ad auto governare la propria isola senza dover sottostare ai capricci schizofrenici d’un governo lontano migliaia di chilometri, e millenni storici. L’invasione d’un modernismo senza intelligenza e sensibilità sembra proseguire il suo corso inarrestabile, proiettato verso lo sgretolamento di quel sogno, di quel paradiso e di quei misteri, come predisse Neruda. Si riuscirà a sollevare il sogno che il tallone imperante opprime con ineguagliabile mediocrità?

Le giornate di vagabondaggio, quelle passate con Viki e Raul, hanno forse risvegliato un filamento d’utopia e di speranza, seminandole un po’ dappertutto, indifferentemente se tra le polveri ocra delle strade, se nell’indefinibile linea in cui il blu passa da cielo a mare, o se nelle nostre anime d’erranti animali irrequieti. “Le piume che aiutano a volare” Viki me le pone al collo prima di giungere all’aeroporto. È un atto benaugurate di buon viaggio e di ritorni auspicabili che i Rapa Nui regalano a turisti ed amici.

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Terai Maea Puhi Hucki: Profondità del cielo che soffia in un corno di pietra producendo il richiamo.
Il dormiveglia in aereo, mi riporta allo scultore che ha raffigurato su una pietra le divinità pasquensi che mi porto dietro. È un uomo potente, ed il suo nome Rapa Nui lo è altrettanto: “Profondità del cielo che soffia in un corno di pietra producendo il richiamo”.
Mi ha raccontato del suo lavoro con la pietra. Approcci differenti a seconda se sia vulcanica o bianca, comunque relativo ai gradi di durezza, come se fossero persone vive. Alcune sono dolci, altre coriacee. La difficoltà sta nel trovarle, le pietre, perché spesso i padroni dei terreni non danno il permesso di cercarle nei loro fondi. “Mastro di pietra e marijuana, afferma d’essere un sacerdote dell’erba. Molti fumano senza sapere perché lo fanno, ma in un tempo remoto soltanto i sacerdoti potevano e dovevano farlo, p erché lo stato psichico alterato che in loro si produceva, serviva per scorgere soluzioni ai problemi comuni dell’intera comunità, linee da percorrere, destini da seguire.
I sacerdoti erano obbligati a fumare in determinati periodi, anche se non lo desideravano. La marijuana si fuma soltanto quando si è tranquilli, non certo sotto stress, ed ancor meno accompagnandola con la somministrazione di bevande alcoliche. Questa abitudine insana, produce soltanto intossicazioni, confusioni dell’anima. Anche le sigarette bisognerebbe mandarle in malora. Un uomo di spirito elevato non dovrebbe certo fumare la marijuana? È necessario avvicinarsi al suo spirito in modo sacro, accompagnati da uomini di medicina.
L’uomo che mi parla è imponente! Una montagna, segno che pervade (al limite zodiacale) il suo lavoro scultoreo. Le pietre, che siano vulcaniche o meno, si estraggono dalle montagne, e nel caso suo, vengono intagliate e raffinate da una montagna zodiacale. Porta i capelli lunghi al modo dei rasta, raccolti a co-con sopra il capo, come quelli degli antichi Moai.
“Profondità del cielo che soffia in un corno di pietra producendo il richiamo” è un capo, un capo-montagna-moai! Lo si capisce dal parlare maestoso, dal lampo vulcanico che gli attraversa gli occhi. Prima di congedarmi dall’isola, mi ha portato sui suoi colli alti, mostrandomi dove i sacerdoti antichi venivano a raccogliere le loro pietre. Ariki Paka, venivano chiamati. Nelle stagioni secche, si tingevano il corpo di giallo, collane di conchiglie al collo e corone con piume d’uccello sul capo. Salivano sui colli ed iniziavano la ricerca delle pietre parlanti, anche noi le abbiamo cercate. Una volta trovate, passavano giornate intere pregando che il Manà le impregnasse, danzavano per le pietre, in modo che divenissero sacre, giorno dopo giorno, fumando marijuana. Il tempo maturava ciò che per sua natura doveva maturare. Solo allora, gli Ariki Paka, scendevano dalle alture con le pietre benedette da Make Make. Le depositavano nei punti sensibili dell’isola, danzando e cantando, di li a poco sarebbe ritornata la pioggia. Se l’oceano diveniva sterile, scolpivano sulle pietre un piccolo Moai che rivolgevano al mare, lo sguardo alle onde. Danzavano per il piccolo Moai scolpito nelle pietre sacre, cantavano! Si racconta che facevano ritornare le tartarughe, e i pesci volanti riempivano le spiagge.

Commenti

2 commenti a “L’isola di Pasqua”

  1. E’ tra le migliorirecenzioni che ho trovato fino ad ora. Mi piace molto. Bravi

    Di maria | 23 Giugno 2011, 12:11
  2. Narrazione davvero suggestiva. Descrizioni e citazioni piacevoli e interessantissime.
    Anch’io vi dico “Bravi”!

    Di Anthony | 27 Luglio 2011, 01:32

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